Louis Pergaud |
Nato nel 1882 a Belmont,
una piccola località di campagna nel Doubs, Louis Pergaud, dopo
avere frequentato la «école normale» di Besançon, cominciò
a insegnare e nel 1904 pubblicò un libro di poesie, «L'Aube». Si
cimentò subito dopo con la prosa, con il racconto. Scriveva, almeno
in apparenza, per gli adolescenti: storie di animali, di bambini, di
ragazzi. Nel 1910 vinse il Goncourt con la raccolta di novelle De
Goupil à Margot, uscita l'anno prima. Seguirono La revanche
du corbeau (1911), La guerre des boutons (1912) e Le
roman de Miraut (1914).
Alla vigilia della prima guerra mondiale
lo scrittore consegnò al “Mercure de France” Les rustiques
e subito dopo, il 3 agosto 1914, Pergaud venne chiamato sotto le armi
a Verdun. Nella notte fra il 7 e l’8 aprile 1915 scomparve nei
pressi di Marcheville e il suo corpo non fu mai ritrovato.
In Italia
La guerra dei bottoni è stato pubblicato diverse volte:
l’edizione Einaudi del 2003 fu curata da Laura Pugno, che è
traduttrice anche della straordinaria novella qui postata, che ha
come protagonista un tasso e racconta una tragica e feroce caccia dal
punto di vista della preda. È tratta dalla raccolta postuma La
vie des bètes : études et nouvelles, pubblicata
in Francia nel 1923 e in Italia ancora inedita. (S.L.L.)
I cacciatori dalle zampe
lunghe, con i loro bastoni di morte, e la familiare orda di cani
urlanti si erano appena fermati, dopo una breve salita, e con grida
tremende e urla basse e roche - risa e latrati - davanti al buco in
cui Tasson, il vecchio tasso, aveva fatto la sua tana da quattro o
cinque nevicate a quella parte. Nel rifugio, Tasson era in ascolto.
La terra, sotto quei gran colpi di martello, tremava, e le vibrazioni
che gli giungevano, contrariamente a quanto era successo in tutte le
cacce precedenti, non si attenuavano: sembravano anzi amplificarsi,
divenire più potenti, più intense, più forti. La situazione, senza
dubbio, era grave.
Di solito, quando il
nuovo giorno lo sorprendeva all’aperto e gli giungevano rumori
inquietanti, richiami di cacciatori o uggiolar di cani, filava via
per i sentieri sui sassi su cui le sue zampe non lasciavano traccia e
riguadagnava, dopo qualche prudente deviazione, la sua casa nella
roccia. Allora sentiva lo scalpicciare della caccia che di colpo
arrivava dalle parti della sua dimora, e le vibrazioni che scorrevano
lungo il suolo, mescolate alle raffiche di latrati; ma presto tutti
quei rumori si fondevano, si diluivano, si dividevano come se il
grande fiume d’odio che gli stava alle costole si fosse diviso, a
poco a poco, in un’infinità di minuscoli ruscelletti sonori che a
loro volta sarebbero stati inghiottiti dalla solenne tranquillità
della foresta e del mattino.
Ma stavolta si era forse
attardato troppo. Prima di rientrare precipitosamente nel suo buco
aveva sentito la terra tremare, rumori di falcata e degli strani
richiami, le grida degli zampelunghe, gli sputafuoco che di solito
portano al guinzaglio, per i sentieri del bosco, i loro famigli
abbaianti e dal lungo vello, i cani. Non si trattava più solo di
vibrazioni, erano dei colpi, eco di passi, colpi di tossi, voci
improvvise, grida intraducibili e ansiti mescolati a odori forti e
mefitici, che dal canale d’ingresso della sua dimora giungevano
fino a lui. Erano alla porta: avevano scoperto la sua tana.
Tasson, dal fondo del suo
rifugio, avanzò lungo il corridoio e si avvicinò all’entrata
tanto quanto la sua naturale prudenza gli permetteva. I cani lì
fuori, sentendo il suo odore, abbaiarono con furia. Anche il vecchio
tasso respirò il loro odore riempiendosene le narici e il suo
musetto appuntito, che fremeva, con una specie di riso animale, di
muta soddisfazione, passò la lingua sulle sottili labbra nere.
Le palle di pelo non ce
l’avrebbero fatta a entrare. Non potevano, avevano zampe troppo
lunghe, gli uomini come i cani. Tasson si tranquillizzò. L’autunno
stava per finire, e lui era grasso, poteva attendere e digiunare
giorni interi: gli altri si sarebbero sicuramente stancati.
