Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi, Paolo Volponi |
Milano. «Quel che
possiedo come letterato lo devo in gran parte a Pasolini, alla sua
amicizia, al suo insegnamento».
Chi parla è Paolo
Volponi, scrittore, da sempre intimamente legato alla «cultura
pasoliniana». Definisce l'opera dello scrittore scomparso «un
magistero». Quando prenderà la parola in occasione della
presentazione dei premi «Pasolini '82» il tentativo sarà di
svelare le ragioni dell'isolamento, della diffidenza presente nella
cultura italiana nei confronti di Pie Paolo Pasolini specie durante
l'ultimo periodo. Gli abbiamo chiesto: «Tra gli intellettuali
italiani ritorna costantemente la questione della rimozione che la
cultura del nostro paese ha operato nei confronti di Pier Paolo
Pasolini. A cosi è dovuta questa rimozione»?
Dopo un attimo di
riflessione Volponi risponde con una certa amarezza: «Vi è un senso
di colpa che emerge tra gli intellettuali. In fondo Pasolini è stato
lasciato solo: lo si è voluto rinchiudere all'interno di un "io"
completamente autobiografico, edipico e quindi in qualche modo
ossessivo, scostante, fobico. Mentre in realtà nel suo lavoro vi era
sempre un superamento di questo io. C'era un assiduo lavoro di
ricerca, di scambio, il recupero di una lingua vera. Certo, la lingua
franava ma Pasolini non ne seguiva le frane, non tentava
semplicemente un'analisi semiologica, ma cercava di trovare un'altra
lingua. Quando Pasolini passa dalla letteratura al cinema è alla
ricerca di uno strumento più diretto, più penetrante e forse anche
meno italiano. Lui sentiva come ormai questo italiano servisse
soltanto a mascherare la realtà attraverso la menzogna».
«Ma Pasolini non è solo
lo studioso della lingua e del dialetto. Esiste un Pasolini
intellettuale degli anni 60, provocatorio, dissacrante, di formazione
marxista ma sempre critico. Non sono questi elementi che possono aver
contribuito alla rimozione?».
Paolo Volponi non ha
dubbi: «Certamente quelle caratteristiche vi hanno contribuito. Non
si può dimenticare che Pasolini parlava di “restaurazione di
sinistra”. Lui vedeva i rischi di un'integrazione del Partito
comunista nel sistema capitalistico. In molte sue poesie emerge
chiaramente il timore che l'avanguardia abbia accumulato materiali
che non gli servono più o che servono semplicemente a risolvere la
crisi del modello di sviluppo del neocapitalismo in senso
tecnocratico. In quel momento Pasolini è piuttosto solo nel prendere
certe posizioni. Direi anzi che non possiede neppure tutti gli
strumenti per potere prendere quelle posizioni con efficacia».
«Perché, cosa è
successo?».
«Le polemiche contro di
lui dirette sull'avanguardia, sullo sperimentalismo, l'hanno un po'
irrigidito. Gli hanno tolto la fiducia che aveva nel magistero della
letteratura. Gli hanno tolto il gusto di studiare. Pasolini ha
creduto di fare il gran salto con il cinema, ma a mio parere questa
operazione non gli è riuscita del tutto».
«Nonostante i pochi
accenni fatti nella giornata pasoliniana, sono in molti a ricordare
il rapporto a un certo punto di scontro tra Pasolini e i movimenti di
massa emersi dalla contestazione del '68, la polemica con gli
studenti».
Volponi risponde con un
certo imbarazzo: «I limiti di quelle polemiche erano su tutti e due
i fronti. Pasolini intravedeva all'interno della contestazione di
quegli anni una mancanza di cultura, di progetto politico. Da parte
sua vi era invece una certa timidezza, data da una visione del mondo
ancora poetico. In sostanza c'è un rapporto non risolto con la
scienza e con la politica; il quesito è se la parola poetica è
incerta rispetto alla parola scientifica. Vi erano poi del limiti
anche suoi personali: nella sua smania di progettare e di
comprendere, probabilmente le cose non erano più controllabili».
In apertura del suo
intervento Volponi si era dichiarato allievo di Pasolini. Quando gli
chiedo che cosa pensa di aver ereditato dal suo maestro, non ha
esitazioni a rispondere: «Un metodo. La necessità di studiare, di
arricchirsi di strumenti, di confrontarsi. Il rapporto con ciò che è
vero e non soltanto con la suggestione, con la propria urgenza. Il
rapporto con una dimensione aperta, socializzata, non con una
dimensione solo personale e accademica».
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1982
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