13.6.19

L’eresia di Michelangelo (Emanuele Trevi)



Roma, San Pietro in Vincoli.
Non aveva tutti i torti quel tale che sosteneva che è la polvere la vera signora di questo mondo. Non tanto e non solo la polvere metaforica dei poeti e dei predicatori, ma quella che incombe e finisce per posarsi su ogni cosa, senza fare eccezioni per un panneggio o un volto scolpiti da Michelangelo. Fino al giorno in cui questi impalpabili ma implacabili «depositi incoerenti», come li chiama la scienza, combinati con l’umidità di certe stagioni dell’anno, rendono letteralmente invisibile anche il Mosè, con tutto il suo severo cipiglio patriarcale. Erano bastati 15 anni dall’ultimo ed epocale restauro per occultare, con una specie di velo penitenziale, la bellezza strabiliante non solo del Mosè, ma delle altre statue del monumento funebre di Giulio II. Antonio Forcellino, in camice bianco, emerge dal ponteggio che negli ultimi mesi ha circondato, senza occultarlo completamente alla vista, questo capolavoro dalla storia lunghissima, accidentata e piena di indizi degni della fantasia di un romanziere dell’Ottocento. Il fatto è che quando la storia di un’opera è lunga come questa, e l’artista che la porta a compimento ha il carattere di Michelangelo, significati e fraintendimenti, ipotesi e scoperte si sommano e si accavallano riservando sorprese proprio là dove l’abitudine suggeriva che tutto ormai fosse stato scoperto, incasellato, catalogato.
Basta considerare nella sua estensione l’arco di tempo che separa il primo progetto, commissionato nel 1505 a Michelangelo dallo stesso Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, dal completamento dell’opera nel 1545. È naturale che in quarant’anni il progetto iniziale abbia subito tanti cambiamenti da renderlo irriconoscibile. All’inizio il monumento era addirittura destinato a un’altra chiesa, in seguito alla parete opposta a quella dove si trova. Ma il risultato finale non è il semplice frutto di casualità e compromessi, come la maggioranza degli storici dell’arte affermava in passato. Soprattutto a ridosso della sua conclusione, tra il 1542 (quando decide all’improvviso di escluderne i Prigioni) e il 1545, il settantenne Michelangelo conferisce all’opera non solo la sua strabiliante armonia di forme in dialogo con le fonti di luce circostante, ma la carica di significati decisivi per la storia religiosa del tempo, facendone un vero crocevia di preoccupazioni spirituali e tensioni sempre più gravi tra l’ortodossia cattolica e le nuove idee luterane che prendono piede e si sviluppano anche all’ombra del Vaticano, fra Viterbo e alcuni cenacoli romani come la chiesa di San Silvestro al Quirinale, dove per qualche tempo si ascoltano prediche tutt’altro che ortodosse.
Le idee pericolose circolano ovunque, e dai torchi degli stampatori, in tutta Europa, vengono fuori libri che testimoniano di un’inaudita libertà di coscienza. La questione centrale che divide gli animi e riempie i libri proibiti e i documenti ufficiali degli inquisitori riguarda il destino del cristiano, di ogni singolo cristiano. Qual è il mezzo privilegiato per raggiungere la salvezza o, per usare un termine ancora più diffuso ai tempi, la propria giustificazione? Sono le opere buone che lo salvano, conseguenza della sua fede, oppure l’intero messaggio evangelico culmina nell’invito a confidare solo nella fede in Cristo, il grande riscattatore? Nel 1545, c’era ancora chi credeva che lo scisma più grave mai vissuto dalla Chiesa potesse ricomporsi. Una costellazione di spiriti legati in varia maniera a Michelangelo. Ma i teologi e gli alti prelati, come Reginald Pole e Bernardino Ochino, presto costretti alla fuga da Roma, fanno da corona alla figura più affascinante del gruppo: Vittoria Colonna. Questa aristocratica dall’animo ardente e coraggioso, grande scrittrice in versi e in prosa e autentico temperamento mistico, eserciterà su Michelangelo un’influenza senza paragoni in tutta la lunga vita del maestro. E di conseguenza, anche sull’ultima e definitiva sistemazione del monumento funebre a Giulio II.
Il quadro storico è corrusco e grandioso, ma il filo che lega Michelangelo all’eresia è fatto di indizi anche minimi, come quelli che Antonio Forcellino insegue da molti anni, in un costante andirivieni fra i cantieri di restauro e gli archivi. Anche più delle testimonianze esplicite, possono contare le omissioni, o le calcolate bugie, nascoste tra le pieghe di una lettera. Il punto di vista rivelatore, osserva Forcellino, è molto spesso quello ostile, come lo si può desumere dai verbali dell’Inquisizione. Lungi dal profanare un’idea astratta di bellezza, l’investigazione minuziosa conferisce a quell’idea la sua vera sostanza. È come se ogni indagine mirasse sempre a quel punto difficilissimo del visibile in cui la forma si incontra col suo significato. Ma si tratta di un bersaglio mobile, che non coincide mai con tutto ciò che già si sapeva.
