L’abbandono dei luoghi
pesa sulle urne ma occorre una lettura attenta e non stereotipata per
leggere bene i risultati elettorali. Non solo quelli italiani, si
intenda, ma i tanti appuntamenti elettorali che si sono succeduti in
Europa e oltreoceano da dopo il 2008. Una lettura interessante è
quella del Prof. Andrés Rodriguez-Pose, docente alla London School
of Economics, studioso internazionale e autore di un’analisi sulla
relazione fra declino economico e sociale e comportamenti elettorali,
intervenuto qualche giorno fa all’evento Territori abbandonati
dalle politiche, organizzato dal Forum Disuguaglianze Diversità
(ForumDD) in collaborazione con ASviS e GSE nell’ambito del
Festival dello Sviluppo Sostenibile.
“Il risentimento e il
voto per i partiti percepiti come anti-sistema non si concentra nelle
aree a minore reddito, e neppure sempre nelle aree rurali; la
contrapposizione semplificatrice città-campagna non aiuta. A
determinare rabbia e voto anti-sistema è piuttosto un declino di
lungo termine, economico, sociale e identitario”, afferma
Rodriguez-Pose, che fonda queste considerazioni su un’analisi di
oltre 60mila distretti di tutta Europa.
Per molti anni le
politiche di sviluppo hanno concentrato i loro sforzi economici e di
visione sui grandi centri urbani, immaginando che le possibilità di
crescita e sviluppo e quindi di benessere per le persone potessero
pienamente avverarsi solo nei grandi agglomerati urbani densamente
popolati e fertili per i mercati. E tutte le altre aree? In alcuni
casi, ricorda il Professore, hanno ricevuto fondi compensativi o sono
state oggetto di politiche di assunzione massiccia nella pubblica
amministrazione, ma di fatto sono stati considerati “luoghi senza
futuro”, subendo un abbandono che negli anni è diventato motore di
rabbia e risentimento da parte dei cittadini e delle cittadine.
In una precedente
intervista, Rodriguez-Pose, ricordava la dinamica del voto per la
Brexit, paradigmatica rispetto al trend rilevato dalla sua analisi:
“Attraverso le elezioni abbiamo sentito la reazione delle zone che
sono state trascurate. Se prendiamo il caso del Regno Unito, le zone
dove in generale ha vinto il voto per il “Remain” nell’Unione
Europea sono le zone più internazionalizzate, più dinamiche, dove
vivono più stranieri, tipo Londra. Nel mio quartiere, Islington (al
centro della capitale), il 75% delle persone ha votato per il Remain.
Ma se andiamo nelle aree
che sono state abbandonate, come il Lincolnshire – la contea col
livello di crescita più basso dopo il 1990 – e, in generale tutto
l’Est dell’Inghilterra, la percentuale è invertita e il 75% ha
votato per Brexit. Zone che hanno conosciuto un passato più
glorioso, ma che già ben prima della crisi hanno visto un livello di
crescita che è stato al di sotto della media britannica: zone che
sono state abbandonate dall’attività economica, da cui le persone
con più capacità sono andate via e dove le politiche pubbliche
britanniche, soprattutto politiche di welfare, non sono riuscite a
creare l’attività economica necessaria per renderle capaci di
competere in un mercato più integrato. Perciò la reazione non è
stata solo un grido per dire “noi esistiamo, non dimenticatevi di
noi”. Si tratta di una reazione più forte. Dopo il fallimento
delle politiche territoriali, soprattutto a partire dal 2005, la
politica del Governo britannico è stata di provare a concentrare lo
sviluppo su Londra ed il Sud-Est. L’obiettivo e stato di attrarre i
talenti provenienti da zone periferiche, cercando di “make the cake
bigger”. Ma ci sono due questioni. Non siamo certi al 100% che se
scommettiamo su Londra e sui dintorni, ne beneficeranno
effettivamente anche altre zone del paese e tutto il Regno Unito in
maniera complessiva. E soprattutto non si può certo dire per anni
alle persone, che hanno dei legami familiari e amicali in un certo
territorio, che il loro futuro è altrove. La reazione dunque è
stata “Se non c’è un futuro per noi, non ci sarà neanche per
voi”.
