L'autore dell'intervista
che segue non è un giornalista di mestiere, è uno storico di
valore, autore di libri importanti, alcuni dei quali relativi alla
storia militare (il più celebre è I vinti di Caporetto,
Marsilio 1967, recentemente rispampato e inserito in un testo più
ampio: Oltre Caporetto,
Marsilio, 2018). Boatti ha una grande abilità nell'utilizzare
e collegare le fonti più varie e diverse, pubbliche e private, e ha
fatto ricorso anche alla storia orale e alla pratica dell'intervista.
Quella che segue è tuttavia una scrittura giornalistica che
raccoglie una testimonianza importante su un tema al tempo (1986) di
grande attualità, anche per la ristrutturazione e il potenziamento
dell'esercito voluto soprattutto da Presidenti del Consiglio e
Ministri della Difesa “laici”: Spadolini (Premier dall'80
all'83, Ministro della difesa dall'83 all'87), Lelio Lagorio
(Ministro della Difesa dal 1980 al 1983), Bettino Craxi (Premier
dall'83 all'87). A me pare che la forte presenza “piemontese”
(cioè massonica) nelle gerarchie militari e l'opacità
dell'amministrazione siano caratteristiche non modificate dalla
professionalizzazione dell'esercito, anzi … Quel che è cambiato è
che non ci sono forze politiche, organi di comunicazioni,
giornalisti, storici che vadano a vedere che cosa succede oggi,
(S.L.L.)
Vedendolo salire con
passo energico le scale che portano alla mansarda di questa vecchia
casa torinese si capisce che quest’uomo — pur avendo smesso da
oltre un anno stellette e divisa — è di quelli che rimarranno
ufficiali per tutta la vita: «l’arma che si serve — scriveva De
Vigny — è lo stampo ove si getta il proprio carattere e in cui
esso muta e si rifonde per assumere la forma generale impressa in
eterno».
È entrato in accademia a
18 anni e — quando ne è uscito — era tra i primi dieci del suo
corso. Brillante e studioso. Lo stesso risultato lusinghiero lo ha
colto durante la scuola di applicazione.
Poi è andato al reparto,
iniziando quella carriera di troupier che avvilisce solamente chi
desidera avanzare di grado scodinzolando lungo i corridoi degli alti
comandi e del ministero.
Con noi — Enzo
Caporusso, 42 anni, maggiore degli alpini fino alle dimissioni dal
servizio permanente effettivo date quindici mesi fa — ricostruisce
tappa dopo tappa la sua esperienza in grigioverde. Val la pena di
ascoltarlo attentamente: non solo perché racconta come ci «sia del
marcio in Danimarca» ma soprattutto perché obbliga a rivedere
valutazioni che noi, sedicenti esperti di cose militari, abbiamo dato
su eventi e processi che hanno fatto seguito a quella che definimmo
la «ristrutturazione» dell’esercito.
«Ristrutturazione? Per
me quello che accadde nell’esercito verso la metà degli anni
settanta sembrò una specie di otto settembre, uno squagliamento
generale. Un malessere complessivo. Sui giornali si parlava di
modernizzazione, di snellimento dei reparti, di taglio dei rami
secchi, ma l’unica cosa che dalla mia compagnia alpini ho potuto
constatare di persona è stato l’arraffa arraffa che ha fatto
seguito alla soppressione dei reggimenti, sostituiti, come si sa, da
un ordinamento imperniato sul rapporto battaglione/brigata. Alcuni
episodi di quegli anni furono addirittura patetici: vedere ad esempio
come, in un reggimento alpini celebrato dalla storia patria, l’unico
interesse dagli ufficiali era per l’argenteria del circolo
ufficiali messa all’asta e finita ovviamente nelle mani del
colonnello, dava un senso di sconforto».
Sconfortato ma testardo
l’ufficiale degli alpini vive dal di dentro la stagione delle leggi
promozionali che riversano pioggia di miliardi sulle forze armate. E
con l’arrivo dei soldi nelle caserme cambiano molte cose.
Racconta Caporusso:
«L’esercito italiano
fino ad allora era sempre stato un esercito povero: nelle furerie si
rivoltavano le buste per riutilizzarne la carta ed i capitani
dovevano passare ore in magazzino a vedere — come patriarchi di una
vasta famiglia — quali scarpe delle reclute erano da risuolare e
quante divise dovevano essere rattoppate. Poi con la ristrutturazione
non arrivano solamente nuovi sistemi d’arma ma s’innesta anche un
dinamismo mai conosciuto nella gestione economica. Dinamismo condotto
all’insegna della relativa autonomia contabile assegnata alle nuove
unità che si trovano a disporre per la prima volta di mezzi e
materiali da "esercito ricco". Ricco anche in piccole cose,
come l’equipaggiamento individuale (scarpe, divise, giacche da
montagna, etc.) che — chissà come mai — si ritrova spesso, nuovo
nuovo, sulle bancarelle del poco usato americano.Come ci arriva?
