I cento anni un mitico
editore e poeta.
Che qui parla di Brooklyn,
di Allen Ginsberg,
dei
pesci bretoni di Jack Kerouac.
da New York
«Sono molto sorpreso,
davvero: non mi aspettavo tutti questi riconoscimenti». C’è
gioiosa meraviglia nella voce di Lawrence Ferlinghetti che mi arriva
da San Francisco, ma anche un’enorme stanchezza. Nell’arco di
pochi giorni la pubblicazione in America — in uscita martedì
presso Penguin Random House — del suo «libro definitivo», Little
Boy (ampiamente anticipato nei passi principali da «la Lettura»
del «Corriere» il 2 dicembre scorso), le cento candeline da
spegnere il 24 marzo, le richieste d’interviste da tutto il mondo,
e le celebrazioni: le letture pubbliche di sue poesie,
l’inaugurazione della mostra Lawrence d’Italia in
programma martedì all’Istituto italiano di cultura di San
Francisco diretto da Annamaria Di Giorgio, i raduni di amici alla
City Lights, la libreria da lui fondata che fu anche sede della sua
casa editrice, motore culturale della Beat Generation. Che, come
racconta in questa intervista, lui ha vissuto nella sua beatitude,
pur non essendo mai stato un beatnik.
E poi, lunedì 18 marzo a
North Beach, il suo quartiere, la cerimonia dell’albero — un
ulivo della pace — che verrà piantato dal sindaco di San
Francisco, dal console italiano Lorenzo Ortona e dagli altri
esponenti della cultura della città di fronte alla via che prenderà
il suo nome. Il 24 marzo diventerà per sempre «Ferlinghetti Day»,
una giornata di feste culturali in allegria, carnevalesche, come le
performance dissacranti e spensierate che Lawrence ha disseminato
lungo tutta la sua vita artistica.
«San Francisco è il
posto giusto», dice. È la città che settanta anni fa adottò un
ragazzo che aveva già visto e sofferto tutto: da un’infanzia senza
genitori (il padre, bresciano, morto prima della sua nascita, la
madre franco-portoghese che lo diede in adozione non riuscendo a
mantenere cinque figli) fino agli orrori della guerra. In Normandia
il D-Day, marinaio nello sbarco degli Alleati. E poi nelle vie di
Nagasaki, che descriverà come l’Inferno sulla Terra, sette
settimane dopo l’esplosione dell’atomica.
«Questa città è il
posto giusto — aggiunge Ferlinghetti — fin dal suo nome, quello
di Francesco d’Assisi: un poeta anarchico al quale è poi capitato
anche di diventare santo».
Lawrence il 18 marzo non
ci sarà: di lui parlerà Mauro Aprile Zanetti, l’intellettuale
italiano trapiantato in California che da anni si divide tra il suo
lavoro di chief evangelist di aziende dell’intelligenza
artificiale (con l’ambizione di umanizzare la tecnologia) e le
tante ore passate con l’ultimo grande protagonista della
controcultura americana del Novecento.
«Mauro è il mio
folletto» dice Ferlinghetti in questa breve e faticosa intervista.
«Un folletto con le ali ai piedi, tutto cuore e primavera: per
questo si chiama Aprile». Mauro è seduto in fondo al letto e scrive
tutto sul suo Macintosh. Le risposte al telefono e le cose che il
poeta dirà quando la conversazione si interrompe.
Attivissimo fino a un
paio d’anni fa, protagonista per decenni della cultura con le sue
performance irriverenti, sempre fuori da ogni schema, Lawrence non
esce di casa da molto tempo: soffre per le limitazioni del glaucoma e
della degenerazione maculare che l’hanno reso quasi completamente
cieco.
Ma forse per lui,
abituato ad affrontare le avversità con lo spirito del cane randagio
che si butta tutto alle spalle e guarda sempre avanti, questi giorni
di celebrazioni sono anche occasione di sofferenza: lo sospingono di
nuovo verso il suo passato. E infatti agli intervistatori che gli
chiedono di ripercorrerlo risponde, secco, di leggersi Little Boy.
Un libro di riflessioni sul mondo, di denunce, speranze e presagi di
apocalittici disastri ambientali. Un resoconto del secolo che ha
attraversato, masticato e digerito nel quale esaurisce la sua
personale biografia nelle prime venti pagine: l’infanzia a
Bronxville, la guerra, gli studi a Parigi, alla Sorbona, la corsa
verso il West, l’Ultima frontiera: «Il grido era “Go West, young
man” e anch’io mi misi a correre dietro quella sirena bendata».
Poi le carriere parallele di poeta e imprenditore della cultura che
scopre Jack Kerouac e pubblica l’Urlo di Allen Ginsberg
sfidando la censura in una battaglia che, a metà degli anni
Cinquanta, cambiò l’America ampliando i confini della sua libertà
d’espressione. E poi la pubblicazione del capolavoro, Coney
Island della mente, un milione di copie vendute, un’enormità
per una raccolta di poesie. Col bimbo che Ferlinghetti non ha mai
smesso di essere che ricostruisce, nella sua fantasia, il primo
incontro tra i suoi genitori nel lunapark di Brooklyn.