Mentre i politologi si
sono concentrati a lungo sulle caratteristiche individuali degli
“elettori anti-sistema”, comunemente anziani con reddito basso,
scarse competenze e livello di istruzione e stanziali, ovvero
residenti per tutto l’arco della vita nello stesso luogo, altre
analisi si sono concentrate sul fattore geografico e sulla distanza
dei cittadini dai luoghi dove si prendono le decisioni. L’analisi
del Prof. Rodriguez Pose si spinge ancora oltre considerando come
causa del voto anti-sistema quella di un prolungato declino economico
e industriale, che aiuterebbe anche a comprendere il risultato
elettorale delle città che non hanno livelli di PIL pro-capite basso
ma che non crescono da trent’anni e che hanno visto peggiorare le
loro condizioni con il passare del tempo.
La lettura di Fabrizio
Barca, coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità,
intervenuto a margine del convegno e ripresa in un’intervista, è
in linea con quella di Rodriguez-Pose. “I risultati delle elezioni
non ci colgono di sorpresa. Sono il frutto di un declino di lungo
corso non solo economico, ma anche declino sociale e di impoverimento
dei servizi. E terza categoria importante, che come ForumDD crediamo
debba essere presa in considerazione nell’analisi, una forte
disuguaglianza di riconoscimento. Per sentirsi abbandonati non devi
per forza sentirlo nella tua busta paga. L’abbandono lo si legge
nel fatto che le classi dirigenti nazionali ti ignorino. Stiamo
dunque attenti nell’analisi del voto. Non è un tema solo di città
e campagna ma vanno considerate diverse aree: quelle remote, le
campagne deindustrializzate, le aree relativamente ricche rispetto al
resto dell’Italia ma che non crescono da decenni, le periferie dei
centri urbani. Sono state sbagliate le politiche e al tempo stesso si
è persa la fiducia che lo Stato possa fare programmazione e
strategia lasciando alle grandi corporation questo ruolo. Adesso
bisogna cambiare tutto e disegnare politiche rivolte ai luoghi a
monte, allocando bene e con questo criterio l’intero budget dello
Stato.”
Cosa fare?
Contrastare le
disuguaglianze territoriali, rispondere alle preoccupazioni delle
comunità locali che si sentono “lasciate indietro”,
“abbandonate” è oggi la priorità politica. “Il benessere
delle persone è molto influenzato dal luogo in cui si vive e si
lavora e ci sono notevoli differenze tra territori. L’OCSE ha
stimato che nei prossimi 15 anni serviranno seimila miliardi di
dollari di investimenti pubblici e privati a livello globale per
affrontare i cambiamenti tecnologici, demografici, ambientali. Questi
investimenti pubblici sono una responsabilità condivisa tra regioni,
comuni e stato centrale: occorrerà allineare le priorità,
promuovere complementarietà geografiche e settoriali, selezionare e
valutare bene i progetti”, afferma Flavia Terribile, Presidente del
Comitato per le politiche di sviluppo regionale dell’OCSE che,
durante il convegno, ha ricordato i dati drammatici dell’esodo dal
sud Italia negli ultimi anni: oltre 1 milione di residenti ha
lasciato il Mezzogiorno per andare al Nord o all’estero, la metà
sono giovani tra i 15 e i 34 anni, e un quinto è laureato. “Questo
deflusso di giovani lavoratori istruiti compromette le prospettive di
crescita di questi territori. Come osserva anche l’OCSE, le
disuguaglianze che oggi osserviamo non sono frutto di cambiamenti
fuori dal nostro controllo, di forze inesorabili come la
globalizzazione o l’innovazione tecnologica, ma sono la conseguenza
dei cambiamenti nelle politiche degli ultimi trent’anni. I mercati
non si muovono nel vuoto. Sono i governi che stabiliscono le regole
del gioco e le politiche, e il modo in cui le attuano influenza
l’efficienza e la distribuzione.”
“Questa diagnosi – ha
continuato Rodriguez-Pose – necessita di un radicale cambiamento
delle politiche di sviluppo: non si tratta più di realizzare
interventi compensativi che mortificano territori ricchi di
dinamismo. Servono piuttosto interventi strategici rivolti ai luoghi,
ossia disegnati a misura delle persone nei territori. Per questo la
Strategia Nazionale per le aree interne rappresenta una strada
importante e innovativa per l’Italia”.
Partita nel 2014,
coordinata sinora da Sabrina Lucatelli e finanziata da tutti i
Governi compreso quello attuale, la SNAI – Strategia Nazionale per
le aree interne, è stata costruita attraverso un processo
partecipativo con i cittadini e le cittadine, concentrandosi sul
potenziamento dei servizi essenziali (scuola, mobilità, salute).
