«Un’Italia così non
me la ricordavo. L’avevo lasciata nel 2005-2006 per trasferirmi a
Parigi. Il clima di adesso è pieno di risentimento. Tutti ce l’hanno
con tutti», sostiene Rossana Rossanda, classe 1924, un nome che dice
poco ai ragazzi di oggi e che tra la fine degli anni Sessanta e nei
due decenni successivi era noto a parecchi nelle università e nelle
scuole. Nata a Pola, diventò comunista tra Milano e Venezia nel 1943
mentre la repressione nazifascista contro i partigiani era feroce.
«Li ho visti gli
impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate», scrisse
successivamente. Il viso di questa donna che adesso si muove su una
sedia a rotelle sembra tuttora meno anziano di quanto è. In gran
parte lo si deve a un aspetto: agli occhi di molti, lei ha da sempre
i capelli di un grigio argentato. Le si imbiancarono a 32 anni d’età,
cambiarono di colore nel 1956. Successe durante i giorni
dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Dirigente locale del
Partito comunista italiano, combattuta tra un certo spirito
libertario e un’usurata fiducia per Mosca, lei rimase colpita dalla
foto di un funzionario durante la rivolta ungherese. Era impiccato a
un fanale.
«Il povero e l’oppresso
hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre
torto», affermò 50 anni più tardi Rossana Rossanda nel ricordare
quel periodo e i tormenti nella sua coscienza. Con un ragionare
pacato nei toni e radicale nella sostanza, ha affascinato sia
studenti della «sinistra rivoluzionaria» sia intellettuali italiani
e stranieri. Nel 1969 sdegnò numerosi dirigenti del Pci, partito nel
quale era cresciuta e che la radiò perché con il gruppo del
“Manifesto” aveva condannato risolutamente l’invasione
sovietica di Praga.
Una nuova pagina nera,
quell’aggressione sferrata da Leonid Breznev contro la capitale
della Cecoslovacchia, in una storia immaginata in precedenza
migliore. Rossana Rossanda rimase comunista anche quando Achille
Occhetto, chiudendo un’era della politica italiana, dopo il 1989
propose di trasformare in Partito democratico della Sinistra il Pci
nel quale lei non era mai rientrata. Nonostante tutto, non si è
arresa. Con Luciana Castellina, il mese scorso, è intervenuta a un
incontro nella Casa delle Donne per la campagna elettorale de La
Sinistra.
Mente lucida, labbra
vivide con rossetto brillante, La ragazza del secolo scorso,
come Rossana Rossanda si definì in un suo libro edito nel 2005 da
Einaudi, è seduta nello studio di casa a Roma. Qualche sguardo agli
scaffali della libreria permette di rintracciare ingredienti sparsi
della sua formazione e dei suoi interessi: La città futura
1917-1918 di Antonio Gramsci, saggi in francese e in inglese,
letteratura, filosofia. Molta la storia, da I ricordi di Marco
Aurelio a The nemesis of power. The German Army in politics
1918-1945.
La conversazione che
segue comincia parlando della ragazza diciassettenne lasciatasi
morire in Olanda, giorni fa, perché non desiderava più vivere. Fu
Rossana Rossanda, nel 2011, ad accompagnare in Svizzera Lucio Magri,
79 anni, un altro dei fondatori del “manifesto”, quando lui fece
porre fine alla propria esistenza. Per età e motivazioni della
scelta, due casi diversi. Così l’incontro è proseguito parlando
di Magri e altri argomenti che il suo suicidio assistito può
evocare. Che cosa è la vita, la propria vita, per alcuni ex
dirigenti comunisti cresciuti nel sogno di un’uguaglianza nella
giustizia secondo i termini teorizzati da Karl Marx. Che cosa hanno
provato queste persone, nel Paese che ebbe il più forte partito
comunista dell’Occidente, quando soltanto al principio degli anni
Novanta riconobbero l’uscita del comunismo dagli eventi
realizzabili in un futuro accessibile ai contemporanei. Che cosa è
l’Italia di oggi vista a 95 anni dalla ragazza del secolo scorso.
Doveroso premettere che Rossana Rossanda, tra 1978 e 1979, al
“manifesto” quotidiano è stata direttore di chi scrive queste
righe.
Quali riflessioni
derivarono dall’accompagnare Magri al suicidio assistito?
«Pensavo e penso che lui
avesse diritto. Non mi sono opposta alla sua volontà di finire».
