13.6.19

Anni 80 del Novecento. Un ex maggiore degli alpini racconta la corruzione nell'esercito ristrutturato (Giorgio Boatti)

L'autore dell'intervista che segue non è un giornalista di mestiere, è uno storico di valore, autore di libri importanti, alcuni dei quali relativi alla storia militare (il più celebre è I vinti di Caporetto, Marsilio 1967, recentemente rispampato e inserito in un testo più ampio: Oltre Caporetto, Marsilio, 2018). Boatti ha una grande abilità nell'utilizzare e collegare le fonti più varie e diverse, pubbliche e private, e ha fatto ricorso anche alla storia orale e alla pratica dell'intervista. Quella che segue è tuttavia una scrittura giornalistica che raccoglie una testimonianza importante su un tema al tempo (1986) di grande attualità, anche per la ristrutturazione e il potenziamento dell'esercito voluto soprattutto da Presidenti del Consiglio e Ministri della Difesa “laici”: Spadolini (Premier dall'80 all'83, Ministro della difesa dall'83 all'87), Lelio Lagorio (Ministro della Difesa dal 1980 al 1983), Bettino Craxi (Premier dall'83 all'87). A me pare che la forte presenza “piemontese” (cioè massonica) nelle gerarchie militari e l'opacità dell'amministrazione siano caratteristiche non modificate dalla professionalizzazione dell'esercito, anzi … Quel che è cambiato è che non ci sono forze politiche, organi di comunicazioni, giornalisti, storici che vadano a vedere che cosa succede oggi, (S.L.L.)



Anni 80 del Novecento. Alpini giurano

Vedendolo salire con passo energico le scale che portano alla mansarda di questa vecchia casa torinese si capisce che quest’uomo — pur avendo smesso da oltre un anno stellette e divisa — è di quelli che rimarranno ufficiali per tutta la vita: «l’arma che si serve — scriveva De Vigny — è lo stampo ove si getta il proprio carattere e in cui esso muta e si rifonde per assumere la forma generale impressa in eterno».
È entrato in accademia a 18 anni e — quando ne è uscito — era tra i primi dieci del suo corso. Brillante e studioso. Lo stesso risultato lusinghiero lo ha colto durante la scuola di applicazione.
Poi è andato al reparto, iniziando quella carriera di troupier che avvilisce solamente chi desidera avanzare di grado scodinzolando lungo i corridoi degli alti comandi e del ministero.
Con noi — Enzo Caporusso, 42 anni, maggiore degli alpini fino alle dimissioni dal servizio permanente effettivo date quindici mesi fa — ricostruisce tappa dopo tappa la sua esperienza in grigioverde. Val la pena di ascoltarlo attentamente: non solo perché racconta come ci «sia del marcio in Danimarca» ma soprattutto perché obbliga a rivedere valutazioni che noi, sedicenti esperti di cose militari, abbiamo dato su eventi e processi che hanno fatto seguito a quella che definimmo la «ristrutturazione» dell’esercito.

«Ristrutturazione? Per me quello che accadde nell’esercito verso la metà degli anni settanta sembrò una specie di otto settembre, uno squagliamento generale. Un malessere complessivo. Sui giornali si parlava di modernizzazione, di snellimento dei reparti, di taglio dei rami secchi, ma l’unica cosa che dalla mia compagnia alpini ho potuto constatare di persona è stato l’arraffa arraffa che ha fatto seguito alla soppressione dei reggimenti, sostituiti, come si sa, da un ordinamento imperniato sul rapporto battaglione/brigata. Alcuni episodi di quegli anni furono addirittura patetici: vedere ad esempio come, in un reggimento alpini celebrato dalla storia patria, l’unico interesse dagli ufficiali era per l’argenteria del circolo ufficiali messa all’asta e finita ovviamente nelle mani del colonnello, dava un senso di sconforto».

Sconfortato ma testardo l’ufficiale degli alpini vive dal di dentro la stagione delle leggi promozionali che riversano pioggia di miliardi sulle forze armate. E con l’arrivo dei soldi nelle caserme cambiano molte cose.