Investimenti e progetti che riguardano circa il 60% circa di tutto il
territorio della Penisola e il 22% della popolazione, che si sono
concretizzati in 41 strategie d’area approvate per un valore
complessivo di quasi 650 milioni di euro.
Il Forum Disuguaglianze e
diversità, nelle sue 15 proposte per la giustizia sociale, ha
avanzato l’ipotesi di disegnare e attuare Strategie di sviluppo
rivolte ai luoghi, nelle aree fragili del paese e nelle periferie
traendo indirizzi e lezioni di metodo dalla Strategia nazionale per
le aree interne: strategie che, attraverso una forte partecipazione
degli abitanti, combinino il miglioramento dei servizi fondamentali
con la creazione delle opportunità per un utilizzo giusto e
sostenibile delle nuove tecnologie.
La chiave per ottenere
risultati è la qualità della spesa per gli interventi: una spesa
che risponda a una visione di lungo periodo maturata nel confronto
con gli abitanti e che sia frutto di una strategia integrata che
offra opportunità di sviluppo economico ma che in primo luogo
accresca l’accesso e la qualità dei servizi fondamentali per i
ceti deboli.
La proposta muove dalla
considerazione dei profondi divari economici e sociali che si sono
aperti in questi anni in Italia, in modo granulare: fra aree rurali e
aree urbane, ma anche all’interno delle aree rurali e delle aree
urbane; fra città medie che tengono e altre in grave difficoltà;
fra centri e periferie delle città. È una mappa del paese che non
segue vecchi confini (fra Sud e Nord, o fra Nord-Est e Nord-Ovest, o
fra montagna e pianura), ma neppure i confini funzionali utilmente
sviluppati e utilizzati dalle diverse discipline. Lo mostrano in modo
evidente i molteplici e variegati studi e le molte mappe raccolti nel
recente volume Riabitare l’Italia.
Accanto alle “aree
interne” identificate in termini della distanza dai cittadini da
un’offerta completa di servizi fondamentali (salute, istruzione,
mobilità), emergono altre aree in difficoltà segnate da caduta
demografica e da un patrimonio abitativo sottoutilizzato o degradato.
Sono manifestazione diverse di quella categoria che altri
identificano con il termine di “aree fragili”. Mentre all’estremo
opposto dello spettro, si trovano aree congestionate – i “pieni”,
come sono definiti – nelle periferie delle aree urbane del paese.
Con questa più articolata chiave di lettura emergono differenze
significative all’interno delle stesse categorie. Aree interne
abbandonate, ma anche altre con decisi segnali di rientro di giovani
o di capacità attrattiva. Campagne produttive in spopolamento, ma
anche alcune in ripresa grazie alla multifunzionalità agricola e
alla valorizzazione del paesaggio. Coste consumate da cattiva
urbanizzazione in crisi, ma anche alcune capaci di un’offerta
turistica dignitosa.
Una strategia di sviluppo
che voglia orientare i dividendi del cambiamento tecnologico alla
riduzione delle disuguaglianze territoriali deve sapersi adeguare ai
bisogni e alle aspirazioni delle persone nei luoghi. Deve essere una
politica place-based o “rivolta ai luoghi”.
Daniela De Leo, docente
all’Università la Sapienza Roma e membro della rete Urban@it ha
provato a riassumere in dieci punto gli indirizzi di intervento sui
territori che necessitano di una rinnovata e vigorosa azione
pubblica: dall’uso dei dati messi in relazione tra loro a un’azione
stabile di governo che mette al centro diseguaglianze e trappole
delle povertà per progettare lo sviluppo delle comunità insediate
provando a non lasciare indietro nessuno e coinvolgendo le
popolazione locali e i soggetti attivi sul territorio per giungere a
forme evolute di co- progettazione.
“Occorre non più
politica, ma una politica migliore, sensibile alle caratteristiche
del territorio, che cerchi soprattutto di creare dinamismo economico,
basato sul potenziale di ogni regione, sia interna, periferica o
centrale”, sostiene Rodriguez-Pose. “Bisogna fare politiche
territoriali, specifiche per ogni territorio. Bisogna creare
indicatori e basi teoriche ed empiriche che orientino tutte le
politiche e tutti gli interventi, ma tutte le azioni specifiche
devono essere sempre legate alle caratteristiche di ogni singolo
territorio e alle sue potenzialità inespresse”.
Articolo pubblicato da
Micromega Online e da “il manifesto Bologna”, 4 giugno 2019.
Silvia Vaccaro cura la
comunicazione del Forum Disuguaglianze e Diversità
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