Tra il
dicembre 1989 e il giugno 1990 Nicola Tanfaglia condusse una lunga
intervista a Pietro Ingrao sulla sua esperienza di vita e sulla sua
attività politica e intellettuale, all'interno di un progetto
elaborato dall'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e
Democratico. Dalla lunga intervista fu ricavata una videocassetta
intitolata Le cose impossibili. Il testo integrale apparve poi
in volume presso gli Editori Riuniti. Alcuni stralci vennero
anticipati da “la Repubblica”, donde ho tratto il brano che
segue. (S.L.L.)
Possiamo
dire in un certo senso, che i Littoriali da una parte erano degli
elementi di mobilità culturale e sociale e dall'altra erano uno
spazio che lo stesso regime fascista lasciava più libero di altri
spazi per dare sfogo a esigenze dei giovani. Questo almeno sembra il
modo in cui tu li hai vissuti e coincide con altre esperienze di
giovani della tua generazione. Mi sembra un giudizio corretto. E
tuttavia, se devo stare alla mia esperienza diretta, direi che
l'elemento di messa in comunicazione, di sprovincializzazione, è
stato più forte dell'elemento di controllo e di ingabbiamento.
Io sono
andato ai Littoriali di Firenze, in stivaloni e in camicia nera.
Vestito così la prima cosa che ho fatto è andare al mitico (per me)
caffè delle Giubbe Rosse per incontrare Eugenio Montale, il poeta
che aveva scritto quei versi scabri e desolati che dicevano: codesto
solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo / ciò che non
vogliamo. Ho ancora negli occhi l'espressione tra incuriosita e
annoiata del poeta, che si vedeva davanti quell'oscuro giovane
provinciale vestito in quella maniera. Le cose nella vita non sono
mai tagliate con l'accetta.
Ecco, se
tu dovessi quindi stabilire un anno in cui si passa da questa prima
fase di incontri a una fase più decisa di autorganizzazione e di
dibattito nel senso dell' antifascismo, tu che anno diresti?
Posso dirtelo per me.
Certo,
per quanto riguarda te.
Sì, perché
alcuni del gruppo romano di giovani intellettuali comunisti di cui ho
fatto parte c'erano arrivati prima, e per vie molto più nette e
dirette alle mie. Penso, per esempio, all'esperienza di Lucio
Lombardo Radice, di Aldo Natoli, di Paolo Bufalini. Ma per me il
punto discriminante ha proprio una data precisa: è la guerra di
Spagna. Se mi lasci passare una frase un po' retorica, direi che la
guerra di Spagna, proprio, è una data che spacca la mia vita: da
allora comincia un altro cammino. Come quando svolti un angolo.
Perché? Perché a quel punto cambia ormai senza remissione il mio
giudizio sul fascismo e comincio a rendermi conto che bisogna
lottare. Ancora negli anni che precedono l'intervento in Spagna,
sulla questione della guerra d'Etiopia, dentro di me passo attraverso
oscillazioni di dissenso e di consenso: te l'ho già detto. Le cose
invece cambiano radicalmente, quando avviene l'intervento della
guerra di Spagna. Chissà come, un giorno, un momento avvengono certe
cesure nella vita. E nessuno, in quel giorno, in quel momento ci
sussurra all'orecchio che d'ora in poi sarai un altro. Io ormai
vivevo a Roma. Avevo conosciuto giovani che mi parlavano di un'altra
cultura e mi presentavano un'altra lettura del fascismo, dell'Italia
del primo trentennio, delle vicende che avevano portato alla
dittatura fascista. Leggevo o cominciavo a leggere altri libri, e
anche altri giornali (ricordo che compravo “Le Temps” che
arrivava ancora nelle edicole di Roma). Ma il fatto che spezza ormai
le mie oscillazioni e mi spinge verso una scelta di campo è
l'aggressione fascista e nazista alla Spagna. Perché? Perché non
riuscivo a vedere alcuna motivazione nazionale per quell'aggressione.
