Charles Darwin |
La
storia dell’umanità è segnata indelebilmente da molte scoperte e
invenzioni. Tra queste: il fuoco, la ruota e la teoria
dell’evoluzione (forse ora dovremo aggiungere lo smartphone,
vedremo...). E così, le nostre attuali conoscenze poggiano sulle
spalle di alcuni giganti tra i quali spiccano Gregor Mendel e Charles
Darwin. Come ben sappiamo, il primo ha riconosciuto le regole
fondamentali della trasmissione dei caratteri in un’epoca in cui le
basi fisiche sulle quali poggia tutta la teoria mendeliana erano
ignote: geni, Dna e cromosomi (un inno alle ricerche mosse dalla
curiosità); il secondo ha spiegato quali sono i meccanismi e i
fattori capaci di promuovere l’evoluzione delle specie (anche
l’opera di Darwin è essenzialmente basata su intuizioni teoriche).
La fama riconosciuta a quest’ultima teoria (messaggio per i
detrattori della teoria darwiniana: teoria non vuole dire fantasia,
un’idea si basa, nel medesimo tempo, su una teoria e su dei fatti)
ha però oscurato un’altra geniale intuizione di Darwin per la
quale ricorre quest’anno il centocinquantesimo anniversario: la
teoria della Pangenesi, formulata nel 1868 come un’«ipotesi
provvisoria» in calce a un’opera in due volumi intitolata Le
variazioni degli animali e delle piante nel corso della
domesticazione.
L’esigenza
teorica di Darwin è quella di dare un senso compiuto alla teoria
sull’evoluzione delle specie spiegando attraverso quali meccanismi
potesse realizzarsi uno dei fenomeni di rilievo della teoria stessa:
la trasmissione delle variazioni dei caratteri ereditari acquisiti
nel corso della vita di un individuo. Per Darwin, la teoria della
Pangenesi è una «ipotesi provvisoria» poiché sa di non disporre
delle sottili conoscenze citologiche necessarie a dare corpo a questo
fantasma: e qui si rivela un’altra dote di questo genio, la
cautela. Suggerisce che il meccanismo attraverso il quale i caratteri
che si modificano nel corso della vita di un individuo passano alla
progenie, si basi sulla produzione ed emissione di minuscole
«gemmule» da parte delle cellule; queste gemmule, contenenti
informazioni del vissuto biologico della cellula che le ha prodotte,
circolano liberamente nel sangue e in tutto l’organismo
accumulandosi nelle gonadi. Nel corso della riproduzione, spermatozoi
e uova trasmettono alla progenie il contenuto delle gemmule.
Il
termine Pangenesi (dal greco pan: tutto) deriva dal meccanismo
proposto; le gemmule sono prodotte da tutte le cellule dell’organismo
finendo poi per accumularsi nelle cellule germinali. Le cellule che
vanno formandosi per moltiplicazione nel corso della riproduzione
riassorbono le gemmule (che così ne marcano le proprietà)
trasmettendo alla progenie i caratteri acquisiti dai genitori nel
corso della loro vita.
La
cautela di Darwin nel proporre questa ipotesi è famosa. Viene
difatti illustrata in appendice al secondo e ultimo volume dell’opera
e nella sua autobiografia, tenendo a sottolineare che la sua
«denigrata ipotesi della Pangenesi» ha uno scarso valore poiché
non dimostrata. Tuttavia si augura che in futuro «qualcuno sarà
condotto a fare osservazioni che possano dar fondamento a qualche
ipotesi di questo genere» così che «un’enorme quantità di fatti
isolati potranno essere l’un l’altro collegati e diventeranno
comprensibili».
Darwin,
al tempo della proposta, era impegnato a difendere la teoria
sull’evoluzione delle specie cercando di fornire spiegazioni
cellulari e molecolari sui meccanismi sottesi all’ereditarietà
(non conosceva i lavori di Mendel, la comunità scientifica dovrà
attendere l’inizio del nuovo secolo per riscoprire le «leggi di
Mendel») e sulle fonti delle variazioni sulle quali agisce la
selezione naturale.
La
teoria della Pangenesi è stata fortemente criticata e poi
abbandonata per diverse ragioni, la più evidente è che delle
ipotizzate gemmule non si trovava traccia. Già Darwin aveva premesso
che con gli strumenti dell’epoca non sarebbe stato possibile
vederle «perché inconcepibilmente piccole sebbene numerose come le
stelle nel cielo e contenute in ciascuna cellula, spermatozoo e
ovulo»; in assenza di dati sperimentali che la sostenessero fu
considerata una «pura invenzione» dai più grandi biologi
dell’epoca, August Weismann (paradossalmente uno dei maggiori
sostenitori della teoria dell’evoluzione di Darwin) tra i primi.
Il
più benevolo dei critici fu il cugino di Darwin, Francis Galton, che
concluse con un lapidario «...nel sangue non si trovano... le
gemmule» gli esperimenti effettuati per cambiare il colore della
pelliccia di conigli bianchi tramite trasfusioni di sangue da conigli
con la pelliccia nera.
