Ripropongo le due parti di un mio vecchio scritto per "micropolis", apparse rispettivamente nel numero di dicembre 2007 e di febbraio 2008. (S.L.L.)
Uno straccetto rosso come quello
arrotolato al collo dei partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi due gerani.
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, vv. 79-82
Parte prima
Diversamente rossi
1. Il canto, il
popolo, la storia
Nell’ampia introduzione
al Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, che
Pasolini pubblicò per Guanda alla fine del 1955 dopo tre anni di
ricerca, due dense paginette sono dedicate a Gramsci; è valorizzata
in particolare una “formidabile” riflessione dai Quaderni dal
carcere, per la quale ciò che identifica i canti popolari non è
l’essere composti “dal popolo” o “per il popolo”, ma
l’essere da esso “adottati”. Per Gramsci, in sostanza,
l’elemento distintivo del canto popolare, nel quadro di una nazione
e della sua cultura, non è rappresentato né dal fatto artistico né
dall’origine storica, ma dal “modo di concepire il mondo e la
vita, in contrasto con la società ufficiale”. Anche il popolo, del
resto - avverte il gran sardo - “non è una collettività omogenea
di cultura, ma presenta stratificazioni culturali numerose,
variamente combinate”.Pasolini, dal suo canto, lamenta che la
poesia popolare risulti quasi del tutto assente “dall’informazione,
pur così varia complessa e spregiudicata”, che sta alla base degli
appunti carcerari poi raccolti in Letteratura e vita nazionale,
la cui attenzione è piuttosto diretta a quella che nel secondo
dopoguerra si sarebbe definita “cultura di massa” (melodramma,
romanzo d’appendice, eroi popolari etc.); ma aggiunge, ragionando
per assurdo, che, se anche Gramsci avesse avuto conoscenza più ampia
della poesia popolare e dei problemi teorici e storici ad essa
connessi, non ne avrebbe tratto “motivi di reale e profondo
interesse, in funzione polemica rivoluzionaria”.
La ragione di questa
perentoria asserzione è condensata nella chiusa “politica”
dell’introduzione al Canzoniere: “Salve le aree depresse,
la tendenza al canto popolare nella nazione è a scomparire. Il
popolo moderno, cosciente di sé in quanto classe, e politicamente
organizzato verso la conquista del potere, tende ad abolire
l’irrazionale soggezione in cui per tanti secoli era vissuto: tende
ad essere autonomo, autosufficiente nell’ambito ideologico: a
dissimilarsi”. Di contro, però “le armi di diffusione
dell’ideologia della classe al potere sono immensamente potenziate:
e la loro influenza, nel popolo, è di condurlo a prendere l’abito
mentale e ideologico di quella classe: ad assimilarlo”. Pasolini
conclude: “Dissimilazione, dunque, e insieme assimilazione, tra le
due culture: con una frequenza intensissima, insieme di simpatia e di
lotta, del 'rapporto'. La poesia popolare, come istituzione
stilistica a sé, è in crisi. La storia in atto”.
In questo passaggio è
possibile intravedere la vena di “populismo” estetizzante che
percorre la produzione del poeta come del romanziere, del cineasta
come del saggista, in contraddizione (spesso feconda) con la
modernità del suo “fare” artistico e con il suo eterodosso
marxismo; ne sono impregnati, del resto, i testi poetici composti
negli stessi anni e raccolti ne Le ceneri di Gramsci, insieme
documento e manifesto della sua ideologia, uno dei quali non
casualmente si intitola Il canto popolare. A giudizio di Pasolini,
nell’“umile Italia” degli anni ’50 potevano rintracciarsi gli
scampoli di un popolo che per secoli era stato “pura presenza”,
ma ora tendeva a scomparire, vittima del capitalismo e, insieme, del
movimento operaio organizzato. I comunisti, che pure affidavano al
popolo le bandiere della "speranza", nello stesso momento
ne favorivano la mutazione antropologica. E da qui che deriva il
sostanziale disinteresse per la poesia popolare degli “intellettuali
organici” come dei “poeti di partito”: perfino per gli etnologi
specialisti l’ideologia marxista è arma inadeguata allo studio del
canto popolare, inadeguata perché troppo potente.
