Jack London |
In una delle scene meno
rammentate di C'era una volta in America il protagonista, un
Noodles ancora adolescente, si barrica nel gabinetto del suo
condominio in Lower East Side e prende in mano un libro che spenzola
dalla finestra legato a una catena: il breve fermo-immagine indugia
sul frontespizio in caratteri liberty con foto dell’autore nel
foglio di guardia e attesta che quello è un romanzo di Jack London,
Martin Eden. La sceneggiatura del capolavoro di Sergio Leone
colloca la scena nel 1922, quando London è morto da appena sei anni
e il romanzo è uscito da tredici ma, paradossalmente, è già tempo
di oblìo per lo scrittore che aveva inaugurato il secolo americano
raffigurandolo in emblema coi caratteri della schiettezza
primordiale, di un vivere generoso e dispendioso, infine con la
spavalderia tradotta nella presa diretta di una scrittura che di
colpo cancellava il formalismo e il rugiadoso sentimentalismo
dell’età vittoriana. In appena quarantanni di esistenza, Jack
London (1876-1916) era divenuto un mito letterario ma anche politico,
l’erede di Melville e Stevenson o di Poe nell’arte del racconto e
nel frattempo il militante del Partito socialista, firmatario per
esempio di una favola-incubo, Il tallone di ferro (1907) che
era piaciuta a Trotsky e a lungo, in Europa, sarebbe stata letta come
la più lucida profezia del nazifascismo.
Morto probabilmente
suicida, in un gorgo di dissipazione e di totale sperpero di sé, fra
megalomanie e presenzialismo narcisista, sospettato di abiura e
conversione al credo americano del successo dai suoi stessi compagni,
la belle époque non sa dunque che farsene nel 1922 di uno scrittore
da bassifondi che molti giudicano rudimentale e populista, ma presto
anche i detrattori dovranno ritrovarlo e per la prima volta
interrogarne il lascito in tempi di crisi acutissima tra la Grande
Depressione e il New Deal: è lì che Irving Stone (nel ’38, reduce
da un fortunato lavoro su Van Gogh, Brama di vivere, ’34)
pubblica un profilo uscito in Italia solo nel ’79 dagli Editori
Riuniti e ora riproposto col semplice titolo di Jack London
(traduzione di Massimiliano Reggia, Castelvecchi «Ritratti», pp.
374, € 22,00). Se non è, per fortuna, una cosa romanzata o
ammanierata come quelle che firmarono la seconda moglie di London,
Charmian Kittredge, nel ’21, e sua figlia Joan nel ’39, qui non
si tratta nemmeno di una biografia in senso storico-accademico: oggi
inevitabilmente datata, quella di Irving resta una biografia-ritratto
che però utilizza moltissime testimonianze di prima mano e, se non
ha particolari ambizioni interpretative, comunque sa discriminare con
equilibrio e chiarezza espositiva l’opera di London, che fu grande
e diseguale, da un decorso biografico che tutto aveva invece per
alterarne la reale fisionomia e confonderne la ricezione in un’aura
mitologica.
Va sempre ricordato che
la bibliografia di London è un prodigio produttivo, nel quale si
contemplano qualcosa come 41 volumi pubblicati (fraromanzi, racconti,
interventi teorici e saggistici, pamphlet) in 15 anni o poco più di
attività e a un ritmo gestatorio, di cui l’autore si vantava, di
1.000 implacabili parole scritte al giorno. Il bilancio che Irving
Stone suggerisce nel ’38 dopo tutto è lo stesso che potrebbe
sottoscrivere un lettore di oggi. Alcuni titoli, alla lettera,
restano indelebili: fra i racconti,inblocco quelli dedicati al Grande
Nord e alla febbre dell’oro (senza i quali non avremmo The Gold
Rush di Charlie Chaplin, un dickensiano ma anche londoniano ad
honorem), così come in dittico Il richiamo della foresta e
Zanna Bianca (1903-06), o quelli sulla boxe, vera e propria
epopea darwiniana, che includono lo splendido Una bistecca;
fra gli scritti di ispirazione sociale, oltre al menzionato Tallone
di ferro, un presago reportage sul proletariato dell’East End
londinese, Il popolo degli abissi (1903), che non sfigura
accanto alla classica inchiesta di Friedrich Engels; e poi,
ovviamente, Martin Eden, il romanzo americano per eccellenza,
un testo di evidente proiezione autobiografica dove il senso più
avventuroso della ricerca esistenziale si vincola a una lucida,
impietosa, critica dell’american way of life.