E perché mi appariva come pugnalata a un paese che cercava di
liberarsi. Naturalmente io ti parlo della mia esperienza. Per altri
della mia generazione il fatto che li portò alla rottura col
fascismo fu la guerra d'Etiopia. E anche la storia del gruppo di
giovani intellettuali, che si formò a Roma alla metà degli anni
Trenta e che dette poi quadri dirigenti di forte rilievo al Pci, è
notevolmente differenziata quanto ai tempi, alle vicende, alle
culture. Io arrivai alla cospirazione antifascista e anche alla
scelta comunista parecchio più tardi di altri. Paolo Bufalini,
Pietro Amendola, Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice per fare solo
alcuni nomi giunsero ben prima di me e di Alicata. Essi si formarono
in un contatto con un giovane comunista come Bruno Sanguinetti (oggi
ingiustamente dimenticato), con cui io ebbi, soltanto dopo, un
rapporto sporadico. Essi conobbero e parlarono con Giorgio Amendola,
reduce dal confino di Ponza, e l'aiutarono ad espatriare. E anche gli
itinerari culturali erano differenti. Alcuni (come Bufalini, che ebbe
allora una funzione essenziale) mi sembra che partirono in quegli
anni da un orientamento che oggi chiameremmo liberaldemocratico;
altri furono orientati quasi subito a una scelta comunista; altri
(Paolo Alatri, Paolo Solari) erano allora dei liberali. Trombadori,
per non parlare di Guttuso e dei milanesi Treccani e De Grada,
venivano dall' esperienza e dalla riflessione sull'arte. Io ero un
provinciale, con una confusa spinta populista, innamorato del cinema
e della poesia decadente italiana. Alicata combinava l'attenzione per
Montale con una polemica passione carducciana. Per non parlare di
altri filoni come il fascismo di sinistra di Zangrandi e del suo
lungo viaggio verso il comunismo. Insomma le cose non furono
univoche. In ogni modo, per me l' evento che mi spostò fu quello:la
guerra di Spagna.
E conta
anche l'alleanza dell'Italia con la Germania nazista?
Assolutamente,
sì: in quel momento (adesso proprio lo fisicizzo) esplode in campo
internazionale un protagonista: Hitler, il nazismo. Questo cambiò
radicalmente tutto il quadro. In un senso immediato: perché smontava
tutta la giustificazione nazionalistica del fascismo. Con Hitler e
col nazismo era aperto già un contenzioso che noi ci portavamo
dentro (t'ho detto che la questione dell'Anschluss fu un'
altra tappa del cammino di tanti sulla via dell' antifascismo). E
secondo, assai più importante: perché Hitler mi apparve con un
segno sconvolgente. Che io mi ricordi proprio di avere mai pensato
che Hitler potesse dirmi qualcosa anche quando aderivo ancora al
fascismo questo proprio non sta nella mia memoria. Forse perché
Hitler irrompe subito sotto il segno di una violenza senza limiti e
senza confini: un dominio che schiaccia, calpesta storie, culture,
nazioni, sfere della vita, e nel senso (adopero ancora questa parola)
fisico. È difficile spiegarlo oggi, a un giovane di oggi; perché è
difficile rendere quella condizione (in cui noi ci siamo trovati) di
avere paura, terrore che il mondo cadesse nelle mani di Hitler. Io
sentivo che un tale esito contraddiceva a tutte le cose a cui volevo
bene, di cui mi occupavo: la poesia, il cinema di Charlot e
dell'anarchico Clair, un modo di concepire i rapporti umani,
l'autonomia di me stesso... Insomma la paura fu proprio grande; ed è
stato uno dei punti decisivi che ha spostato tutta la mia esistenza,
che mi ha 'gettato' nella politica.
Hai fatto
cenno al cinema. Perché ti sei iscritto proprio nella metà degli
anni Trenta al Centro sperimentale di cinematografia? Che cosa è
stato nella tua esperienza?
Sì, il
cinema. Perché mi affascinava? Come forma di espressione nuova,
grande mezzo moderno di comunicazione di massa. Una sete
insoddisfatta di comunicazione, una ricerca confusa di strumenti
espressivi, l' impressione, in tanti incontri, di non riuscirci mai a
dire le cose che premevano sono sempre state un assillo per me.
Quante volte avevo la sensazione di colloqui inutili o di
conversazioni ' fumose' : come se non ci dicessimo mai l'essenziale.
E anche l'impressione che l'essenziale per me non era 'semplice', e
tanto meno lineare. Quindi rimanevo deluso di non sapere dire; e
anche di non sapere capire (o ascoltare veramente). E d'altra parte,
negli anni di cui parliamo, esco definitivamente dal ' villaggio' ,
ed entro in rapporto diretto con la difficile, complicata modernità:
nel senso fisico (Roma, la grande capitale), e nel senso del contatto
con culture nazionali e internazionali. Questo in un periodo in cui
l' assetto del mondo stava saltando. Quindi diventava ancora più
forte il bisogno di trovare forme di linguaggio che avessero un'
ampiezza di comunicazione come l' offriva il cinema, che mettessero
fortemente in collegamento con la gente, con la società di massa che
cominciavo a scoprire. Insomma: si sommano allora in me due cose:
questo bisogno di comunità che io ho maturato proprio nel
'villaggio' , e contemporaneamente la scoperta abbastanza lacerante
che in quell'Europa, alla metà degli anni Trenta, accadevano fatti
che potevano travolgerci, come singoli, come relazioni, come affetti.
Anche per questo il cinema, che poteva parlare a milioni. E invece
non l'imparai. Dopo un anno smisi. La politica prima di tutto come
capire cosa succedeva mi trascinava. Ma l'amore, vorrei dire la
'curiosità' appassionata per il cinema, sono rimasti. Più volte mi
è capitato di pensare che capisco più di cinema che di politica.
"la Repubblica", 11 novembre 1990
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