Tutt’al più può
funzionare, e solo in parte, un marxismo “privo di nitore, ma anche
di semplicismo” come quello che Pasolini attribuisce a Ernesto De
Martino che coltivava “interessi un poco spuri, di ascendenza
freudiana”.
Pasolini, attento e
onesto osservatore dell’universo comunista, nella sua introduzione,
pur senza entrare nel merito segnala anche l’eccezione: un saggio
di Emilio Sereni, Popolo e poesia di popolo in Italia intorno al
’48 nel quaderno di Rinascita dedicato al 1948.
2. Il grande racconto
In realtà, in parte per
una spinta autonoma e antica (la sua formazione di economista
agrario), in parte per la sollecitazione rappresentata dai quaderni
gramsciani, il dirigente comunista aveva per il canto popolare un
interesse non episodico e non superficiale, solo in parte documentato
da opere edite, ma evidentissimo da un esame dei suoi appunti di
lavoro e del suo epistolario.
Ne dà conto, Tullio
Seppilli, nella ricca e acuta introduzione alle Note sui canti
tradizionali del popolo umbro, uno scritto di Sereni già
pubblicato in due puntate su “Cronache umbre” nel 1959 e riedito
nel settembre scorso in occasione del centenario sereniano, come
primo dei quaderni della rivista “Umbria Contemporanea”, diretta
da Raffaele Rossi. In realtà nel ’59 nella rivista del Pci umbro
(di cui all’epoca lo stesso Rossi era condirettore) avrebbe dovuto
comparire la terza parte del saggio, ma essa non giunse mai a
stesura.
Insieme al saggio il
quaderno rende noti alcuni materiali di lavoro reperiti nel Fondo
Sereni degli Archivi dell’Istituto Gramsci, in primo luogo il
sommario di una storia del popolo italiano attraverso i suoi canti,
centrata sul nesso città-campagna e probabilmente risalente al
1947-49, in sostanza una lista sistematica dei testi ritenuti
emblematici di una precisa situazione storica. La probabile
destinazione era una grande opera progettata per Einaudi, che poi non
si fece soprattutto per i vincoli imposti dall’editore.
Seppilli vi ha poi
aggiunto una propria analisi delle schede di lavoro di Sereni
(redatte soprattutto nella primavera del ’47), con l’indicazione
dei testi da cui sono stati trascritti dei brani e delle fonti
bibliografiche comunque richiamate. È sostanzialmente lo stesso
materiale, di origine positivistica o idealistica, su cui poco tempo
dopo lavorò Pasolini. Ma anche i percorsi concettuali di Sereni
(come quelli di Pasolini) sono in realtà un dialogo con il “grande
racconto” della nazione italiana elaborato da Gramsci nelle carceri
del fascismo. Una delle schede autografe più interessanti, la cui
riproduzione anastatica funge da copertina del libro, Il canto e
la poesia popolare, così definisce il popolo: “quella parte di
società che, nella data situazione storica, non ha ancora elaborato
dal suo seno un ceto di intellettuali «organici»”, distinguendo
tra i canti che il popolo produce (raramente) o sceglie (più spesso)
quelli che ne sono espressione immediata (ad es.quelli di lavoro),
quelli dotti “degradati” e quelli popolareschi, composti cioè da
letterati alla maniera del popolo. In queste note private non manca
qualche presa di distanza da Gramsci, in particolare sul tema della
“coscienza nazionale”. Sereni condivide l'idea che, fino a tutto
il Settecento, essa sia soprattutto un fenomeno retorico, limitato ad
una piccola élite di letterati cortigiani in realtà cosmopoliti e
tuttavia questa rappresentazione che gli pare monca. A questa che
egli chiama “coscienza senza realtà” contrappone infatti una
sorta di “realtà senza coscienza”, quella del canto popolare,
che sebbene in forme differenziate (la lirica del centro sud e
l’epica del centro nord) e vernacolari, tende all’unificazione
dell’Italia.