Racconta Caporusso:
«L’esercito italiano fino ad allora era sempre stato un esercito povero: nelle furerie si rivoltavano le buste per riutilizzarne la carta ed i capitani dovevano passare ore in magazzino a vedere — come patriarchi di una vasta famiglia — quali scarpe delle reclute erano da risuolare e quante divise dovevano essere rattoppate. Poi con la ristrutturazione non arrivano solamente nuovi sistemi d’arma ma s’innesta anche un dinamismo mai conosciuto nella gestione economica. Dinamismo condotto all’insegna della relativa autonomia contabile assegnata alle nuove unità che si trovano a disporre per la prima volta di mezzi e materiali da "esercito ricco". Ricco anche in piccole cose, come l’equipaggiamento individuale (scarpe, divise, giacche da montagna, etc.) che — chissà come mai — si ritrova spesso, nuovo nuovo, sulle bancarelle del poco usato americano.Come ci arriva? Attraverso una strada che, verificata di persona, ho inutilmente denunciato alla magistratura — civile e militare — e alla Corte dei Conti.
La truffa avviene in questo modo. Ogni capo di equipaggiamento ha una vita media stabilita da disposizioni ministeriali. Ad esempio un impermeabile da campagna "deve” vivere 36 mesi. Può accadere che interi lotti di questi materiali vivano la loro vita in magazzino, senza essere mai utilizzati perché al loro posto, si "cannibalizza" il corredo delle reclute. Raggiunti i 36 mesi si provvede ugualmente a metterli fuori uso, prendendo tuttavia, una precauzione. Se si mettessero fuori uso grandi lotti di materiali si dovrebbe avere il consenso del ministero. Allora basta frazionare il tutto in lotti di importo relativamente basso per sfuggire a questo controllo. Fatto questo si convoca la "commissione di giudizio dei fuori uso” che, come ho visto nella mia esperienza e denunciato alla magistratura, viene riunita a volte senza che faccia la sua comparsa neppure l’Ufficiale che dovrebbe presiederla. Eppure alla fine vengono sfornati fior di verbali, con tutte le firme a posto, e così materiali nuovissimi possono lasciare la caserma come fossero stracci da portare al macero.
Bisogna portare per anni e anni la divisa che ho indossato per comprendere come quelli che possono essere considerati episodi isolati di irregolarità contabile costituiscano invece un reticolo di minuta corruzione, di reciproco ricatto, un avvelenamento che corrode uomini ed istituzioni.
Faccio degli esempi assai banali, ripresi tra l’altro nelle denunce — rimaste inascoltate — di un sottufficiale degli alpini, il maresciallo Luciano Ciuffini, in servizio con me a Cuneo al battaglione alpini Mondovì.
Dunque l’amministrazione dispone che per la sostituzione delle lampadine e lampade al neon della caserma si possa spendere fino al 5% dell’ammontare della bolletta della luce. Ho detto si possa, non si deve. Ma al «Mondovì» si doveva fatturare a tutti i costi questo 5%, perché ditta fornitrice e responsabili del minuto mantenimento erano in combutta. Non solo: per alzare le cifre si doveva ampliare il valore delle bollette della luce e così il consumo veniva portato alle stelle lasciando luci accese a decine in pieno giorno, e impiegando stufe elettriche non autorizzate. Più si consumava più si fatturava. Con i risultati — rispetto all’educazione al risparmio delle reclute — che si possono immaginare. Un altro esempio?
Eccolo: quando, messe le stellette da capitano, arrivi alla compagnia che ti è stata assegnata sei pieno di progetti e di ambizioni. Scarpini giorno e notte e punti ad addestrare al meglio i tuoi uomini. Ma chi sta sopra di te sembra non accorgersene e ti ossessiona con la pulizia delle camerate, dei servizi, dei locali. Quando fai notare che ti servono mezzi per far fronte a questi compiti, mezzi che non ti vengono dati, ti guardano come un allocco e poi ti chiedono: "vuoi qualche bretella?".
Le bretelle — nel gergo degli uffici maggiorità — sono i permessi e le licenze che l’aiutante maggiore può metterti a disposizione senza che vengano segnati e contabilizzati su nessun registro. Tu, sul fine settimana, mandi gente a casa: i soldati e le famiglie sono contenti e lo stato teoricamente dovrebbe risparmiare sulla loro decade, sul loro vitto. Ho detto teoricamente perché — per esperienza personale — ho visto che solo una parte dei permessi e delle licenze vengono segnati. Gli altri dal punto di vista contabile non esistono. Lo stato continua a pagare per decadi complete mentre al soldato saranno liquidate solo le spettanze per i giorni in cui è effettivamente presente in caserma. C’è dunque una differenza, fatta di tante duemila lire che vanno moltiplicate per due giorni (se il permesso è di quarantotto ore) che vanno moltiplicate per una ventina o trentina di soldati per compagnia che diventano più di cento ogni battaglione. Il tutto per ogni settimana.
La stessa cosa — e in misura più vasta - può valere per la cucina. Tu accetti i permessi, li distribuisci ai tuoi uomini e — di fatto — ti presti a questo gioco. Un gioco che va a vantaggio delle tasche di qualcuno. Bene, attribuire, tutti questi giochetti ai soliti «topi di fureria» che grattano, grattano all’insaputa dei superiori non è possibile. Perché è un sistema troppo diffuso, investe troppi aspetti della vita della caserma perché un gruppetto, magari qualche sfessa-to di maresciallo, possa essere caricato di tutte le responsabilità».