Ma cos’è questo
«Little Boy» del suo libro? A un italiano ricorda il fanciullino di
Pascoli, che sopravvive sempre, nascosto in un angolo dell’anima
degli adulti.
«Certo, è così:
nascosto in un angolo, ma sempre pronto a rispuntare fuori attraverso
la poesia e la sua natura intuitiva e irrazionale. E lui è come me,
che ho sempre vissuto nel presente. Leggete Little Boy così:
non c’è passato, non c’è futuro, esiste solo il presente».
Un fanciullino rimasto
innocente nonostante tutto quello che ha vissuto?
«Sì, Little Boy deve
restare innocente. Ma è ben informato su quello che accade».
Il Ventesimo secolo
attraversato da «Little Boy» è stata un’era di guerre e tragedie
ma anche di cambiamento: libertà, democrazia, diritti civili. Il
Ventunesimo secolo, fin qui, è meno sanguinoso, ma sta ridando fiato
agli autoritarismi, al nazionalismo. C’è più spazio per il
razzismo e la violazione dei diritti civili e umani. Un mondo stanco
di democrazia?
«Non credo che il mondo
sia stanco di democrazia: ne vogliamo di più, non di meno. Mi
piacerebbe vedere un’occupazione di massa della Casa Bianca, una
spinta che porti all’impeachment del presidente Trump. E credo che
qualcosa del genere dovrebbe avvenire anche in Italia e nelle altre
nazioni nelle quali hanno successo i movimenti autoritari».
Lei è stato un
protagonista della Beat Generation, movimento antiautoritario per
eccellenza. Ma rifiuta l’etichetta di «beat» perché il suo stile
letterario è diverso da quello della generazione di poeti dei quali
è stato amico, editore e impresario.
«Senza Allen Ginsberg
non ci sarebbe stata una Beat Generation. Fu una creazione della sua
mente. Quanto a me, non sono mai stato un beat. Una volta io e
Kerouac eravamo seduti sulla spiaggia di Big Sur davanti al Pacifico.
Mi chiese: “Cosa ci sta dicendo il mare?”. Risposi, visto che
tutti e due eravamo cresciuti parlando francese, «les poissons de
mer parlent Breton» (i pesci parlano bretone, come bretoni erano le
origini di Kerouac, ndr). Ecco, in quelle parole c’era il mio
essere immerso nella grande beatitude di quel tempo, pur non
essendo un beat. Ma ho condiviso quel messaggio, che è stato a lungo
la voce centrale del dissenso americano. Un messaggio che resta ancor
oggi una valida critica dello stile di vita americano».
«Me, me, me»,
l’ossessione autoreferenziale che lei ha sempre denunciato, è una
malattia dell’America o del mondo?
«Per guarire da questa
patologia ci vorrà una generazione completamente nuova, non
intrappolata nella cultura del Me, me, me. Una nuova generazione non
soggiogata dal desiderio di successo materialistico, che non
glorifica il capitalismo, capace di liberarsi dell’alito cattivo
della civiltà industriale. Serve una rivoluzione basata su principi
socialisti che diffonda benessere non solo nei Paesi già ricchi».
Lei ha sempre
criticato aspramente la Chiesa. Ma a volte sembra avere una sua
personale religiosità come quando, nei suoi poemi, immagina un
Paradiso senza la sorveglianza asfissiante degli angeli custodi.
«Religioso?». E poi
declina il suo catechismo, in italiano: «Mangia bene. Ridi spesso.
Ama molto».
Nelle sue opere torna
di frequente il conflitto con gli altri, «the Other». Ora è più
violento. Colpa della comunicazione digitale che favorisce le voci
più brutali?
Silenzio. Mauro mi fa
notare che Ferlinghetti non conosce il linguaggio degli hater dei
social media. La conversazione finisce qui, le altre risposte
arrivano scritte.
Cos’è per lei
l’Italia? Il padre mai conosciuto, North Beach, la nostra cultura?
«San Francisco è sempre
stata una città italiana, fin dal nome. È basata su un idillio con
l’Italia. E io ho vissuto a North Beach, nel suo cuore, dove la
gente parlava nordbiccese».
Quanto fu importante
l’Italia per il suo ruolo nel Fluxus, il movimento artistico
d’avanguardia post-futurista e post-dadaista degli anni Sessanta e
Settanta?
«A Verona Francesco Conz
decise che io ero il portabandiera ideale per il Fluxus. Gli anni
italiani furono per me di grande ispirazione. Creai anche il verbo
fluxare: io fluxo, tu fluxi, noi fluxiamo... “Vuoi fluxare con me
stanotte?” voleva dire “realizza i tuoi sogni”. Sto aspettando
che i vocabolari se ne accorgano. E considero Pier Paolo Pasolini il
più grande intellettuale del Ventesimo secolo».
Corriere della sera, 16
marzo 2019
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