3. L'umile terza
Italia
Nel saggio sui Canti
popolari umbri Emilio Sereni esplicita gli elementi di dissenso
da Gramsci.
Nella pratica dello
stalinismo i “testi sacri” del marxismo, in scritti pubblici,
potevano essere “interpretati”, non contraddetti e Sereni in
quello che Zdanov chiamava il “fronte ideologico” era stato in
prima linea, fino a schierarsi contro gli scienziati italiani di
sinistra e perfino contro il buonsenso a proposito dell’affare
Lysenko. Questa volta però fa una scelta di stile innovativa e
coraggiosa: dichiara che Gramsci si sbagliava. A suo dire c’è un
segno evidente di un processo unitario “dal basso” fin dal XII e
XIII secolo, nel costituirsi, prima ancora che Dante sottolineasse
l’esigenza del “volgare illustre”, di una cultura popolare
unitaria, evidente anche nell’evoluzione linguistica, alla quale
l’area dell’Italia Centrale dà un suo particolare contributo
elaborando un suo proprio genere letterario, la cosiddetta “orazione”
umbro-abruzzese, una forma, che pur correlandosi sia all’epica del
Nord sia alla lirica del Sud, ha una sua specificità.
Essa sarebbe
rappresentata non tanto dall’ispirazione religiosa, comune a tanta
produzione del Nord come del Sud della Penisola e della Sicilia, ma
dallo speciale approccio a questa tematica. A elaborarla e
diffonderla sarebbero alcune particolari figure di “nuovi
intellettuali”, chierici vaganti, giullari, fraticelli, che
rappresentano artisticamente ed ideologicamente la crisi profonda
dell’Umbria feudale. Sereni, ampiamente utilizzando e citando i
canti della tradizione popolare, nella prima parte del suo saggio si
sofferma su due momenti di crisi e di passaggio e perciò “genetici”:
il risveglio evangelico dopo il Mille e il diffondersi delle correnti
ereticali. Per Sereni i testi di poesia popolare umbra più
significativi sono la celebre e celebrata Passione, appunto
un’“orazione”, che racconta gli ultimi giorni del Cristo, e il
Contrasto tra il ricco e il povero, una “lauda” drammatica
(altra forma di origine umbra, che ebbe ampia diffusione nel Centro
Italia). La Passione aveva suscitato un grande interesse anche in
Pasolini, benché questi utilizzi, con qualche interpolazione, la
lezione ottocentesca del Mazzatinti (dai Canti popolari umbri
raccolti a Gubbio), mentre Sereni segue quella del Chini (i cui
Canti popolari umbri sono raccolti a Spoleto e nel contado nei
primi decenni del Novecento).
A leggere i due testi
l’impressione è che il dirigente comunista non abbia presente
(forse addirittura non conosca) l’analisi dell’inquieto scrittore
friulano, ma è singolare la coincidenza delle valutazioni. Né l’uno
né l’altro sono etnologi: l’uno si dichiara “letterato
sconfinante da un territorio limitrofo”, l’altro è dirigente
politico e intellettuale organico che cerca nella storia, studiata
attraverso la chiave del canto popolare, strumenti di comprensione e
trasformazione della realtà presente. L’uno e l’altro parlano
dell’ambivalenza tra misticismo e sensualità che si esprime in
quella che Pasolini chiama “rusticità fisicamente linguistica”.
4. Le ceneri di
Gramsci
La “questione della
lingua” è in effetti il terreno su cui l’approccio
estetico-letterario di Pasolini e quello storico-sociale di Sereni
più sembrano convergere. È il tema centrale della seconda parte del
saggio di “Cronache umbre” e la linea portante dell’introduzione
pasoliniana.
