“Dovrebbe esserci una
legge contro gli uomini che non sposano Myrna Loy”, disse
ambiguamente James Stewart nel 1937. Intendeva dire chi non vede
Myrna Loy nella donna che sposa? o che tutti avrebbero dovuto
desiderare di sposare lei in persona, l' attrice che il “Times”
definì allora la più moderna della sua generazione? La risposta ha
poco valore: la più duratura delle regine dello schermo degli anni
Trenta e Quaranta è rimasta un modello di sofisticata femminilità
anche per le generazioni seguenti. Probabilmente lo sarebbe anche per
quella attuale, se solo i giovani avessero idea di che cosa sia stata
(o forse dovrebbe essere ancora) la sofisticata femminilità.
Pin-up favorita di
Franklin Delano Roosevelt, lady-vamp come nessun' altra,
desiderata da legioni di uomini e invidiata da tutte le donne, Myrna
Adele Williams (ribattezzata Loy dal poeta russo Peter Rurick) poteva
far sorgere un solo dubbio: che anche lei, come tante divine del
cinema, fosse stata costruita a Hollywood.
Mai dea nel senso
attribuito alla Garbo (e poi, ad altro livello, a Marilyn Monroe)
Myrna aveva davvero tanta classe, tanto imperturbabile senso dell'
umorismo, tanto sex appeal ammantato di disivoltura? Era,
insomma, la sposa perfetta lanciata dalla serie di film sull'uomo
ombra? Credo proprio di sì. Myrna Loy: Being and Becoming
(essere e diventare), l'autobiografia scritta dall'attrice in
collaborazione con James Kotsilibas-Davis (Knopf, pagg. 372, dollari
22,95), si distingue dai memoriali del genere perché non vuole
rivelare niente di straordinario: è solo il racconto di una vita
spesa compostamente, intelligentemente, col sorriso, ma anche con
l'impegno politico, anche con una rara dirittura morale.
Myrna Loy è esattamente
ciò che è sempre sembrata: una donna divertente e divertita, una
donna-donna, testa sulle spalle e appena quel tanto di avventurosità
sentimentale che la fa essere spregiudicata perché onesta,
desiderabile perché insieme aperta e sfuggente. “Avrei voluto
essere una moglie orientale”, scrive: sottomessa all'uomo per non
fargli capire quanto forte sia la sua donna. Un'idea ultrapassée?
Non in lei, non in Myrna Loy. “Non è una diva, -disse una volta
George Cukor - è una persona vera, che nessuno riuscirà mai a
costringere al compromesso”. “Ha un sorriso che cambia
automaticamente soggetto”, ribadì Joseph Mankiewicz.
Il padre di lei, un
ranchero del Montana, la chiamava “il mio piccolo soldato”, per
come era tranquilla, assennata, eternamente serena. Fu con quella
serenità che, quando la famiglia si trasferì a Los Angeles, Myrna
Loy lasciò la scuola e si mise a lavorare, per aiutare le finanze di
casa. Avrebbe fatto 124 film (l' ultimo, Just Tell Me What You
Want, diretto da Sidney Lumet, lo ha girato nel 1981, a 76 anni);
ma allora sognava la danza e il teatro. Alla danza vera non arrivò
mai, e sulla scena mise piede per la prima volta a quasi
sessant'anni, con l'ardore di una novizia. Non credeva che il cinema
fosse la sua strada, ma la misero a fare la Baccante in uno di quei
balletti che all'Egyptial Theatre precedevano allora il film.
Qualcuno la notò, e Myrna planò silenziosamente davanti a una
cinepresa.
Per anni fece donne
cinesi, malesi, messicane, zingare, odalische (“mi venne così -
dice ridendo - l'idea della moglie orientale). Natasha Ranbova, la
moglie di Rodolfo Valentino, disse nel 1925: “Non si capisce se
questa ragazza è innocente o sofisticata (intendeva esperta). È
certo però che sarà il simbolo di questo decennio”.
LEI non lo sapeva. Poi
però, in La maschera di Fu Manchu, volevano farle frustare un
uomo e lei ebbe la sua brava ribellione. “Mi rifiuto di fare questa
parte, - disse - questa donna è una ninfomane sadica”. “Cosa
vuol dire?”, replicò il produttore, sbalordito. E oggi Myrna
commenta: “Hollywood allora era così, ma io avevo letto il mio
Freud”. Lo aveva letto talmente bene, che di Valentino dice: “Era
una pantera, ma solo sullo schermo: nella vita era un meccanico, gli
piaceva riparare automobili. Io credo che avesse bisogno soprattutto
di una madre”.