Attraverso una strada che, verificata di persona, ho inutilmente
denunciato alla magistratura — civile e militare — e alla Corte
dei Conti.
La truffa avviene in
questo modo. Ogni capo di equipaggiamento ha una vita media stabilita
da disposizioni ministeriali. Ad esempio un impermeabile da campagna
"deve” vivere 36 mesi. Può accadere che interi lotti di
questi materiali vivano la loro vita in magazzino, senza essere mai
utilizzati perché al loro posto, si "cannibalizza" il
corredo delle reclute. Raggiunti i 36 mesi si provvede ugualmente a
metterli fuori uso, prendendo tuttavia, una precauzione. Se si
mettessero fuori uso grandi lotti di materiali si dovrebbe avere il
consenso del ministero. Allora basta frazionare il tutto in lotti di
importo relativamente basso per sfuggire a questo controllo. Fatto
questo si convoca la "commissione di giudizio dei fuori uso”
che, come ho visto nella mia esperienza e denunciato alla
magistratura, viene riunita a volte senza che faccia la sua comparsa
neppure l’Ufficiale che dovrebbe presiederla. Eppure alla fine
vengono sfornati fior di verbali, con tutte le firme a posto, e così
materiali nuovissimi possono lasciare la caserma come fossero stracci
da portare al macero.
Bisogna portare per anni
e anni la divisa che ho indossato per comprendere come quelli che
possono essere considerati episodi isolati di irregolarità contabile
costituiscano invece un reticolo di minuta corruzione, di reciproco
ricatto, un avvelenamento che corrode uomini ed istituzioni.
Faccio degli esempi assai
banali, ripresi tra l’altro nelle denunce — rimaste inascoltate —
di un sottufficiale degli alpini, il maresciallo Luciano Ciuffini, in
servizio con me a Cuneo al battaglione alpini Mondovì.
Dunque l’amministrazione
dispone che per la sostituzione delle lampadine e lampade al neon
della caserma si possa spendere fino al 5% dell’ammontare della
bolletta della luce. Ho detto si possa, non si deve. Ma al «Mondovì»
si doveva fatturare a tutti i costi questo 5%, perché ditta
fornitrice e responsabili del minuto mantenimento erano in combutta.
Non solo: per alzare le cifre si doveva ampliare il valore delle
bollette della luce e così il consumo veniva portato alle stelle
lasciando luci accese a decine in pieno giorno, e impiegando stufe
elettriche non autorizzate. Più si consumava più si fatturava. Con
i risultati — rispetto all’educazione al risparmio delle reclute
— che si possono immaginare. Un altro esempio?
Eccolo: quando, messe le
stellette da capitano, arrivi alla compagnia che ti è stata
assegnata sei pieno di progetti e di ambizioni. Scarpini giorno e
notte e punti ad addestrare al meglio i tuoi uomini. Ma chi sta sopra
di te sembra non accorgersene e ti ossessiona con la pulizia delle
camerate, dei servizi, dei locali. Quando fai notare che ti servono
mezzi per far fronte a questi compiti, mezzi che non ti vengono dati,
ti guardano come un allocco e poi ti chiedono: "vuoi qualche
bretella?".
Le bretelle — nel gergo
degli uffici maggiorità — sono i permessi e le licenze che
l’aiutante maggiore può metterti a disposizione senza che vengano
segnati e contabilizzati su nessun registro. Tu, sul fine settimana,
mandi gente a casa: i soldati e le famiglie sono contenti e lo stato
teoricamente dovrebbe risparmiare sulla loro decade, sul loro vitto.
Ho detto teoricamente perché — per esperienza personale — ho
visto che solo una parte dei permessi e delle licenze vengono
segnati. Gli altri dal punto di vista contabile non esistono. Lo
stato continua a pagare per decadi complete mentre al soldato saranno
liquidate solo le spettanze per i giorni in cui è effettivamente
presente in caserma. C’è dunque una differenza, fatta di tante
duemila lire che vanno moltiplicate per due giorni (se il permesso è
di quarantotto ore) che vanno moltiplicate per una ventina o trentina
di soldati per compagnia che diventano più di cento ogni
battaglione. Il tutto per ogni settimana.
La stessa cosa — e in
misura più vasta - può valere per la cucina. Tu accetti i permessi,
li distribuisci ai tuoi uomini e — di fatto — ti presti a questo
gioco. Un gioco che va a vantaggio delle tasche di qualcuno. Bene,
attribuire, tutti questi giochetti ai soliti «topi di fureria» che
grattano, grattano all’insaputa dei superiori non è possibile.