Emilio Sereni la
affronterà concentrando la sua attenzione sui Francescani e sul moto
dell’Alleluja. Neanche qui manca una scelta di stile coraggiosa.
Dalla Terza Internazionale in poi non era uso dei comunisti allineati
con Mosca citare con consenso i dirigenti caduti in disgrazia. Sereni
compie anche in questo caso un atto di coraggio: in piena
destalinizzazione si rifà esplicitamente al libretto di Stalin su Il
marxismo e la linguistica, per riprendere il concetto
(ultrascolastico) che la lingua, essendo universale mezzo di
comunicazione, non è sovrastruttura e perciò non muta con il mutare
della struttura economico-sociale. Sereni parte da questo assunto per
asserire che è altrettanto vero che sul terreno della lingua si
svolge una dialettica sociale che prevede, insieme a scambi, anche
contrasti assai forti. È un ragionare che trova più di un punto di
contatto con quello di Pasolini, che collocando anche lui la genesi
della poesia popolare tra Duecento e Trecento ne coglie la
peculiarità in quello che chiama “bilinguismo e bistilismo
sociologico”. Ma per entrare nel merito avremo anche noi bisogno di
una seconda, più breve puntata. Resta la curiosità per la
contiguità delle ricerche “anomale” di due “figure” del
Novecento che più diverse non potrebbero essere: il comunista tutto
d’un pezzo e il letterato scandaloso. La spiegazione sta a nostro
avviso nelle ceneri di Gramsci, nella capacità egemonica che i
Quaderni esprimono in un certo momento della nostra storia
politica e culturale.
Parte II
Dall'alto e dal basso
1. I bietoloni e le
rovine
Il Canzoniere italiano
di Pasolini non ebbe il successo che l’autore si aspettava.
Scontata la diffidenza degli ambienti accademici nei confronti
dell’“intruso”, l'autore invano attese l’attenzione
dell’intettualità impegnata. Fa eccezione Italo Calvino, che nel
marzo ’56 gli scrive entusiasta: l’antologia “non è soltanto
un importante libro sulla poesia popolare italiana, ma è un
importante libro sull’Italia e un importante libro sulla poesia”.
In quel torno di tempo Calvino sta lavorando alla raccolta einaudiana
delle fiabe italiane e in Pasolini gli pare di “ritrovare e
imparare” un procedimento che è anche suo.
Dell’introduzione
segnala la “ricchezza e intelligenza”, valorizzando i “ritrattini
delle varie regioni attraverso i loro canti”. Lamenta poi
l’accoglienza generalmente “desolante” e in particolare la
freddezza degli “intellettuali organici” del Pci: “Ma quei
bietoloni del ‘Contemporaneo’ cosa aspettano a dedicare un
paginone al libro?”.
In realtà i “bietoloni”
(i direttori della rivista, Carlo Salinari e Antonello Trombadori) un
paginone lo dedicarono, in giugno, ma tale da indurre Pasolini a
vedere in atto “una campagna di discredito” e da sollecitare
Calvino ad una dura protesta epistolare contro lo stile e i metodi
adoperati. Salinari del resto lo chiamavano Stalinari.
Il rapporto di Pasolini
con Franco Fortini fu molto intenso; ancora nel ’61 poteva
scrivergli: “Tu esisti in me; esisti tanto da essere l’ideale
destinatario di quasi tutto quello che scrivo”. Duro fu poi il
conflitto: nello stupendo Attraverso Pasolini, che ne
ricostruisce il tormentato percorso, a ragione Fortini parla di
“inconciliabilità”. Una delle rotture è segnata da un epigramma
fortiniano del ’63 pubblicato tre anni dopo ne L’ospite ingrato:
“Ormai se ti dico buongiorno ho paura dell’eco, / tu, disperato
teatro, sontuosa rovina”.