E guardando il Mosè appena restituito al suo originario splendore è difficile non pensare che l’autentica venerazione che Sigmund Freud nutriva per quest’opera sollecitò non solo il suo senso estetico, ma le sue proverbiali capacità di analisi e deduzione. E il saggio che dedicò al Mosè nel 1913, pubblicato in forma anonima per modestia, è ancora ricchissimo di profonde intuizioni. «Perché Freud — osserva maliziosamente Forcellino — non è uno specialista, dunque si accosta senza schemi preconcetti al capolavoro, ci vede quello che sa e vuole vederci». E questo sguardo libero approda subito a una grande verità: tutto è innaturale nella posa del patriarca, a partire dallo strano modo in cui sostiene con il braccio destro le Tavole della Legge. E chissà come avrebbe interpretato Freud, se ne fosse stato a conoscenza, quella torsione della testa di Mosè documentata da una precisa testimonianza. È un intervento ai limiti del prodigioso su una statua già scolpita: un azzardo che forse solo Michelangelo si poteva permettere, un capolavoro nascosto nel capolavoro. Invece di fissare un punto davanti a sé, dopo questa capitale modifica, lo sguardo di Mosè, lievemente strabico, punta verso l’alto, alla ricerca della luce. Molti possono essere i motivi di questo ripensamento, ma una cosa è certa: guardando di fronte, gli occhi di Mosè si sarebbero fermati in eterno sull’altare, e soprattutto sulle catene di san Pietro, la preziosa reliquia che dà il nome («vincoli») alla chiesa stessa. Ma non è forse il culto e il mercato delle reliquie uno dei capisaldi della rivolta religiosa che infiamma l’Europa negli anni Quaranta del Cinquecento? Effettivamente, la nuova posa di Mosè sembra esprimere un rifiuto sdegnoso delle superstizioni, assieme a un ricerca di contatto individuale con la luce del divino.
Lunghissima e accidentata, come abbiamo detto, fu la gestazione di questo monumento funebre, forse il più bello e audace mai prodotto nella civiltà cristiana. Un tomba inaugurata più di trent’anni dopo la morte del suo destinatario. Ma anche un delicato congegno destinato a esprimere significati così pericolosi che ai contemporanei che avevano orecchie per intendere non restò che far finta di non capire. Un po’ come accadde con l’altra grande sfida all’ortodossia cattolica della pittura rinascimentale, gli affreschi (oggi perduti) di Pontormo nell’abside di San Lorenzo a Firenze. Lo stesso Michelangelo, sempre più isolato negli ultimi vent’anni della sua lunghissima vita, suggerì qualche sapiente depistaggio. Il fatto è che al posto dei Prigioni, nelle nicchie ai fianchi del Mosè, decise di sistemare due splendide figure femminili, incarnazioni della Vita Contemplativa, o della Fede, e della Vita Attiva, o della Carità. Un’altra pericolosissima allusione all’infuriare del dibattito sulla salvezza, sul ruolo della fede e delle opere nell’avventura terrena degli uomini. Ebbene, da anni i sospetti di Forcellino si erano concentrati sulla seconda di queste statue, e soprattutto sul misterioso oggetto che tiene ben visibile in mano, avvolto in un’abbondante ciocca di capelli che le scendono dalla spalla destra. Ma cosa rappresenta questo oggetto circolare? Stranamente, data la forma dell’oggetto, il Vasari, che ha fatto testo per secoli, ci vedeva uno specchio. Ma a tutto assomiglia tranne che a uno specchio questo recipiente ornato da una maschera grottesca. Non sempre chi pone la domanda, in queste ricerche così ricche di insidie e complicazioni, è colui che fa in tempo a trovare una risposta. Si tratta forse di qualcosa di molto simile a gettare una rete nel mare, confidando che qualcosa di prezioso ci rimanga impigliato. Ed è proprio quello che è successo in questi giorni grazie a una sorprendente scoperta della sorella di Antonio, Maria Forcellino, già autrice di scrupolose ricerche sui legami tra Michelangelo, Vittoria Colonna e la cultura cripto-protestante, per definirla in qualche modo, diffusa a Roma nei primi anni Quaranta del Cinquecento. Ebbene, fatto forse più unico che raro nella produzione di Michelangelo, l’elegante e slanciata figura muliebre di Michelangelo è una copia, non da un’altra statua, ma da un affresco rappresentante Maria Maddalena, parte della decorazione di una cappella eseguita da Polidoro da Caravaggio e Maturino da Firenze. Il confronto tra il modello affrescato e la statua scolpita da Michelangelo potrà fornire lumi precisi sull’oggetto misterioso avvolto tra le spire dei capelli. Ma ancora più impressionante è il fatto che l’affresco che ispirò Michelangelo si trova proprio in quella chiesa di San Silvestro al Quirinale in cui l’Inquisizione non tardò a scoprire un vero e proprio covo di eretici. Comunque sarà interpretata dagli storici, questa scoperta è una traccia di cui si dovrà tenere conto in futuro. Anche perché, c’è da scommetterci: di questa storia in cui la bellezza suprema è il veicolo di profondissime preoccupazioni spirituali, non conosciamo ancora tutti i dettagli.

Corriere della sera, 27 novembre 2016

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