Irving Stone, ed è
questa la parte più interessante del suo lavoro, indugia sugli anni
di formazione di London: non tanto sui mille mestieri del ragazzo di
Oakland dai dubbi natali ma senz’altro di origine irlandese, bello
e atletico, gaudente e spaccone che, afflitto dalla «malattia
cronica della miseria», fu via via un marinaio razziatore di
ostriche, mozzo, fochista, operaio, inviato di guerra, cercatore
d’oro, proprietario di ranch, esploratore dei Mari del Sud, quanto,
specialmente, sul suo apprendistato culturale che si è soliti
ascrivere all’eclettismo di un autodidatta. Eclettico e
autodidatta, senz’altro, ma fino a un certo punto perché
l’orizzonte culturale di London (che pure fu per tutta la vita un
lettore vorace, onnivoro) si alcola meglio in verticale che non in
orizzontale: a dispetto delle apparenze non c’è grande
affollamento, perché suoi maestri risultano da un lato i campioni
del realismo/naturalismo (Balzac, Zola, Melville, Stevenson,
Kipling), dall’altro alcuni scienziati e filosofi riuniti dal credo
materialista come Darwin, Spencer, Marx, Nietzsche. Il deter-minismo
o persino il monismo del suo sguardo sulla realtà è in effetti e di
continuo contraddetto dagli impulsi libertari di chi vuole scampare
alla regola ferrea (interesse, profitto, destino di classe) che
governa le cose del mondo: rimane una contraddizione, precisamente i
rilevabile negli scritti politici, ma è la stessa che in un bilico
vertiginoso fissa la verità di Martin Eden, un personaggio
scisso e fisicamente sacrificato dalla dinamica dello struggle for
life nel momento medesimo in cui il suo individualismo, il sogno
americano, ambirebbe a trionfare. (Tutti ricordano il finale del
romanzo, che è un’ultima discesa agli inferi, anzi un
annientamento travestito da apoteosi; così nella versione di
Giovanni Baldi, Garzanti1989:«Dov’era? Gli sembrò di trovarsi in
un faro; era invece il suo cervello che emanava una luce i bianca,
accecante, che roteava i sempre più veloce. Seguì un suono cupo e
rombante che lo precipitò giù per una smisurata tromba di scale, al
fondo della quale, a un certo punto, cadde nella tenebra. Questo solo
capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell’istante in cui seppe,
cessò di sapere»). London fu o volle essere o presunse di essere,
pari a qualunque scrittore americano fra il XIX e il XX secolo, un
testimone della realtà codificata in Natura, ma seppe essere, a
momenti, uno straordinario interprete della Storia che in quella
stessa immagine, presuntamente naturale,era invece cifrata o
occultata. London non è affatto uno scrittore innocente ma, semmai,
un eterno ritorno per gli americani: Ernest Hemingway, John Dos
Passos e compagni, nella Grande Depressione, torneranno a lui e a lui
tornano, più o meno onestamente, più o meno astutamente, i seguaci
della docufiction nella nuova Depressione ormai globalizzata.
Ha da offrire come sempre le sue pagine spoglie, un ritmo libero e sghembo, un’idea del sublime dal basso che lega in istantanea, e in massa, lo scrittore e il lettore. Tutto questo, a sua volta, non è affatto innocente: tuttavia, nello stato di cose presenti, come si fa a non amare Jack London, come è possibile dimenticarlo?
Ha da offrire come sempre le sue pagine spoglie, un ritmo libero e sghembo, un’idea del sublime dal basso che lega in istantanea, e in massa, lo scrittore e il lettore. Tutto questo, a sua volta, non è affatto innocente: tuttavia, nello stato di cose presenti, come si fa a non amare Jack London, come è possibile dimenticarlo?
"il manifesto la talpa libri", domenica 22 settembre 2013
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