Roma, San Pietro in
Vincoli.
Non aveva tutti i torti
quel tale che sosteneva che è la polvere la vera signora di questo
mondo. Non tanto e non solo la polvere metaforica dei poeti e dei
predicatori, ma quella che incombe e finisce per posarsi su ogni
cosa, senza fare eccezioni per un panneggio o un volto scolpiti da
Michelangelo. Fino al giorno in cui questi impalpabili ma implacabili
«depositi incoerenti», come li chiama la scienza, combinati con
l’umidità di certe stagioni dell’anno, rendono letteralmente
invisibile anche il Mosè, con tutto il suo severo cipiglio
patriarcale. Erano bastati 15 anni dall’ultimo ed epocale restauro
per occultare, con una specie di velo penitenziale, la bellezza
strabiliante non solo del Mosè, ma delle altre statue del monumento
funebre di Giulio II. Antonio Forcellino, in camice bianco, emerge
dal ponteggio che negli ultimi mesi ha circondato, senza occultarlo
completamente alla vista, questo capolavoro dalla storia lunghissima,
accidentata e piena di indizi degni della fantasia di un romanziere
dell’Ottocento. Il fatto è che quando la storia di un’opera è
lunga come questa, e l’artista che la porta a compimento ha il
carattere di Michelangelo, significati e fraintendimenti, ipotesi e
scoperte si sommano e si accavallano riservando sorprese proprio là
dove l’abitudine suggeriva che tutto ormai fosse stato scoperto,
incasellato, catalogato.
Basta considerare nella
sua estensione l’arco di tempo che separa il primo progetto,
commissionato nel 1505 a Michelangelo dallo stesso Giulio II, al
secolo Giuliano della Rovere, dal completamento dell’opera nel
1545. È naturale che in quarant’anni il progetto iniziale abbia
subito tanti cambiamenti da renderlo irriconoscibile. All’inizio il
monumento era addirittura destinato a un’altra chiesa, in seguito
alla parete opposta a quella dove si trova. Ma il risultato finale
non è il semplice frutto di casualità e compromessi, come la
maggioranza degli storici dell’arte affermava in passato.
Soprattutto a ridosso della sua conclusione, tra il 1542 (quando
decide all’improvviso di escluderne i Prigioni) e il 1545,
il settantenne Michelangelo conferisce all’opera non solo la sua
strabiliante armonia di forme in dialogo con le fonti di luce
circostante, ma la carica di significati decisivi per la storia
religiosa del tempo, facendone un vero crocevia di preoccupazioni
spirituali e tensioni sempre più gravi tra l’ortodossia cattolica
e le nuove idee luterane che prendono piede e si sviluppano anche
all’ombra del Vaticano, fra Viterbo e alcuni cenacoli romani come
la chiesa di San Silvestro al Quirinale, dove per qualche tempo si
ascoltano prediche tutt’altro che ortodosse.
Le idee pericolose
circolano ovunque, e dai torchi degli stampatori, in tutta Europa,
vengono fuori libri che testimoniano di un’inaudita libertà di
coscienza. La questione centrale che divide gli animi e riempie i
libri proibiti e i documenti ufficiali degli inquisitori riguarda il
destino del cristiano, di ogni singolo cristiano. Qual è il mezzo
privilegiato per raggiungere la salvezza o, per usare un termine
ancora più diffuso ai tempi, la propria giustificazione? Sono le
opere buone che lo salvano, conseguenza della sua fede, oppure
l’intero messaggio evangelico culmina nell’invito a confidare
solo nella fede in Cristo, il grande riscattatore? Nel 1545, c’era
ancora chi credeva che lo scisma più grave mai vissuto dalla Chiesa
potesse ricomporsi. Una costellazione di spiriti legati in varia
maniera a Michelangelo. Ma i teologi e gli alti prelati, come
Reginald Pole e Bernardino Ochino, presto costretti alla fuga da
Roma, fanno da corona alla figura più affascinante del gruppo:
Vittoria Colonna. Questa aristocratica dall’animo ardente e
coraggioso, grande scrittrice in versi e in prosa e autentico
temperamento mistico, eserciterà su Michelangelo un’influenza
senza paragoni in tutta la lunga vita del maestro. E di conseguenza,
anche sull’ultima e definitiva sistemazione del monumento funebre a
Giulio II.
Il quadro storico è
corrusco e grandioso, ma il filo che lega Michelangelo all’eresia è
fatto di indizi anche minimi, come quelli che Antonio Forcellino
insegue da molti anni, in un costante andirivieni fra i cantieri di
restauro e gli archivi. Anche più delle testimonianze esplicite,
possono contare le omissioni, o le calcolate bugie, nascoste tra le
pieghe di una lettera. Il punto di vista rivelatore, osserva
Forcellino, è molto spesso quello ostile, come lo si può desumere
dai verbali dell’Inquisizione. Lungi dal profanare un’idea
astratta di bellezza, l’investigazione minuziosa conferisce a
quell’idea la sua vera sostanza. È come se ogni indagine mirasse
sempre a quel punto difficilissimo del visibile in cui la forma si
incontra col suo significato. Ma si tratta di un bersaglio mobile,
che non coincide mai con tutto ciò che già si sapeva.
