Mastroianni in "Sostiene Pereira" |
Una sera l'ambasciatore
americano Maxwell Rabb, per festeggiare la visita romana di Nancy
Reagan, aveva deciso di invitare a cena non politici e diplomatici ma
personaggi della finanza, della moda, dello spettacolo, i principi
del giornalismo, gli scrittori, gli artisti. Aveva fatto le cose per
bene, come si girava l'occhio si vedevano solo volti celebri e, tanto
per citare solo la gente del cinema, per far compagnia alla Loren,
per l'occasione, Gregory Peck. Insomma, si aveva proprio
l'impressione che lì si fosse dato convegno tutto il mondo. Mentre
si prendevano gli aperitivi, Marcello Mastroianni stava in un angolo
con me, quasi per appartarsi con un amico che non gli incutesse
soggezione, e mi raccontava come al solito barzellette.
Ne era un grande e
prolifico raccontatore, poteva tirare sino a tardi, e talora l'ho
visto, quando aveva terminato il repertorio, telefonare al suo
fornitore massimo, un fratello che abita in Argentina, incurante
dell'ora che facesse in quell'emisfero. Lo tirava giù dal letto, si
faceva dire l'ultima, e tornava dagli amici con una nuova storia. Poi
(quella sera) è venuta l'ora di recarsi a tavola e, mentre si andava
verso la sala da pranzo, Marcello mi ha preso sottobraccio, ha mosso
la testa come per indicarmi quell'accolta di persone importanti, e mi
ha detto: "Se mi vedesse la mia mamma...".
Si noti che l' episodio
si svolgeva una decina d' anni fa, quando ormai Marcello era già
celeberrimo, tutte quelle persone le conosceva benissimo, e per la
maggior parte erano loro che si sentivano onorate di essere con lui.
Per cui si potrebbe dire che stava scherzando, stava recitando la
parte del ragazzo di provincia. E forse era anche così, perché
l'autoironia era la non ultima delle sue virtù. Ma per fare una
parte (i bravi attori lo sanno) bisogna entrare in parte, sentirsi in
parte, essere in qualche modo disposti alla parte. Voglio dire che (e
quella sera l' ho capito benissimo) Marcello era anche sincero, stava
semplicemente dicendo che era ancora un ragazzo venuto dal niente,
che non si era adattato alla fama. E (sia che lo facesse sia che lo
fosse) si comportava da "mammone", tenero e indifeso, che
avrebbe voluto raccontare alla madre non tanto quanto fosse bravo, ma
quanto la gente ormai pensava che lo fosse.
A poche ore dalla notizia
della sua scomparsa già ho sentito citarlo come il più tipico
attore italiano. Francamente, queste etichette valgono sempre quel
che valgono. Tanto per cominciare, credo si debba ricordarlo come uno
dei più grandi attori del secolo, e questo basterebbe. Certamente ha
rappresentato il cinema italiano nel mondo forse più e meglio di
ogni altro, e ha quasi sempre interpretato personaggi tipicamente
italiani (si pensi alla Dolce vita). Ma ha saputo diventare
per esempio un memorabile Pereira portoghese, cosa che forse altri
attori più tipicamente italiani non avrebbero saputo fare. Forse lo
sentivamo (per orgoglio) dei "nostri", ma proprio perché
ci liberava dalla persuasione che un italiano dovesse necessariamente
essere una maschera della commedia dell'arte. Molti attori (anche non
italiani) diventano una "maschera" e finiscono per credere
di essere quello che avevano finto di essere (si pensi a John Wayne).
Invece Mastroianni era sempre lui, un uomo come noi, e così lo
amavamo, per quella sua tenerezza malinconica, per quella sua umanità
ironica, per quella sua impalpabile insicurezza, tanto che - direi -
in ogni suo film egli entrava in scena dando l'impressione di non
sapere chi e che cosa fosse, e cercava di capirsi a poco a poco,
mentre diventava il suo personaggio, o il suo personaggio diventava
lui - ma anche alla fine ci lasciava con uno sguardo ancora
interrogativo.
Recitava quella sera
all'ambasciata americana, mentre parlava a un solo spettatore? O si
chiedeva davvero che cosa gli fosse successo nella vita e perché mai
fosse finito lì? E forse ha fatto qualcosa di diverso nei suoi film?
Mai un attore ci ha forse tanto consolato della perplessità di
essere al mondo.
“la Repubblica”, 20
dicembre 1996
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