È
bene sottolineare che la teoria della Pangenesi prevede un passaggio
di informazioni genetiche (le gemmule) da cellule del soma a quelle
germinali: il suo rifiuto portò al definitivo affermarsi dell’idea
che l’informazione genetica venga trasmessa solamente dalle cellule
germinali a quelle somatiche, e non viceversa.
L’idea
che caratteristiche acquisite dall’organismo in risposta a stimoli
ambientali possano essere trasferite dai genitori alla progenie ha le
sue radici nella filosofia di Ippocrate ma divenne famosa grazie alla
teoria sull’evoluzione delle specie per uso/non-uso degli organi di
quell’altro genio ribelle (se ne legga la biografia) di
Jean-Baptiste Lamarck. Per molti autori la proposta della Pangenesi
rifletteva, paradossalmente, una visione lamarckiana del processo
evolutivo da parte di Darwin. Nel corso dell’anniversario della
formulazione della teoria della Pangenesi dobbiamo ricordare che le
più avanzate conoscenze di biologia cellulare e molecolare sulla
comunicazione tra cellule mettono in luce l’esistenza di minute
vescicole extra-cellulari chiamate esosomi (van Niel et al.,
2018) che a pieno titolo possiamo considerare la versione moderna
delle, ipotetiche, gemmule.
La
possibilità che l’ambiente induca le cellule somatiche a produrre
gemmule (esosomi) la cui composizione dipende dalla natura degli
stimoli ambientali a cui le cellule sono esposte, è una potente e
visionaria intuizione di Darwin: geniale. La composizione degli
esosomi (proteine e Rna) riflette infatti quella del citoplasma delle
cellule da cui si formano e vengono rilasciati. Sono dunque veicolo
di informazione genetica tra cellule somatiche e tra cellule
somatiche e cellule germinali (Zhang et al., 2018) e costituiscono
uno dei meccanismi responsabili dell’ereditarietà dei caratteri
per via epigenetica, portando nel genoma dello zigote piccoli
frammenti di Rna di svariata natura o proteine regolatrici
dell’espressione di specifici geni; in altri termini contribuiscono
alla trasmissione intergenerazionale dei caratteri acquisiti per
azione dell’ambiente (si veda anche «la Lettura», 5 febbraio
2017).
Sempre
più chiare sono le evidenze sperimentali che sostengono l’idea di
una trasmissione intergenerazionale di caratteristiche acquisite nel
corso della vita dei genitori basate sull’azione della composizione
degli esosomi. La trasmissione paterna dei disordini metabolici è
uno dei tanti esempi: evidenze sperimentali in topi maschi nutriti
con diete a basso contenuto proteico dimostrano come le cellule
dell’epididimo (cellule somatiche) dove transitano gli spermatozoi
siano capaci di passare piccoli frammenti di Rna a significato
regolatorio negli spermatozoi che così vengono veicolati nella
cellula uovo e quindi al nuovo individuo determinando in questo modo
la trasmissione ereditaria di effetti prodotti dalla dieta paterna
(Sharma et al., 2016).
È
bene precisare che l’ereditarietà delle caratteristiche acquisite
nel corso di adattamenti all’esposizione a xenobionti ambientali di
varia natura (contenuti in aria, acqua, cibo) e a stress emotivi, si
basa sulle modificazioni epigenetiche del Dna e delle proteine che lo
avvolgono (metilazione di Dna e proteine, acetilazione di proteine,
eccetera), modificazioni che sono reversibili non interessando la
sequenza (primaria) del Dna.
Alla
luce della teoria della Pangenesi e della trasmissione epigenetica di
caratteristiche ereditarie, divengono del tutto comprensibili gli
effetti prodotti sugli individui esposti a condizioni ambientali
estreme: ad esempio, le persone concepite nel corso della carestia
imposta dai nazisti nell’inverno del 1944-1945 alla popolazione di
Amsterdam (evidenza dell’impatto dell’esposizione intrauterina
alla malnutrizione) e i figli dei sopravvissuti dell’Olocausto
(evidenza degli effetti transgenerazionali degli stress emotivi). In
entrambi i casi è stato possibile dimostrare modificazioni
significative di alcune regioni del Dna (differente grado di
metilazione e dunque differente espressione della regione genica
coinvolta) nella progenie degli individui esposti e che coinvolgono
il recettore dell’insulina nel primo caso (spiegando così l’alta
incidenza di diabete in questi individui) e alcune varianti del gene
Fkbp5 la cui espressione è associata a condizioni patologiche dovute
a post-traumatic stress disorder (ansia, depressione, disturbi
psichiatrici, eccetera) nel secondo.
La
Storia (...ma anche la letteratura lo dice, si pensi ad Alice nel
paese delle Meraviglie!) insegna che credere in qualche cosa che
non si vede e non si riesce a dimostrare è, a volte, corretto e che
la mancanza di dati non è prova di assenza di significato di
un’ipotesi. La Pangenesi oggi può essere considerata come la
cornice concettuale del passaggio di informazioni ereditarie tra
cellule e anche tra diverse specie di diversi regni ricordando il
trasporto esosomiale di piccole molecole di Rna tra piante e funghi:
ancora una volta quel genio di zio Charles aveva visto lungo, buon
compleanno alla Pangenesi molecolare!
“La
Lettura - Corriere della sera”, 2 dicembre 2018
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