E quindi?
«E quindi questa corruzione diffusa s’intreccia strettamente, porta direttamente a delineare un’altra gerarchia — parallela a quella formale esibita nei reparti — che opera nelle caserme. A volte le due «gerarchie» si sovrappongono, a volte invece sono separate. Ma è ben difficile comandare reparti senza fare compromessi con coloro che controllano questi rivoli di denaro che, inevitabilmente, finiscono col delineare intrecci affaristico-gerarchici. Un esempio indicativo era quello dello scandalo del «Mi manda Picone», l’esenzione a pagamento dal servizio militare. Le inchieste e gli arresti fatti in diverse città sono stati visti sempre come eventi separati gli uni dagli altri, come se improvvisamente in alcuni ospedali militari e infermerie e caserme di corpi diversi sparsi in mezza Italia decine di persone avessero avuto la stessa idea da un momento all’altro»: da oggi mi faccio i soldi esentando dalla naja chi mi molla qualche milione. In realtà c’era un reticolo di conoscenze, una suddivisione dei ruoli (e delle tangenti) che inutilmente - sulla base di quanto ho potuto verificare nel corso del mio servizio — ho denunciato alla procura militare. Si è preferito considerare i diversi episodi come episodi isolati e non vedere il reticolo di connessioni che si era creato».

Ma un reticolo di questo genere si regge solo sul comune obiettivo del far denaro?
«Assolutamente no. Qualcuno ci entra per l’arraffa arraffa ma altri, invece, sono mossi da motivazioni più «oneste», quali il far carriera, l’arrivare ai comandi giusti, entrare in «circuito» e per far questo devono accettare di chiudere gli occhi, di non sapere da dove arrivano i soldi che permettono — quando arriva il sotto-segretario alla difesa in visita - di fare festa grande, di offrire rinfreschi e organizzare cerimonie con affluenza di pubblico che, agli occhi dei politici, è subito visto come platea elettorale, serbatoio clientelare».

Cosa vuol dire quando lei parla — a proposito della carriera di un ufficiale in servizio permanente effettivo — dell’ “entrare in circuito”?
«Vuol dire trovare il gruppo di potere che ti coopta e ti porta con sé nella scalata che il capo-cordata sta facendo verso gli alti gradi. Te ne accorgi già fresco di accademia e di scuola di applicazione quando, nonostante la tua efficienza e l’ottimo rendimento, vedi che altri — assai meno brillanti — ti sorpassano nella carriera. E senti che fanno battute, e parlano della loro appartenenza “all’esercito piemontese”...»

La solita solfa tra terroni e polentoni?
«Anch’io, nei primi anni, pensavo che fosse una roba di questo genere. Poi invece mi hanno spiegato che 1’«esercito piemontese» è, molto semplicemente, la massoneria. Se ci sei dentro vai avanti, altrimenti segni il passo, indipendentemente dai tuoi meriti. Personalmente sono convinto che i generali che non sono massoni si possano contare sulle dita di una mano. Se entri nella cordata tutto è più facile, a patto, naturalmente che accetti le regole del gioco. È un do ut des fatto di grandi e piccole cose che spiega tuttavia episodi altrimenti incomprensibili. Ad esempio perché qualche decina di ufficiali degli alpini è stata destinata negli scorsi anni a Malta con pagatissimi incarichi di consulenza militare? la logica militare non lo saprebbe spiegare perché gli alpini, con quell’isola mediterranea, hanno proprio poco a che fare. Ma se poi tiene presente che gran parte di quegli ufficiali erano della cordata di un astro emergente dello stato maggiore (ora detiene un’altissima carica) che li stava premiando per la loro fedeltà al clan tutto si piega. E questo è solo un esempio di quello che accade in questo povero esercito «ristrutturato» di cui voi, giornalisti e sedicenti esperti militari, avete magnificato le sorti in tutti questi anni...».

Su questo giornale non è mai accaduto di magnificare chicchessia. Ma indubbiamente l’attenzione per le strategie e le grandi questioni militari, ha lasciato in penombra quanto stava accadendo, giorno dopo giorno, nelle caserme. Val la pena di ributtare uno sguardo attento oltre quei cancelli, prima che l’esercito «piemontese» rifaccia silenziosamente — questa volta sotto le bandiere della squadra e del compasso — l’unità d’Italia.

“il manifesto”, 8 giugno 1986

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