È passato poco più di
un quarto di secolo dal giorno della morte di Massimo Troisi, il 4
giugno 1994). Aveva solo 43 anni e, a partire dalla giovanile
esperienza della “Smorfia”, aveva fatto a tempo a fare grandi
cose, a volte senza neanche accorgersene. Nella nostra memoria resta
soprattutto il poeticissimo film d'addio sul postino di Neruda, ma
anche degli altri, quelli di cui fu regista e quelli in cui fu
protagonista (o quasi) come attore, ricordiamo scene, battute
memorabili, espressioni. Nell'agosto di quell'anno uscì un numero di
“suq”, che era a quel tempo il magazine del “manifesto”,
interamente dedicato a Massimo Troisi (titolo: Massimo del piacere)
curato da Flaviano De Luca con la collaborazione di Federico
Chiacchiari e Demetrio Salvi, che sul grande cineasta napoletano
avevano scritto anni prima un libro molto apprezzato. Riprendo in
questo ed altri post del blog alcuni dei testi lì raccolti,
soprattutto testimonianze di chi l'aveva conosciuto e parole di Troisi tratte soprattutto da
interviste. (S.L.L.)
Ci manca Massimo Troisi. Ci manca la sua dolcezza ed ironia, la capacità tutta napoletana di saper ridere delle proprie debolezze, non di quelle altrui. Ci manca la sua capacità ed umiltà, che gli ha permesso di migliorare sempre, fino a diventare un vero e proprio regista (autodidatta). E ci manca soprattutto quel suo sguardo malinconico sulla realtà, quel suo occhio che leggeva dritto nel cuore delle persone, quella sua innata capacità di raccontare i punti deboli degli esseri umani, ma scavandone così a fondo il sen so da riabilitarli e trasformarli in punti forti fondanti. Ci manca il suo sguardo tenere sul mondo, il suo saperci far divertire su quelli che sono i nostri sensi più vulnerati.
Era un uomo che ha
provato per tutta la sua splendida e brevissima vita a parlarci dei
sentimenti. Ma non lo ascoltavamo. Tutti ridevamo e basta. Perché
Massimo aveva questa virtù incredibile di saperci far ridere. E chi
ci riesce più.
Ma purtroppo chi fa
ridere raramente viene preso sul serio. È un comico, una marionetta,
non qualcuno che può raccontarci le nostre debolezze, le nostre
paure, le nostre insicurezze. Eppure avevamo tutti gli occhi per
vedere e le orecchie per sentire. Già Ricomincio da tre
raccontava la difficoltà di essere teneri, di stare insieme, di
vivere appieno senza vergogne e senza chiusure mentali i propri
sentimenti. Parlava di noi, della nostra voglia di stare insieme a
qualcuno ma anche della nostra paura di perdersi, o di farsi/farci
prigionieri. Della libertà del sentire. Della paura di amare. E
invece si è letto solo il ritratto generazionale del meridionale che
non vuole essere più lo stesso di sempre. Vabbé era anche questo,
ma se è per questo anche David Cronenberg apparentemente ci mostra
degli orrori terribili, dei corpi in frantumi, che esplodono fuori e
dentro. Così la critica li vede e li definisce «horror», e invece
sono dei bellissimi romanzi (pardon, film) d’amore, i più
inquietanti e belli della nostra epoca. Massimo come Cronenberg (e
qui i cinefili lo so, rideranno) usava i suoi attrezzi del mestiere,
il suo talento incredibile, appunto il comico, per narrarci storie di
amori impossibili, amori disperati, storie banali e quotidiane eppure
uniche, vere, sincere e profonde.
Ma Scusate il ritardo
è stato per tutti una delusione: già, non faceva ridere come il
primo. E ci tagliava dentro, come un coltello affilatissimo. Massimo,
era evidente, la sofferenza se la portava dentro da ragazzo, ma non
per cose tipo fame, povertà ecc... su cui ha sempre giocato,
ironizzando su se stesso. Ma per quella malattia che ce lo ha portato
via per sempre. Già, il cuore. Non un muscolo qualsiasi. No, proprio
quello dei sentimenti. Di cui Massimo è stato il più grande cantore
proprio nell’Italia degli Anni Ottanta, che si rappresentava come
ricca, cinica e rampante. E lui ricco lo era, ma soprattutto in quel
muscolo che la natura gli avrebbe fermato così presto. Ma certo né
cinico né rampante.
Mica ci andava in Tv lui.