Tasson sapeva che la
notte era dalla sua parte, e l'oscurità e la fame li avrebbero
piegati e fatti tornare alle loro case e che il sonno li domina ben
più che le bestie selvatiche. Sapeva tutto questo, il vecchio tasso,
e molte altre cose ancora: che in un canale stretto come il corridoio
di casa sua, poteva aggredire la prima bestia latrante che avesse
osato avventurarsi nelle tenebre a lui familiari e che gli altri ci
avrebbero pensato due volte prima di tentare l’assalto quando fosse
stato il loro turno. Sapeva anche che la sua tana era perduta e che
avrebbe dovuto, non appena di nuovo libero, abbandonare il suo buco,
quell’angolo di pace, perché ogni tana che veniva scoperta dagli
uomini era traditrice e maledetta, piena di trappole e di pericoli.
Ciononostante il rumore
di fuori non accennava a cessare, e all’abbaiare, alle grida, agli
echi di passi si mescolavano anche stridori di seghe e scricchiolio
di rami.
Che poteva significare
tutto quello schiamazzo? Il vecchio Goupil du Fays, che aveva
incontrato una notte in una buca del terreno, gli aveva detto che
quanto meno l’uomo fa rumore, all'entrata delle tane, tanto più
bisogna diffidarne; e la vecchia volpe non parlava certo alla
leggera; ma nel caso specifico, quell’eccesso in senso contrario
sembrava al tasso altrettanto temibile.
E Tasson, rattrappito
sulle sue zampette corte, gli occhi strabuzzati, le narici aperte e
frementi, attendeva con pazienza.
Improvvisamente, l’arrivo
di una nube soffocante, qualcosa di acre e di impalpabile gli accecò
le pupille e gli punse le narici. Istintivamente, indietreggiando,
cercò di azzannare, come se un nemico invisibile si trovasse davanti
a lui, ma le sue mascelle, spalancate e subito rinserrate, si
richiusero l’una sull’altra; non aveva afferrato altro che il
vuoto, e il nemico l’accecava sempre più, lo prendeva alla gola,
gli frustava le mucose. Più volte di seguito, serrò i denti su
quell’avversario misterioso e terribile e alla fine riuscì a
socchiudere un poco le palpebre. Allora si rese conto che il canale
d'ingresso, che poco prima era limpido, era oscurato da una caligine
tiepida, aspra e cattiva, che gli toglieva il respiro e lo faceva
indietreggiare fino all'angolo più riposto della tana.
E poi faceva caldo nel
suo canaletto di roccia, troppo caldo. Che cos’era quella nuova
specie di bruma creata dai cacciatori o dai cani ? Di solito, nelle
mattine d’autunno, quella che sale dalla terra è fresca e
profumata, ma tutto ciò che emana dagli uomini è veleno e pericolo.
Impossibile arrestare
quell’invasione bianca che lentamente e cautamente strisciava verso
di lui. Tasson, coraggiosamente, gli mostrò i denti. Chiaramente, il
pericolo aumentava. Ciononostante, la foschia velenosa, come se
l’atteggiamento risoluto del tasso e i suoi vani tentativi di
azzannarla l’avessero impressionata, esitava ad attaccarlo di
nuovo. Solo qualche filo di fumo, rasoterra come serpenti irreali,
scivolava verso di lui lungo le pareti. Quando si furono fusi nel
grigio delle pareti di roccia, Tasson, inquieto, temendo un attacco
subdolo, degli imprevedibili colpi di frusta, restò a lungo in
posizione d’attacco, con i denti in mostra e gli artigli già
pronti.
Ma il vento era a favore
dell’animale e invece di favorirne la diffusione, richiamava fuori
il fumo che, a poco a poco, sembrò battere in ritirata e scomparve.
Tuttavia, i suoi nemici
erano sempre lì fuori. Le voci umane si alternavano ai guaiti, le
grida e le risate agli uggiolìi. Il suo buco era ben presidiato: ad
avventurarsi nel corridoio e a lanciarsi per le campagne si correva
pericolo di morte.
Tasson, paziente, si
rattrappì ancor di più sulle zampe ed attese la notte, certo che
l’ombra, la sua complice nemica degli umani, gli avrebbe permesso,
anche se la sua tana era ancora assediata, di approfittare di un
istante di distrazione dei carcerieri per filarsela e sparire nelle
tenebre. No, non aveva fame, ed era grasso, e sapeva attendere. Se
necessario, sarebbe restato di guardia per giorni e notti, per
scegliere il momento giusto, e quando non se lo aspettavano affatto,
se la sarebbe svignata alla faccia dei suoi nemici. No, non l’avevano
ancora messo nel sacco!