Di giudizi simili, sempre
sul filo dell'ironia, il libro è pieno. Nessuno di questi giudizi,
nemmeno quelli conclusivi sui suoi quattro mariti (tutti maniaci
egotisti), è aspro. Di un marito, che le impedì di fare la
conoscenza di Roosevelt perché le aveva fatto un occhio nero, dice:
“Mi aveva colpita con una statuetta di Rodin. Sempre uomo di
classe, il mio Gene”. E di Gary Cooper, scrive: “Ti metteva la
testa sulla spalla come nulla fosse. Anche lui era bisognoso di
affetto materno”.
Che fosse lei, per
quell'impasto di incrollabilità e di tenerezza, per la sua languida
sessualità (gli occhi eternamente velati a mezz' asta, le labbra
carnose), a ispirare sentimenti simili? Per anni, soprattutto dopo
che Jack Warner la mise sotto contratto avviandola al lavoro di
schiava, Hollywood la vide esotica. “Cosa fai?”, le chiedevano le
colleghe, Joan Crawford per esempio. “Un'altra esotica”,
rispondeva laconicamente.
Nel frattempo la sua vita
non era da educanda. È il solo particolare di questo libro destinato
a riaccendere una certa fiamma in una certa generazione (se non altro
una fiamma nostalgica). “John Ford, uomo peraltro sensibile, mi
invitava alle sue feste ed erano mezze orge. Come erano divertenti!”.
Mentre cercava l' uomo ideale e stava alla larga dai potenti, vedendo
come questi alla fine scaricavano le altre, Myrna era perfettamente
consapevole di cosa lei provocava, appunto, nei potenti. Con
l'arrendevolezza dell'ottantenne che ormai non ha più nulla da
mantenere privato, scrive infatti: “Ford avrebbe dato il mondo
intero per avermi. Invece mi accompagnò all' altare quando sposai
Gene Markey”. Oppure: “Irving Thalberg aveva l' abitudine di
parlarmi guardando fuori dalla finestra. Un giorno glielo feci
notare. Lui, il titano di Hollywood, parve sorpreso. Da allora prese
a guardarmi”.
Tutt'altro che ingenua,
dunque. Fece mille esotiche (sessanta film in tutto, girati anche tre
alla volta) per arrivare alla moglie perfetta. Ingenui, semmai, erano
gli uomini. “Devi perdere il velo della tua... timidezza”, le
disse lo stesso Thalberg. E lei: “Avevo perso altro che quel velo!”
La
moglie perfetta nacque perché su un testo di Dashiell
Hammett, Myrna Loy e William Powell seppero rendere accettabile la
commedia coniugale. Nel primo come nell'ultimo dei quattordici film
in cui la coppia Loy-Powell interpretò Nora e Nick Charles di L'uomo
ombra, fu lei, secondo George Cukor, a dare brio alla faccenda.
Erano splendidi insieme perché lui calcava sempre un po' troppo la
mano e lei la calcava sempre un po' troppo poco. La reazione chimica
era piena di grazia, di fascino. Grazia e fascino: Myrna Loy aveva
trovato il suo approdo essere se stessa mentre sembrava che
recitasse. Aveva grazia e fascino sullo schermo, in abito da sera o a
letto; ne aveva quando nel 1936 si mise alla testa di uno sciopero. E
mantenne l'una e l'altro nel suo periodo di maggior fulgore, gli anni
che vanno dal 1936 al 1942 (il periodo che la incoronò perfetta diva
del cinema, secondo Henry Fonda); poi negli anni 1942-47, quando
scoprì l'Europa da mezza espatriata; e ancora dopo quando, rientrata
a Hollywood, fu attaccata dai maccartisti. (“Fecero male. Feci
causa e dovettero ritrattare tutto; ma mi convinsero che uno dei mali
americani è quello di dimenticare troppo spesso che abbiamo diritto
alla libertà politica”).
La vecchia signora che è
oggi Myrna Loy contempla con la serenità di sempre la sua vita. Fa
quasi dimenticare che il tempo passa. “Ho speso molto denaro –
scrive - ho speso molte energie sentimentali in matrimoni avventati.
Se fossi giovane oggi non mi sposerei, naturalmente. E qualcosa ho
fatto nel cinema, nel teatro, per le Nazioni Unite, per la pace e la
libertà. Mi preoccupa il galoppante pragmatismo che infesta l'
America, come dimostra l' affare Irancontras. Una volta a Hollywood
mi sgridarono perché difendevo gli ebrei che giacevano sotto il
tallone di Hitler. Ipocriti e fascisti! Oggi, sotto sotto, si fa
anche di peggio...”.
Myrna Loy vive ancora,
intensamente. È sempre, al di là degli anni, la donna perfetta che
niente e nessuno, se non il suo buonsenso, rappresentò sullo
schermo. Ciò che la salva è il suo ridere di quella perfezione. “Se
tutti capissero che siamo qui solo di passaggio...”, dice. Non si è
ancora arresa a non essere bella. In più di un senso.
“la Repubblica”, 12
febbraio 1988
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