Affinché arrivasse il
suo ultimo giorno andaste insieme vicino Zurigo. La misura nell’uso
delle parole rende l’idea di quanto accade più di alcuni toni
alti. Sulla morte di Magri la tua descrizione fu questa: «È stato
tristissimo. Non terribile, ma tristissimo».
«Lucio aveva perduto sua
moglie a causa di una malattia».
Mara, scomparsa tre
anni prima. La mancanza di lei accentuò un suo malessere?
«Sì. Rispetto agli
altri amici che non erano d’accordo sulla scelta di Lucio io non ho
avuto difficoltà ad accompagnarlo. Ma per lui, come per tutti,
decidere di morire non è semplice. E lui aveva la sensazione che
ormai non c’era più niente da fare. Non solo, come è ovvio, per
la sua compagna. Anche per la vita politica».
Dunque per quanto era
successo dopo il 1989, l’apertura del Muro di Berlino, e la fine
dell’Unione Sovietica nel 1991. Ma tu, Magri e altri, nel 1969,
foste radiati dal Pci perché eravate in contrasto con il vostro
partito sull’Urss e sull’invasione della Cecoslovacchia. Perché
risentire fino a quel punto della sconfitta sovietica? Fosti tu tra
1977 e 1979 a promuovere i convegni del “manifesto” sulle
«società post-rivoluzionarie», atti d’accusa contro la dittatura
di Breznev.
«Fummo radiati perché
eravamo in dissenso con il partito. Il nostro dissenso con l’Unione
Sovietica però veniva da lontano».
E come mai il collasso
dell’Urss doveva essere motivo di disperazione per Magri?
«Perché non era solo il
crollo dell’Unione Sovietica, ma delle nostre speranze in Italia.
Del resto guarda un po’ come va oggi. Non è che Lucio sbagliasse.
Allora al governo c’era stato fino a poco prima Silvio Berlusconi».
Tuttavia sei stata
ragazza durante il fascismo. Non è che in gioventù avessi vissuto
momenti politici migliori per una comunista. Erano stati
infinitamente peggiori.
«Ero giovane».
Rispetto alla vita, la
vostra generazione ha conosciuto molto più dolore rispetto a chi in
Italia è giovane adesso.
«Vedere finire ogni
speranza di una vita diversa non è cosa da poco».
Non credi di aver dato
ad altri insegnamenti che non si disperdono?
«Non mi pare di aver
fatto niente di speciale».
Davvero?
«Davverissimo».
Venivi ascoltata
sempre con attenzione e rispetto in riunioni e assemblee. Le
divergenze politiche e vicende della vita ci hanno portato in tanti
su strade diverse da quella del “manifesto”, ma, solo nel campo
del giornalismo, tu sei stata considerata una dei maestri anche da
Gianni Riotta, Lucia Annunziata, Norma Rangeri che invece al
“manifesto” è rimasta e lo dirige.
«È una vostra fantasia.
Molte cose sono state insegnate a me. Avevo 15 anni nel 1939. Dal
1939 al 1945 ero già abbastanza grande. Ho imparato. Non era
semplicissimo. Non è che si trovassero i comunisti o gli
antifascisti così facilmente. Quindi sono stati i libri ad avermi
fatto maturare, soprattutto quelli esteri. Penso a Fascisme et
grand capital di Daniel Guérin».
Credi che non esista
alcuna prospettiva per la sinistra? E, dal tuo punto di vista,
nessuna possibilità per un miglioramento del genere umano?
«Comunque quello che era
un nostro progetto era proprio fallito. Adesso poi le cose sono
peggiorate. Non è semplice accettare che la persona adesso con più
peso in Italia sia Matteo Salvini. Non è un problema?».
Un italiano, qualunque
sia la sua posizione politica, se lo considera problema non lo
ritiene certo di vita o di morte. E tu, Luigi Pintor, Valentino
Parlato e altri dirigenti della sinistra diffidando di vari
estremismi insegnavate a fare i conti con la realtà: cercare di
capire qual è il campo di battaglia e se le vie desiderate non
funzionano, trovarne di nuove.
«In effetti è solo
Lucio che anche per le valutazioni politiche ha deciso di finire. Noi
no».
Che la fine di un
sogno strutturato in ideologia possa causare disagio, dolore è
comprensibile. Eppure a sinistra c’è chi rispetto ai comunisti ha
azzardato meno nell’ambizione, nell’utopia, e ha compreso meglio
la realtà. Molti socialisti, laburisti, socialdemocratici.