E guardando il Mosè
appena restituito al suo originario splendore è difficile non
pensare che l’autentica venerazione che Sigmund Freud nutriva per
quest’opera sollecitò non solo il suo senso estetico, ma le sue
proverbiali capacità di analisi e deduzione. E il saggio che dedicò
al Mosè nel 1913, pubblicato in forma anonima per modestia, è
ancora ricchissimo di profonde intuizioni. «Perché Freud —
osserva maliziosamente Forcellino — non è uno specialista, dunque
si accosta senza schemi preconcetti al capolavoro, ci vede quello che
sa e vuole vederci». E questo sguardo libero approda subito a una
grande verità: tutto è innaturale nella posa del patriarca, a
partire dallo strano modo in cui sostiene con il braccio destro le
Tavole della Legge. E chissà come avrebbe interpretato Freud, se ne
fosse stato a conoscenza, quella torsione della testa di Mosè
documentata da una precisa testimonianza. È un intervento ai limiti
del prodigioso su una statua già scolpita: un azzardo che forse solo
Michelangelo si poteva permettere, un capolavoro nascosto nel
capolavoro. Invece di fissare un punto davanti a sé, dopo questa
capitale modifica, lo sguardo di Mosè, lievemente strabico, punta
verso l’alto, alla ricerca della luce. Molti possono essere i
motivi di questo ripensamento, ma una cosa è certa: guardando di
fronte, gli occhi di Mosè si sarebbero fermati in eterno
sull’altare, e soprattutto sulle catene di san Pietro, la preziosa
reliquia che dà il nome («vincoli») alla chiesa stessa. Ma non è
forse il culto e il mercato delle reliquie uno dei capisaldi della
rivolta religiosa che infiamma l’Europa negli anni Quaranta del
Cinquecento? Effettivamente, la nuova posa di Mosè sembra esprimere
un rifiuto sdegnoso delle superstizioni, assieme a un ricerca di
contatto individuale con la luce del divino.
Lunghissima e
accidentata, come abbiamo detto, fu la gestazione di questo monumento
funebre, forse il più bello e audace mai prodotto nella civiltà
cristiana. Un tomba inaugurata più di trent’anni dopo la morte del
suo destinatario. Ma anche un delicato congegno destinato a esprimere
significati così pericolosi che ai contemporanei che avevano
orecchie per intendere non restò che far finta di non capire. Un po’
come accadde con l’altra grande sfida all’ortodossia cattolica
della pittura rinascimentale, gli affreschi (oggi perduti) di
Pontormo nell’abside di San Lorenzo a Firenze. Lo stesso
Michelangelo, sempre più isolato negli ultimi vent’anni della sua
lunghissima vita, suggerì qualche sapiente depistaggio. Il fatto è
che al posto dei Prigioni, nelle nicchie ai fianchi del Mosè, decise
di sistemare due splendide figure femminili, incarnazioni della Vita
Contemplativa, o della Fede, e della Vita Attiva, o della Carità.
Un’altra pericolosissima allusione all’infuriare del dibattito
sulla salvezza, sul ruolo della fede e delle opere nell’avventura
terrena degli uomini. Ebbene, da anni i sospetti di Forcellino si
erano concentrati sulla seconda di queste statue, e soprattutto sul
misterioso oggetto che tiene ben visibile in mano, avvolto in
un’abbondante ciocca di capelli che le scendono dalla spalla
destra. Ma cosa rappresenta questo oggetto circolare? Stranamente,
data la forma dell’oggetto, il Vasari, che ha fatto testo per
secoli, ci vedeva uno specchio. Ma a tutto assomiglia tranne che a
uno specchio questo recipiente ornato da una maschera grottesca. Non
sempre chi pone la domanda, in queste ricerche così ricche di
insidie e complicazioni, è colui che fa in tempo a trovare una
risposta. Si tratta forse di qualcosa di molto simile a gettare una
rete nel mare, confidando che qualcosa di prezioso ci rimanga
impigliato. Ed è proprio quello che è successo in questi giorni
grazie a una sorprendente scoperta della sorella di Antonio, Maria
Forcellino, già autrice di scrupolose ricerche sui legami tra
Michelangelo, Vittoria Colonna e la cultura cripto-protestante, per
definirla in qualche modo, diffusa a Roma nei primi anni Quaranta del
Cinquecento. Ebbene, fatto forse più unico che raro nella produzione
di Michelangelo, l’elegante e slanciata figura muliebre di
Michelangelo è una copia, non da un’altra statua, ma da un
affresco rappresentante Maria Maddalena, parte della decorazione di
una cappella eseguita da Polidoro da Caravaggio e Maturino da
Firenze. Il confronto tra il modello affrescato e la statua scolpita
da Michelangelo potrà fornire lumi precisi sull’oggetto misterioso
avvolto tra le spire dei capelli. Ma ancora più impressionante è il
fatto che l’affresco che ispirò Michelangelo si trova proprio in
quella chiesa di San Silvestro al Quirinale in cui l’Inquisizione
non tardò a scoprire un vero e proprio covo di eretici. Comunque
sarà interpretata dagli storici, questa scoperta è una traccia di
cui si dovrà tenere conto in futuro. Anche perché, c’è da
scommetterci: di questa storia in cui la bellezza suprema è il
veicolo di profondissime preoccupazioni spirituali, non conosciamo
ancora tutti i dettagli.
Corriere della sera, 27
novembre 2016
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