Passò del tempo che non
avrebbe saputo misurare, le sue fruizioni digestive erano come
sospese e la sua attenzione concentrata all’esterno. Ed ecco che al
rumore delle voci si mescolò un altro rumore, secco e duro, a volte
acuto e a volte sordo, ma cadenzato, e che risuonava in profondità.
Una specie di grande dente di feno, incredibilmente potente, stava
lacerando la ter-
ra e la roccia della
tana. Sentiva i colpi di piccone abbattersi uno dopo l’altro, e
dopo ogni scossa, che corrispondeva a un rauco grido umano, pietre e
zolle d’erba rotolavano da parte con un tonfo duro o sordo, a
seconda della violenza dello sforzo.
La situazione era ancora
più grave.
Tasson, immediatamente,
si rese conto, che i suoi nemici non avevano intenzione di
aspettarlo, ma che volevano arrivare fino a lui; dunque, per
evitarli, bisognava fuggire, costi quel che costi. Risolutamente, con
denti e artigli, attaccò la terra per allungare il canale d’accesso
della tana e orientare una via di fuga, prima più in profondità e
poi verso l’alto.
Ma i colpi di zappa e di
piccone risuonavano sempre più forti all’entrata del sotterraneo;
si fermò ad ascoltare. Sì, i colpi proseguivano, i latrati e le
grida continuavano e, constatazione più grave, la luce complice
degli uomini entrava a fiotti nel corridoio, come per guidare i suoi
nemici e rivelargli la posizione della loro pietra.
Tasson, pietrificato,
capì che non avrebbe fatto in tempo a scavare un nuovo tunnel di
uscita. D’altro canto, l’imboccatura del corridoio, così
allargata, consentiva ora ai cani di passare; il pericolo si
concentrava ora da quel lato; bisognava stare in guardia per farvi
fronte, se fosse stato necessario.
Gli occhi fiammeggianti,
furibondo, pronto a ferire, si voltò. Ma i cani non si azzardavano
ancora. Prudenti, i padroni li trattenevano presso di sé.
Per un attimo, i colpi di
piccone cessarono di martellare la roccia. Tasson ritrovò la
speranza. Forse gli uomini si erano stancati? Forse anche loro si
scoraggiavano come a volte capitava anche a lui, durante gli agguati
che duravano troppo a lungo. Ma la sua speranza fu di breve durata.
Presto, nel canale
d’accesso, una lunga pertica di legno verde avanzò a tentoni,
dolcemente, come per cercarlo, per sondare la profondità, per
scoprirlo, certo, e forse per colpirlo. La vide venire, urtando lungo
le pareti, raddrizzandosi, cercando la rotta come il braccio di un
cieco, e quando gli fu davanti, pronta a toccarlo, preso da una furia
improvvisa gli saltò sopra, l’azzannò violentemente, con tutti i
denti, serrando le mascelle per stritolarla, gli occhi rossi di
rabbia.
Visto che osava venire,
avrebbe scoperto quanto male potevano farle i suoi denti! E come se
quel morso le avesse fatto veramente male, la pertica di legno, con
la corteccia scorticata, si ritirò, mentre all’entrata della tana
le grida e le risate raddoppiavano d’intensità.
Tasson si disse che gli
uomini dovevano essere rimasti delusi, visto che gridavano così
forte, e se ne rallegrò; e pensò anche che il loro attacco era meno
pericoloso di quanto non avesse temuto, dato che con un solo morso
aveva avuto ragione del loro alleato e l’aveva fatto fuggire.
Ma i colpi di piccone
ripresero, si avvicinarono, si fecero più distinti, ed ecco che di
nuovo il braccio di legno venne a tormentarlo nel suo rifugio. Con
ancor più foga e violenza, ben deciso a farla finita, gli si scagliò
di nuovo addosso e l’azzannò, l’attanagliò, la stritolò sotto
le mascelle; ma questa volta la pertica si difese, gli si rigirò in
bocca e cercò di tirarlo in avanti, cercò di rovesciarlo su un
fianco e con tanta abilità che dovette mollare la presa. E prima di
ritirarsi, bruscamente, gli si scagliò addosso un colpo e gli
assestò in pieno petto un colpo di punta che non riuscì né a
prevedere né a evitare, e che gli mozzò il fiato.