L’anno di più forte
vicinanza (non senza appassionati confronti) fu invece il terribile
’56. Il 2 gennaio FF, scrivendo a PPP, si offriva come testimone a
discarico nell’imminente processo per le “oscenità” di Ragazzi
di vita e ragionava del “monumentale” Canzoniere italiano,
giudicandone “validissima la trattazione teorica dall’inizio alla
fine”. La monumentalità era riferita alla mole della raccolta
pasoliniana, ma il termine conteneva un significato accessorio più
profondo. Era stato il Belli ad elaborare una “poetica del
monumento”: dichiarava di averne voluto erigere uno al popolo
romano, che viveva ai margini della storia, prima che questa lo
inglobasse e civilizzasse. Grosso modo anche Pasolini la pensava così
sul “suo” popolo a rischio di assimilazione e riteneva la poesia
popolare a rischio d’estinzione. Da questo punto di vista anche i
testi del suo Canzoniere possono considerarsi una “sontuosa
rovina”.
2.Monumento e documento
“Ogni documento è un
monumento”, recita un motto caro agli storici delle francesi
"Annales", polemico contro la pretesa positivistica che il
documento parli da sé. Avevano ragione: non c’è documento che non
sia “manifesto”, che non contenga, esplicitati o occultati che
siano, un messaggio, un’intenzione, un’ideologia.
Funziona anche l’inverso:
il “monumento”, adeguatamente interrogato, funge da documento,
suggerisce collegamenti e piste, contribuisce a “fare storia”. È
questa una chiave per individuare le differenti impostazioni
dell’opera di Pasolini rispetto alle Note sui canti popolari
umbri di Emilio Sereni . Nel primo caso da una parte c’è la
teoria generale, dall’altra i testi che sono essenzialmente
“monumenti”, da offrire alla interpretazione e contemplazione
estetica (è ancora Fortini a notare il limite della parte
interpretativa dell’introduzione al Canzoniere in un
approccio “gustativo- impressionistico”). Nel testo di Sereni,
benché si proponga nella forma non sistematica delle “note”, la
trattazione dei canti è corredata da una serie di scandagli
analitici, di connessioni fattuali e concettuali, che pone il testo
fuori dal campo specialistico degli studi demologici e da quello
della “letteratura”, collocandolo piuttosto a cavallo tra la
“storia sociale” e la “storia delle mentalità”, non lontano
dal tipo di studi che era caratteristico della scuola francese. Un
esempio. Pasolini, nel presentare la Passione, la più celebre
tra le “orazioni” umbre, la definisce un “pezzo superbo”. Il
suo fascino come la sua “rozzezza” gli appaiono originarsi dalla
sua “arcaicità, cioè la sua appartenenza a una classe sociale più
antica, e sopravvissuta in questo suo prodotto. Prodotto sacro, quasi
taumaturgico, e quindi meno esposto alle varianti al contrario dei
canti d’amore, di continuo e liberamente riadattati”. È così.
Se si leggono i “rispetti” e i “fioretti” umbri raccolti nel
Canzoniere, la maggiore modernità linguistica è evidente
anche all’inesperto.
Anche Sereni nelle sue
Note dà alla Passione un posto speciale, ma la sua
antichità è usata per ricostruire il contesto e perciò collegata
ad altri testi non solo di origine etnografica, ma letteraria (cioè
tramandata per iscritto) dalle “cronache” di Salimbene allo
Speculum perfectionis, tutti usati come documento.
