Il giorno dopo la morte
di Franco Corsi, in arte Zeffirelli, amabilmente sfottuto da Ennio
Flaiano col soprannome di ‘Scespirelli’, ho seguito con crescente
smarrimento l’impennata retorica, che cresceva soprattutto nella
mia Firenze. Mentre si profilavano l’esposizione della salma nel
Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, il funerale in Duomo, la
tumulazione alle Porte Sante e la perdita definitiva del senso della
misura che è culminata, su alcuni giornali fiorentini, in paragoni
per nulla ironici con Michelangelo, Machiavelli, Galileo e gli altri
forti che dormono in Santa Croce, ho pensato che fosse non solo
legittimo, ma perfino doveroso, buttare nell’enorme calderone di
melassa un atomo di contravveleno.
Pochi caratteri di
scettico ridimensionamento, di fronte ad una foliazione dei giornali
locali che non si sarebbe raggiunta neanche fosse morto di nuovo
Dante in persona. Eccoli:
«Si può dire che il
#maestro Scespirelli era un insopportabile mediocre, al cinema
inguardabile? E che fanno senso gli alti lai della Firenzina,
genuflessa in lutto o in orbace, ai piedi suoi e dell’orrenda
Oriana? Dio l’abbia in gloria, con Portesante e quel che ne
consegue. Amen».
Evidentemente non si
poteva dire. Non ci sono offese né insulti. Sarcasmo, certo.
Tipicamente fiorentino anche quello. E più verso i devoti, suoi e
della Fallaci che non verso lo scomparso. E non senza un augurio di
resurrezione celeste (espresso con una formula fiorentina, anch’essa
ironica: ma dolcemente ironica), e con la rassegnata («amen») presa
d’atto della glorificazione terrestre.
Avevo messo in conto,
ovviamente la caterva di insulti più o meno anonimi della rete. E
anche la legittima censura di chi avrebbe ritenuto di cattivo gusto
un simile giudizio dato a poche ore dalla morte. Ma, come nel caso
della scomparsa di Marchionne o di altre figure controverse, credo
che la macchina delle retorica debba sopportare anche delle voci
fortemente contrarie: sono le ovvie regole del gioco.
Ieri, però, sono
arrivati anche gli insulti di un deputato fiorentino (che è riuscito
a passare da Forza Italia al Pd di Renzi: senza sforzi, in effetti),
di Sgarbi, del “Secolo d’Italia”, della sottosegretaria
leghista ai Beni Culturali e immagino che altri siano in arrivo: di
pari livello culturale, di simile orientamento politico.
Noto che tutti costoro
chiedono a gran voce le mie dimissioni da organismi scientifici di
nomina universitaria o ministeriale. Mi spiace deluderli, ma gli
articoli 21 e 33 della Costituzione consentono di dire quello che si
pensa, e di dare i giudizi artistici e morali che si ritengono
opportuni. E uno ha tutto il diritto, e perfino il dovere se insegna,
di dire: «No, non mi piace il presepe» (oh, è una citazione anche
questa: prima che mi denuncino all’Inquisizione e mi consegnino al
braccio secolare).
Fin da ragazzo ho trovato
detestabile la violenza, il razzismo, lo squadrismo verbale della
Fallaci e di Zeffirelli.
Ho sempre giudicato la
prima una figura orrenda, esecrabile. Ricordo che nel 2006 la Fallaci
minacciò di far saltare con l’esplosivo una moschea, se fosse
stata davvero costruita a Colle Val d’Elsa. Ecco: trovo che
dedicare vie e attribuire onorificenze a chi ha costantemente
espresso posizioni del genere significhi calpestare la Costituzione
italiana e i suoi valori. E la Firenze borghese, ignorante, di destra
quando non esplicitamente fascista che ha sempre venerato la Fallaci
mi ha sempre fatto orrore.
Franco Zeffirelli era
l’esponente più noto di questa Firenze: andò a comprare un
fiorino d’oro per gettarlo sulla bara della Fallaci, scagliandosi
contro il comune che (allora) non l’aveva debitamente onorata. Una
Firenzina provinciale che odia gli stranieri, ha ottenuto (da Renzi)
di non avere la moschea e vive sciacallando il passato e distruggendo
il tessuto civile della città.
Ma Zeffirelli era
qualcosa di più. Il suo cinema è fatto di «oleografia
sentimentale, banalità melodrammatica, cartoline illustrate per
l’export, fatuità da classe vip, imbarazzanti capitoli finali».
Non sono insulti, non sono giudizi occasionali: è la sentenza del
più diffuso, popolare repertorio cinematografico italiano, il
Morandini. Non cito testi scientifici o specialistici, ma una
enciclopedia portatile che ha il pregio di condensare in modo
autorevole decenni di giudizi assai meditati. Ebbene, per il
Morandini Fratello Sole, Sorella Luna è «una fantasia
paramusicale al glucosio su Francesco visto come precursore dei figli
dei fiori e messo in immagini da cartolina in tricromia per il
pubblico americano». Il giovane Toscanini è un «film
oleografico, inattendibile, goffo di logorroico tedio». Si potrebbe
continuare a lungo.
Ora, c’è un motivo per
cui in queste ore Firenze sta osannando questo cineasta mediocre, la
cui ‘arte’ spiega perfettamente come egli abbia potuto coltivare
un’intima amicizia con Silvio Berlusconi, facendo per due mandati
il senatore di Forza Italia e affidando la sua fondazione (che
ingombra un monumentale spazio pubblico fiorentino) a Gianni Letta. E
quel motivo è che Zeffirelli è il perfetto testimonial del brand
Firenze. Della Firenze da cartolina. Della città dei ricchi. Della
cultura finta. Della mercificazione della bellezza. Il suo cinema
prepara, anticipa e racconta (in questo solo, preterintenzionalmente,
geniale) lo sfascio estetico, civile e morale di Firenze. Così come
le tv di Berlusconi hanno fatto con l’Italia intera.
Il professionista della
politica passato da Berlusconi a Renzi pretende che mi scusi con
Firenze, che avrei insultato. Ma Firenze non è sua, e non è di
Zeffirelli. Firenze non è solo la folla che, in perfetta buona fede
e commozione, fa ala al carrozzone funebre.
Io conosco un’altra
Firenze. È quella di don Milani e di La Pira, di Mario Fabiani e di
Turoldo. Di Calamandrei e Barile. Di Balducci e di don Santoro. E per
fortuna di tanti altri (fiorentini e no) che l’hanno amata,
dicendone tutto il male possibile: da Dante a Tabucchi.
Credo che in tempi meno
segnati da una egemonia culturale di destra saremmo stati in tanti, a
Firenze, a contestare pubblicamente la pubblica glorificazione, nei
massimi spazi civici, di uno Zeffirelli che ha costantemente
dichiarato cose come queste: «metterei la pena di morte per le donne
che abortiscono… gli stessi che promuovono l’assassinio dei
bambini, si oppongono alla pena di morte dei criminali. sono gli
stessi… tutto quel pannellame lì da anni rompono le scatole,
mandano in giro negri, mandano in giro Cicciolina. Sono gli stessi,
sono la cialtroneria opportunistica incolta della nostra cultura
contemporanea».
Ma anche se non trova
spazio in giornali senza memoria e senza coscienza, esiste ancora,
per fortuna, una Firenze che rabbrividisce di fronte alla scelta di
Zeffirelli e Fallaci come testimonial di questa povera città:
ridotta a un brand che è per metà merce e per metà manganello. Con
la camicia nera: un po’ per lutto, e un po’ no.
“Il Fatto Quotidiano”,
19 giugno 2019
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