Vincenzo Cardarelli |
Quando
frequentavo come allievo regista l’Accademia Nazionale d’Arte
Drammatica a Roma negli anni 1949-1950, per un certo periodo andai ad
abitare in un grande appartamento nei pressi di piazzale Flaminio
assieme a tre amici che sarebbero diventati famosi: il regista Mario
Ferrero, il commediografo e regista Giuseppe Patroni Griffi e Bill
Weaver che si esercitava nelle prime traduzioni dall’italiano
all’inglese. Verso sera convenivano altri futuri famosi come il
regista Francesco Rosi, lo scrittore Raffaele La Capria, il giovane
Vittorio Gassman e tanti altri ragazzi e ragazze. Possedevamo un
grammofono che mandavamo a tutto spiano e facevamo le ore piccole
ballando, scherzando e ridendo. Immancabilmente verso l’una di
notte squillava il campanello della porta di casa, qualcuno andava ad
aprire e si trovava davanti al poeta Vincenzo Cardarelli, in pigiama,
che abitava al piano di sotto e che non riusciva a prendere sonno per
il chiasso che noi facevamo. Una sera Mario Ferrero lo invitò a
unirsi a noi, inaspettatamente egli accettò si sedette su una sedia
in un angolo dello stanzone e si mise a osservarci con occhi
sprezzanti. Dopo una mezz’oretta ci chiese una coperta, tremava dal
freddo, e dire che era una serata caldissima, ci si avvolse e si
sedette di nuovo senza cambiare espressione. Dopo un po’ si alzò e
parlò a voce alta:
«Posso
dire una cosa?».
«Certamente,
Maestro» rispondemmo.
«Siete
giovani di merda» fece con aria solenne e si avviò alla porta
sempre avvolto nella coperta.
Da
quel momento in poi non salì più a protestare. Un giorno che lo
incontrai per le scale mi disse che si era munito di batuffoli di
cotone e cera molle che si infilava nelle orecchie e con questo
espediente riusciva a prendere sonno.
Cardarelli
non aveva un carattere facile. Quando per esempio a Roma si seppe che
Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano,
era stato ucciso dai partigiani egli, incontrando il figlio del
fratello di Pavolini gli disse:
«Di’
a tuo padre che io godo delle sue presenti sventure».
Pativa
il freddo anche in pieno solleone, una volta io assistetti a una
scena incredibile. Stavo in piazza del Popolo davanti al Bar Luxor
che poi sarebbe diventato Canova, era quasi l’una, il sole a picco,
un caldo e un’afa difficili da sopportare, da Porta del Popolo vidi
avanzare Cardarelli: aveva il cappello in testa, una sciarpa di lana
attorno al collo, un cappotto invernale pesantissimo, i guanti e
camminava come se si trovasse su lastre di ghiaccio. A quei tempi
anche i grossi automezzi potevano traversare il Corso, arrivò
infatti un camion che incontrò il poeta proprio in mezzo a piazza
del Popolo, l’autista del camion frenò di colpo e scese. Era in
mutande e chiaramente fuori di sé per la temperatura che doveva
sopportare dentro la cabina di guida. Alla vista di Cardarelli,
vestito in quel modo, prima diede in escandescenze, cadde in
ginocchio urlando e bestemmiando, poi si alzò di colpo e si avventò
sul poeta cominciando a spogliarlo. Con una manata gli fece volare
via il cappello e poi prese a sbottonargli il cappotto mentre
Cardarelli con voce acutissima invocava aiuto. Mi precipitai in suo
soccorso con altri passanti ma fu assai difficile liberare il poeta
dalla presa delle possenti braccia del camionista che ormai
manifestava intenzioni omicide.
Una
volta liberato non manifestò nessuna gratitudine, mi spinse da parte
con un braccio e se ne andò rivestendosi di tutto punto.
Pare,
ma non so se questa sia una leggenda metropolitana, che prima di
morire le ultime parole del poeta siano state:
«Sento
un gran caldo».
da Esercizi di memoria, Rizzoli, 2018
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