Solo con gli amici, per gli amici. Quando con Demetrio scrivemmo il
libro su di lui, non gli chiedemmo niente per pubblicizzarlo in giro.
Non ci importava più di tanto. Ci piaceva che lui lo apprezzasse,
che scegliesse con noi la copertina (e con Stefano gliene presentammo
tre e che piacere nello scoprire che aveva scelto proprio quella che
preferivamo anche noi, che lo rappresentava come un novello,
malinconico Pulcinella), che ne cogliesse lo spirito diverso dagli
altri libri che circolavano.
Non ci interessava farne
un’operazione commerciale (infatti altri li aveva rifiutati) ma
forse, ma lo comprendo solo ora, solamente una dichiarazione d’amore
nei suoi confronti. Quando ne parlò con Gianni Minà e Pino Daniele
in televisione, rimanemmo totalmente sorpresi: era il suo modo di
ringraziarci di quello che avevamo scritto di lui. Così, con gli
strumenti che aveva lui, la gentilezza, la semplicità e il talento
comico insuperabile («tutte queste cose si possono scrivere su di
me?», ci disse tra il sorpreso e - sotto sotto - l’orgoglioso,
alla lettura del suo libro).
E ora tutti lo
rimpiangono, anche quelli che non lo hanno mai capito e lo hanno
maltrattato da Scusate il ritardo in poi. Ignoranti e
presuntuosi. Che non avevano visto quel meraviglioso film-tv, dal
titolo premonitore che ora ci fa accapponare la pelle, Morto
Troisi, Viva Troisi. Massimo si era già fatto il suo funerale,
gli elogi funebri e tutto il resto. Almeno come uomo di spettacolo.
Aveva la morte dentro e la raccontava a noi per farci ridere. Quanto
dovremmo essergli grati.
Mai abbastanza. E quando
scelse di fare Non ci resta che piangere esclusivamente per
l’idea di passare del tempo insieme al suo amico Roberto Benigni?
Questo il bello del fare
le cose che ci piacciono, come atti d’amore verso i nostri simili,
per stare con loro. Ma i critici guardano solo i grandi discorsi, e
il comico non li fa, ma ti fa smuovere le viscere dal ridere. E la
comicità di Massimo era finalmente una di cui non doversi
vergognare.
È però forse quasi per
assecondare inconsciamente una richiesta d’impegno, che Troisi
realizza l’«antifascista» Le vie del signore sono finite.
Eppure anche lì erano i sentimenti a dominare. L’amicizia e
l’amore. In mezzo, sempre, la malattia. Psicosomatica ma «sempre
una malattia». Per nascondere la malattia d’amore, vera ossessione
di Troisi.
E Pensavo fosse amore
invece era un calesse è l’ulteriore tassello della sua ricerca
sui sentimenti. Ma Troisi non è Rohmer o Fellini o chissà chi
altro. E la sua ricerca seria lui la realizza facendo ridere gli
altri. Ma in Pensavo fosse amore ...., l’amarezza, la
sofferenza escono in primo piano, Massimo ha smesso di nascondersi
dietro il suo grande talento. Infatti, come diranno in molti, «fa
meno ridere».
Certo, ci racconta le
nostre ansie! I nostri amori perduti, i desideri che cambiano, gli
sguardi che si perdono, i sensi che si trasformano, insomma ci
racconta di coirie è difficile vivere, amare e capirsi oggi, in una
società dove l’amore e i sentimenti sono diventati programmi
d’intrattenimento televisivo, dove si mettono in mostra gli amori
tra uno spot e l’altro.
Invece Troisi se ne
usciva in pieno Natale con un manifesto in cui lui, il comico per
eccellenza del cinema italiano, aveva l’aria afflitta e triste (e
litigò con la produzione che preferiva un’immagine più distensiva
per le famiglie in resta). Tanto hanno fatto i critici che lo stesso
Massimo non pareva rendersi conto della politicità dei suoi film
(«sento che potrei fare di più, prendere posizione, indignarmi di
più, ma pubblicamente», diceva).
Eppure, ripeto quello che
avevo già scritto. «Come ci parliamo oggi, come ci raccontiamo
stancamente, i nostri amori insoddisfatti, la centralità (e
l’afasia) dei sentimenti, la famiglia come volano di trasmissione
del consenso e della stabilità sociale, l’“impossibilità” (e
insieme la necessità) odierna della coppia, e tanto altro ancora:
cosa c’è di più politico di questo?»
“il manifesto - suq”
sabato 20 agosto 1994
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