«Ma non è che il
realismo ti obblighi ad accettare tutto».
Questo «tutto» è
riferito alle ingiustizie, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Però le condizioni dei lavoratori italiani sono migliori di 50 anni
fa. Senza rinunciare a uno spirito critico sulla società attuale, è
un dato di fatto. Andrebbe riconosciuto.
«Dipende. Bisogna
misurarsi anche con le speranze. In ogni modo, io non mi sono uccisa.
Ho accompagnato Lucio. E non credo che in Italia si stia meglio di 50
anni fa. Perché conta anche l’investimento che fai nelle speranze.
Adesso ce n’è molto poco».
Un po’ come una
spiegazione che il “manifesto” diede delle proteste studentesche
del 1977? Contava relativamente che i giovani non fossero poveri come
lo erano stati i genitori, si sosteneva, se in tempi di crisi
economica l’aver studiato non garantiva loro il tipo di lavoro
sperato. È un paragone valido anche per l’oggi?
«Le aspettative delle
persone contano. Anche adesso».
Tornando al rapporto
tra situazione attuale, passato, speranze e delusioni incontrate
dalla tua generazione, non solo da chi era comunista: ma voi non
avete visto di peggio? E in tanti non reagiste con tenacia? C’erano
stati la guerra e i campi di sterminio, in Europa, mentre eravate
giovani voi.
«È un’altra
dimensione quella dei campi di sterminio. Vale la riflessione di
Primo Levi: chi non l’ha provato non ha conosciuto quel senso di
annullamento».
Sopravvissuti ai lager
nazisti della Shoah sono poi emigrati in Israele e lì hanno
contribuito a far nascere banane nel deserto, a trasformare aree
desertiche in zone coltivate. A maggior ragione la storia va spinta
in avanti, non indietro.
«Sì, è vero. Però in
questo contesto che cosa vuol dire: che Lucio aveva torto?».
Vuol dire che il suo
dolore esistenziale e individuale merita rispetto, ma la sua scelta
non era una via per tutti voi.
«Se rileggi i libri di
Luigi neanche lui era molto positivo (Luigi Pintor, altro fondatore
del Manifesto, direttore e corsivista brillante che spiccava per
graffiante ironia e che allo stesso tempo soffriva il peso interiore
di un’amarezza provata da quando nel 1943 il fratello Giaime morì
su una mina, ndr)».
Di sicuro Luigi Pintor
non era sempre ottimista. Il suo Servabo, parola latina che ha
tra i suoi significati «conserverò» oppure «servirò, sarò
utile», è un libro sofferto. Tuttavia sul serio anche molto utile.
«Certo. A quale aspetto
ti riferisci in particolare?»
Pintor spiegò così
come mai gli esseri umani, mortali, si sforzano «in forme
esasperate» per accumulare denaro, costruire relazioni e avere
potere: perché sentono di doversi curare quando in un momento
dell’esistenza arriverà «l’accerchiamento finale». Però a chi
assiste una persona cara che sta male alcuni passaggi di Servabo
possono dare conforto. Soprattutto uno: «Non c’è in un’intera
vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro,
cingendoti il collo, possa rialzarsi».
«Comunque puoi capire
che per qualcuno la speranza ideale, politica, sia una sfida di vita
o di morte. Puoi dire: “Non sono d’accordo”».
Che cosa legge
attualmente Rossana Rossanda? Che cosa guarda o che ascolta?
«Ho cercato di capire un
po’ più della politica italiana ed è veramente desolante, devo
dire».
Lo sostengono in
parecchi, al di là delle collocazioni politiche. A volte, comunque,
le persone delle quali non si condividono le idee possono fornire
insegnamenti a ciascuno di noi se riescono a vedere qualcosa di noi
che non vediamo o non vogliamo vedere.
«Vero, eppure nella
circostanza specifica aiuta poco. E personalmente non ho rancori. Se
penso al passato, neanche verso Giorgio Amendola. Constato che alcuni
dirigenti del Pci, più tardi, hanno voluto demolire il Partito
comunista. Hanno fatto bene? Non lo penso».
Parlavi di fallimento
di un progetto. Ritieni possibile migliorare lo stato delle cose
senza sottoporre a cambiamenti criteri e finalità dell’ideologia
nella quale ti formasti?
«Domanda del tutto
legittima. Ma sono convinta che l’Italia sia peggiorata, non
migliorata in questo periodo. Da quando l’avevo lasciata, poi, è
un Paese involgarito».
Corriere.it, 9 giugno
2019
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