3. Verticale e
orizzontale
Pasolini utilizza una
nozione che “nelle scienze linguistiche di questi ultimi anni, dopo
la formulazione e l’uso che ne hanno fatto i linguisti più alti,
come il Devoto e il Contini, si pone sempre più come centrale”,
quella di “bilinguismo”, che però usa in una accezione
particolare che chiama “bilinguismo sociologico” (cui accosta un
“bistilismo sociologico”), riferita com’è alle differenze
linguistiche che accompagnano le differenze tra la classe “borghese
dominante” e la classe “popolare dominata”. È qui evidente il
legame con Gramsci. La poesia popolare, prodotto del rapporto tra le
due classi, è per PPP un “prodotto originale: non è
contaminazione se non nei primi gradi della sua fase sia ascendente
che discendente”. Propriamente “popolare” è la poesia che
nasce dalla “iniziativa di un individuo o gruppo di individui della
classe inferiore”, frutto di un doppio movimento, verso l’alto e
verso il basso: l’acquisizione di dati stilistici e culturali della
classe dominante e il loro impianto nell’ambito di una cultura
“inferiore”.
Questa impostazione
teorica sembra confermata e rimpolpata dall’analisi storica di
Sereni, che, in linea con la metodologia gramsciana, come possibili
autori del canto popolare propone figure che dal “quadro poetico
organico” delle masse popolari vanno al “letterato” chierico o
laico, in qualche misura declassato: “Tra il fraticello analfabeta
o semianalfabeta e il dotto chierico, come tra l’anonimo giullare e
lo scaltrito trovatore […] tramiti di diffusione di cultura dopo il
Mille, v’è tutta una serie di figure intermedie, alle quali
l’organizzazione della Chiesa lascia ancora aperte le strade di
un’ascesa o una degradazione sociale”. Al movimento in verticale,
secondo Sereni, se ne aggiunge uno, altrettanto significativo, in
orizzontale: “Al riavvicinamento delle parlate volgari locali o,
almeno, alla loro mutua intelligibilità giullari, chierici vaganti e
monaci itineranti” contribuiscono in misura rilevante.
Nascerebbe così proprio
nel canto popolare una “lingua franca” evidente nella diffusione
dei testi da una regione all’altra, che precede di molto la
formazione del “volgare illustre”.
4. La questione della
lingua
Il segno prevalente di
questa prima ampia produzione di canti popolari appare ad Emilio
Sereni eversivo rispetto ai valori tradizionali delle classi: nel suo
viaggio attraverso orazioni, contrasti e laude dell'Umbria egli
scorge di volta in volta il compiacimento sensuale, la protesta
sociale fino ai temi caratteristici delle eresie pauperistiche
comunisteggianti.
Ma (è questo il tema
della seconda puntata della sua ricerca) la Chiesa ufficiale non sta
a guardare; ne andrebbe di mezzo la sua “egemonia”. Una prima
svolta sarebbe segnalata dalla cosiddetta “formula del Monastero di
S. Eutizio”, presso Norcia, un documento dell’XI secolo. È una
sorta di Confiteor, di “atto di dolore”, in volgare umbro:
“Confissu so a mesenior Dominideu et a la madonna Sancta Maria…”.
Non si tratta della trascrizione mimetica di testimonianze
villanesche tipica dei più antichi placiti cassinesi ("Sao ko
kelle terre…"), ma della scelta di adeguarsi a popolazioni che
non intendono più il latino e sono sempre meno incantate
dall’aspetto magico del rito religioso.
Il processo che Sereni
descrive, usando documenti di tipo letterario e solo eccezionalmente
testi desunti da moderne raccolte di canti popolari, è quello di un
rilancio della capacità di costruire consenso da parte della Chiesa
cattolica, utilizzando quadri di origine popolare, capaci di mutare
linguaggio e messaggio, e suscitando movimenti che tendono ad
unificare, anche linguisticamente, la penisola.
Sereni non manca di
evidenziare tensioni e conflitti, emblematici soprattutto nel
movimento francescano, il più importante e significativo nell’opera
di mediazione culturale e linguistica, ma vede esprimersi, nel
“Cantico di Frate Sole” e nelle laude delle varie compagnie
itineranti, la tendenza a una lingua comune, più o meno illustre,
mentre le eresie del Nord Italia si chiudono (o sono costrette a
chiudersi) in pratiche vernacolari.
Nessun commento:
Posta un commento