Decisamente, i suoi morsi
al nemico non avevano fatto alcun male; i suoi attacchi si facevano a
ogni istante più pericolosi. Tasson doveva stare attento.
E i colpi continuavano a
tuonare, e la terra e le pietre a rovinare, e la luce entrava, e i
colpi di passi, le grida e l’abbaiare si facevano sempre più
vicini.
Finché, dopo uno
smottamento più forte, Tasson vide... stivali d’uomini e zampe
inquiete degli animali, e gambe come tronchi di quercia, e zampe,
innumerevoli zampe di cani che passavano e ripassavano e ritornavano
ancora sui loro passi. Uno sciame di nemici, una folla di assassini
che lo spiavano, pronti a saltargli addosso come fosse apparso. E la
notte su cui aveva contato, la notte che non arrivava! Come fare?
Molto presto, parecchi di loro avrebbero potuto sfondare l’ingresso!
I colpi continuavano a piovere.
Come si fermarono, i cani
si scagliarono verso la tana, con gli occhi iniettati di sangue,
ansimando violentemente e abbaiando di rabbia. Tasson emise un
ringhio sordo. I cani lo videro. Uno di loro, il più ardito, passò
davanti agli altri. Il tasso, con i denti scoperti, era pronto
all’attacco; davanti alla minaccia dei suoi canini enormi, il cane
esitò. Due avversari terribili si misuravano. Ma richiamato dal suo
padrone, il cane, obbediente, indietreggiò, con gli occhi sempre
fissi sul nemico.
Tasson sentì gli uomini
gridare più forte. Il suono argentino delle batterie dei fucili che
venivano armati gli sembrò un rintocco funebre, e quel rumore
metallico, che gli ricordava l’uomo e i suoi pericoli, gli diede i
brividi e gli fece drizzare i peli sulla schiena.
Una voce riprese,
dominando il tumulto: “Tenete i cani e i fucili pronti che lo
arpiono”.
E la mano di legno,
preceduta stavolta da un uncino grigio come un grande artiglio di
ferro, appuntito e ripiegato come un gancio, s’infilò per
l’apertura e avanzò verso l’animale. Tutto rannicchiato il tasso
la vide venire e si preparò, presentendo che quello era un nemico
terribile.
L’arpione si
avvicinava, stava per toccarlo, gli sfiorava la spalla Di colpo
Tasson l’azzannò, serrò i denti e conficcò gli artigli nel pezzo
di ferro. Ma quello, impassibile e invulnerabile, gli si rigirò in
gola e scivolò, gelido, sotto la presa dei denti. Cercò di
afferrarlo nuovamente, di azzannarlo ancora, di stritolarlo; allora
l’altro gli si infilò violentemente in gola, si avvitò su se
stesso e poi, affondando di colpo, morse ferocemente le carni
dell’animale con il suo uncino d’acciaio e ghermì le mascelle
della bestia per non lasciarle più. Tasson fece degli sforzi
disperati ma un dolore atroce lo feriva, togliendogli finanche la
possibilità di mordere o di urlare, mentre l’arpione di ferro,
retto da una mano implacabile, lo trascinava spietatamente verso la
luce.
Malgrado il dolore, il
tasso comprese che, se usciva alla luce, tra gli uomini e i cani e
così ridotto all’impotenza, era perduto. E, irrigidendosi sulle
zampe e inarcando la schiena, con le reni tese in uno sforzo
disperato, si aggrappò alla terra. Ma invano! Passo dopo passo
dovette seguire il crudele arpione che l’aveva uncinato, con la
gola sanguinante e il collo spaventosamente teso.
E come apparve fuori
dalla tana e non appena, in un istante, i suoi occhi iniettati di
sangue ebbero intravisto, in una vertigine di terrore, il movimento
degli uomini e dei cani che gli si precipitavano addosso, un colpo
tremendo assestato sul cranio, il colpo di una mazza di quercia, lo
stese ai piedi del suo carnefice tra la marea urlante delle bestie
che si accanivano su di lui.
Il tremito durò ancora a
lungo nel suo corpo e quando, appeso per le zampe alla pertica
maledetta portata da due cacciatori, venne portato in trionfo al
villaggio degli uomini, col cervello già oscurato dai fumi della
morte, i suoi occhi ancora limpidi poterono scorgere, di lontano, il
sole che rosso annunciava l’approssimarsi della notte, e che rideva
d’un riso sanguinario basso sull’orizzonte.
“il manifesto”, 17
agosto 2006
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