Marco Varrone sul
numero di convitati più giusto e conveniente; e sulle portate di
fine pasto (i “bellaria”)
Nelle
Satire Menippee di Marco
Varrone c'è un libro delizioso che si intitola Non si sa
cosa porti la sera, in cui
l'autore discorre sul numero giusto dei commensali e sulla
preparazione e l'eleganza del convito. Secondo lui il numero dei
convitati dovrebbe cominciare dal numero delle Grazie e arrivare a
quello delle Muse, insomma che parta da tre per fermarsi a nove, di
modo che, quando siano molto pochi, non siano comunque meno di tre e,
quando sono moltissimi, non siano più di nove. “Non conviene –
egli dice – essere in molti perché il più delle volte la turba è
turbolenta: a Roma sta in piedi, ad Atene sta seduta, ma in nessun
luogo può stare comodamente sdraiata come dovrebbe. Quanto alla cena
in sé, a prescindere dal numero dei partecipanti, la sua riuscita
si basa su quattro requisiti: la scelta di persone eleganti, il luogo
ben scelto, l'ora convenientemente fissata, la preparazione non
trascurata. Gli invitati non devono essere né ciarlieri né
taciturni, perché se l'eloquenza è al suo posto nel foro o in
tribunale, il silenzio è adatto alla camera da letto non alla sala
da pranzo”. Varrone pensa che per l'occasione non si debba fare
conversazione su argomenti angosciosi o complicati, ma parlare di
cose allegre e gradevoli, utili sì ma con una qualche attrattiva e
piacevolezza, dalle quali la nostra intelligenza sia resa più bella
e gioiosa. “Di certo l'obiettivo – egli dice - si realizzerà se
ragioneremo di quel genere di cose che riguardano la normale vita di
ognuno e per le quali nel foro e nelle attività pratiche non c'è
mai spazio. Non è necessario che il padrone di casa faccia il
sontuoso – aggiunge – ma dev'essere senza grettezza”. E ancora:
“Durante la cena non si può leggere di tutto, ma soprattutto
quello che sia piacevole e utile alla vita”.
Anche
per le seconde (e ultime) portate Varrone indica come è bene che
siano. Usa queste parole: “I bellaria più
dolci sono quelli che non sono dolci; i dessert vanno poco d'accordo
con la digestione”.
Per
evitare che qualcuno si trovi in imbarazzo per il termine bellaria,
usato da Varrone, si sappia che esso indica qualsiasi tipo di
“seconda mensa”. Il nostri antenati chiamavano bellaria
quelle pietanze che i Greci
chiamavano pémmata o
tragémata. Anche i
vini dolci facevano parte della categoria, come si può ricavare
dalle commedie più antiche ove venivano chiamati “i bellaria
di Bacco”.
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XI. Quem M. Varro aptum
iustumque esse numerum convivarum existimarit; ac de mensis secundis
et de bellariis.
I. Lepidissimus liber est M.
Varronis ex satiris Menippeis, qui inscribitur: nescis, quid vesper
serus vehat, in quo disserit de apto convivarum numero deque ipsius
convivii habitu cultuque. II. Dicit autem convivarum numerum incipere
oportere a Gratiarum numero et progredi ad Musarum, ut, cum
paucissimi convivae sunt, non pauciores sint quam tres, cum plurimi,
non plures quam novem. III. "Nam multos" inquit "esse
non convenit, quod turba plerumque est turbulenta et Romae quidem
stat, sedet Athenis, nusquam autem cubat. Ipsum deinde convivium
constat" inquit "ex rebus quattuor et tum denique omnibus
suis numeris absolutum est, si belli homunculi conlecti sunt, si
electus locus, si tempus lectum, si apparatus non neglectus. Nec
loquaces autem" inquit "convivas nec mutos legere oportet,
quia eloquentia in foro et aput subsellia, silentium vero non in
convivio, set in cubiculo esse debet". IV. Sermones igitur id
temporis habendos censet non super rebus anxiis aut tortuosis, sed
iucundos atque invitabiles et cum quadam inlecebra et voluptate
utiles, ex quibus ingenium nostrum venustius fiat et amoenius. V.
"Quod profecto" inquit "eveniet, si de id genus rebus
ad communem vitae usum pertinentibus confabulemur, de quibus in foro
atque in negotiis agendis loqui non est otium. Dominum autem"
inquit "convivii esse oportet non tam lautum quam sine
sordibus", et "In convivio legi non omnia debent, sed ea
potissimum, quae simul sint biophele et delectent". VI. Neque
non de secundis quoque mensis, cuiusmodi esse eas oporteat,
praecipit. His enim verbis utitur: "Bellaria" inquit "ea
maxime sunt mellita, quae mellita non sunt; pemmasin enim cum pepsei
societas infida". VII. Quod Varro hoc in loco dixit "bellaria",
ne quis forte in ista voce haereat, significat id vocabulum omne
mensae secundae genus. Nam quae pemmata Graeci aut tragemata
dixerunt, ea veteres nostri "bellaria" appellaverunt. Vina
quoque dulciora est invenire in comoediis antiquioribus hoc nomine
appellata dictaque esse ea "Liberi bellaria".
Testo latino da http://www.thelatinlibrary.com/gellius/ - Traduzione Salvatore Lo Leggio
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