Perché è un sistema troppo diffuso, investe troppi aspetti della
vita della caserma perché un gruppetto, magari qualche sfessa-to di
maresciallo, possa essere caricato di tutte le responsabilità».
E quindi?
«E quindi questa
corruzione diffusa s’intreccia strettamente, porta direttamente a
delineare un’altra gerarchia — parallela a quella formale esibita
nei reparti — che opera nelle caserme. A volte le due «gerarchie»
si sovrappongono, a volte invece sono separate. Ma è ben difficile
comandare reparti senza fare compromessi con coloro che controllano
questi rivoli di denaro che, inevitabilmente, finiscono col delineare
intrecci affaristico-gerarchici. Un esempio indicativo era quello
dello scandalo del «Mi manda Picone», l’esenzione a pagamento dal
servizio militare. Le inchieste e gli arresti fatti in diverse città
sono stati visti sempre come eventi separati gli uni dagli altri,
come se improvvisamente in alcuni ospedali militari e infermerie e
caserme di corpi diversi sparsi in mezza Italia decine di persone
avessero avuto la stessa idea da un momento all’altro»: da oggi mi
faccio i soldi esentando dalla naja chi mi molla qualche milione. In
realtà c’era un reticolo di conoscenze, una suddivisione dei ruoli
(e delle tangenti) che inutilmente - sulla base di quanto ho potuto
verificare nel corso del mio servizio — ho denunciato alla procura
militare. Si è preferito considerare i diversi episodi come episodi
isolati e non vedere il reticolo di connessioni che si era creato».
Ma un reticolo di
questo genere si regge solo sul comune obiettivo del far denaro?
«Assolutamente no.
Qualcuno ci entra per l’arraffa arraffa ma altri, invece, sono
mossi da motivazioni più «oneste», quali il far carriera,
l’arrivare ai comandi giusti, entrare in «circuito» e per far
questo devono accettare di chiudere gli occhi, di non sapere da dove
arrivano i soldi che permettono — quando arriva il sotto-segretario
alla difesa in visita - di fare festa grande, di offrire rinfreschi e
organizzare cerimonie con affluenza di pubblico che, agli occhi dei
politici, è subito visto come platea elettorale, serbatoio
clientelare».
Cosa vuol dire quando
lei parla — a proposito della carriera di un ufficiale in servizio
permanente effettivo — dell’ “entrare in circuito”?
«Vuol dire trovare il
gruppo di potere che ti coopta e ti porta con sé nella scalata che
il capo-cordata sta facendo verso gli alti gradi. Te ne accorgi già
fresco di accademia e di scuola di applicazione quando, nonostante la
tua efficienza e l’ottimo rendimento, vedi che altri — assai meno
brillanti — ti sorpassano nella carriera. E senti che fanno
battute, e parlano della loro appartenenza “all’esercito
piemontese”...»
La solita solfa tra
terroni e polentoni?
«Anch’io, nei primi
anni, pensavo che fosse una roba di questo genere. Poi invece mi
hanno spiegato che 1’«esercito piemontese» è, molto
semplicemente, la massoneria. Se ci sei dentro vai avanti, altrimenti
segni il passo, indipendentemente dai tuoi meriti. Personalmente sono
convinto che i generali che non sono massoni si possano contare sulle
dita di una mano. Se entri nella cordata tutto è più facile, a
patto, naturalmente che accetti le regole del gioco. È un do ut des
fatto di grandi e piccole cose che spiega tuttavia episodi altrimenti
incomprensibili. Ad esempio perché qualche decina di ufficiali degli
alpini è stata destinata negli scorsi anni a Malta con pagatissimi
incarichi di consulenza militare? la logica militare non lo saprebbe
spiegare perché gli alpini, con quell’isola mediterranea, hanno
proprio poco a che fare. Ma se poi tiene presente che gran parte di
quegli ufficiali erano della cordata di un astro emergente dello
stato maggiore (ora detiene un’altissima carica) che li stava
premiando per la loro fedeltà al clan tutto si piega. E questo è
solo un esempio di quello che accade in questo povero esercito
«ristrutturato» di cui voi, giornalisti e sedicenti esperti
militari, avete magnificato le sorti in tutti questi anni...».
Su questo giornale non è
mai accaduto di magnificare chicchessia. Ma indubbiamente
l’attenzione per le strategie e le grandi questioni militari, ha
lasciato in penombra quanto stava accadendo, giorno dopo giorno,
nelle caserme. Val la pena di ributtare uno sguardo attento oltre
quei cancelli, prima che l’esercito «piemontese» rifaccia
silenziosamente — questa volta sotto le bandiere della squadra e
del compasso — l’unità d’Italia.
“il manifesto”, 8
giugno 1986
Nessun commento:
Posta un commento