Negli anni della
contestazione (68 e dintorni) non mancarono i tentativi di dare voce
attraverso la sociologia e la letteratura a settori delle classi
subalterne che l'antico verismo e lo stesso neorealismo avevano
trascurato: gli operai della fabbrica moderna, per esempio, o i
migranti. Uno di questi esperimenti di frontiera lo tentò, secondo
me con successo, mettendo in versi i racconti di vita dei suoi
compaesani emigrati, Stefano Vilardo, un maestro elementare di Delia
(Cl), che alle magistrali di Caltanissetta – grazie ad una
bocciatura poi considerata provvidenziale - era stato compagno di
banco e amico intimo di Sciascia (vedi il suo A scuola con
Leonardo Sciascia, Sellerio
2012). Quella che segue è la prefazione che lo scrittore di
Racalmuto scrisse per la prima edizione in volume delle "poesie sell'emigrazione" composte da Vilardo. (S.L.L.)
«Prima della Rivoluzione
francese» — annotava Gramsci — «prima cioè che si costituisse
organicamente una classe dirigente nazionale, c’era un’emigrazione
di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità
direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro
contributo. Dopo la formazione di una borghesia nazionale e dopo
l’avvento del capitalismo si è iniziata l’emigrazione del popolo
lavoratore, che è andato ad aumentare il plus-valore dei capitalismi
stranieri: la debolezza nazionale della classe dirigente ha così
sempre operato negativamente. Essa non ha dato la disciplina
nazionale al popolo, non l’ha fatto uscire dal municipalismo per
una unità superiore, non ha creato una situazione economica che
riassorbisse le forze di lavoro emigrate, in modo che questi elementi
sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle
nazionalità straniere in funzione subalterna». Sempre così
negativamente operando, la classe dirigente italiana si è data, dopo
l’Unità, a un recupero di tipo sciovinistico delle glorie italiane
in terra straniera, cioè di quegli elementi che nel campo delle
invenzioni, delle scoperte, dell’arte militare avevano contribuito
alla grandezza e ricchezza di altri Stati: e resta esemplare la
questione sull’italianità di Colombo, che ha dato luogo a tutta
una letteratura che Gramsci definisce « completamente inutile e
oziosa ». Ma un tale chauvinisme, praticato a livello di un certo
giornalismo, di una certa erudizione, aveva in effetti una funzione:
la classe dirigente nazionale lo dava come una specie di viatico —
il solo che fosse capace di dare — al popolo lavoratore che
massicciamente emigrava. Già Cesare Balbo aveva auspicato « una
storia intiera e magnifica e peculiare all’Italia » degli
italiani, dei grandi italiani, fuori d’Italia; e proprio nel
momento in cui una delle più grosse ondate di emigrazione
dall’Italia si riversava sulle Americhe, sugli Stati Uniti e
sull’Argentina in prevalenza, usciva un Dizionario degli italiani
all’estero che partiva dall’anno 1000. Con lo stesso criterio,
negli anni del fascismo si inaugurava — suggerita da Gioacchino
Volpe — una pubblicazione in più volumi su L’opera del Genio
italiano all’estero', ufficiale, governativa. La classe dirigente
italiana, e la cultura che la rappresentava, era talmente occupata a
cercare le orme del genio (Genio) italiano in terra straniera,
dall’anno 1000 alla Rivoluzione francese, che non si accorgeva
delle centinaia di migliaia di italiani che, bestialmente stivate,
continuavano a lasciare le itale sponde. Non voleva accorgersene,
cioè; non voleva curarsene. Erano italiani senza genio (Genio):
sapevano soltanto lavorare con le braccia, e duramente. In altro
luogo Gramsci osserverà: e perché questa classe dirigente, la sua
cultura, la sua letteratura, dovrebbe occuparsene quando sono
all’estero, dei lavoratori italiani, se nemmeno se ne occupa quando
sono in Italia?
Ma in Italia, bene o
male, paternalisticamente o meno, tra scapigliatura e verismo, il
popolo lavoratore era entrato nella letteratura. Riguardo
all’emigrazione, era però tutt’altro affare. E valga l’ironica
osservazione che Dominique Fernandez fa a proposito dei Malavoglia'.
«Il maggiore dei
Malavoglia, sin dal tempo in cui è ancora un bravo ragazzino e sta
alla larga dalle osterie, si mette in testa di lasciare Acitrezza e
tentare fortuna altrove. L’autore, lungi dall’incoraggiarlo in
questa sana decisione, l’accusa di voler abbreviare i giorni a sua
madre, di abbandonare alla deriva i suoi fratellini, di infischiarsi
del focolare domestico, e infine d’essere un ambizioso, un
pretenzioso, che sarà punito per aver disprezzato l’onorevole
miseria di cui i Malavoglia si sono sempre accontentati... I
Malavoglia apparvero nel 1881. Ebbene, in quello stesso anno,
l’Europa mandava 85.000 emigranti in America; tre anni dopo
200.000; nel 1900 l’Italia, da sola, 200.000, di cui circa una metà
siciliani... ».
Fernandez chiama quella
di Verga «une bévue historique de taille», una grossa
cantonata storica. E non il solo Verga l’ha presa. Non c’è nella
letteratura italiana, infatti, un solo libro che rappresenti la
condizione degli emigranti per come è stata, per come è. Solo in
questi ultimi anni abbiamo avuto dei documenti diciamo ricreati: le
lettere di un emigrante pubblicate da Antonio Castelli in Entromondo,
queste storie messe in versi da Stefano Vilardo.
Vilardo è nato a Delia,
in provincia di Caltanissetta, e a Delia è vissuto per tanti anni,
insegnando nelle scuole elementari. Poeta, per così dire, in proprio
(un paio di volumetti pubblicati in edizione limitata: poesie di
idillio, poesie d’amore), ad un certo punto si è dato a
raccogliere e ricreare queste storie (alcune ne ha pubblicate sul
numero 15, luglio-settembre 1969, di “Nuovi argomenti”. E non è
stata un’operazione facile. Per quanto, leggendole, non sembri, la
mediazione del poeta c’è stata. La ricreazione, appunto. E che non
sembri, è il maggior merito di questo libretto.
in Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell'emigrazione, Garzanti, 1975
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