Tiziano - Il Polittico Averoldi |
Sarà
il polittico Averoldi, conservato nella collegiata dei santi Nazaro e
Celso, il perno della mostra che Brescia dedica a Tiziano e la
pittura del Cinquecento tra Venezia e Brescia. Non solo perché
l’opera commissionata dal vescovo Altobello Averoldi costituì uno
spartiacque nella storia dell’arte bresciana, ma anche perché
racconta in modo paradigmatico quali fossero i rapporti fra la
Serenissima e il suo dominio in terraferma.
La
vicenda è ricca di curiosità. Dunque il vescovo, rampollo di una
delle illustri casate di Brescia, nel 1517 era stato nominato da
Leone X nunzio apostolico a Venezia dove Tiziano, nel maggio 1518,
diventava una star collocando la pala dell’Assunta nella chiesa dei
Frari. Le ordinazioni fioccavano e il pittore prometteva quadri a
tutti perché era un accentratore ambizioso, ma per sua disgrazia era
anche molto lento. Successe così che Alfonso d’Este, in attesa di
una consegna da ormai un paio d’anni, venuto a sapere che il
pittore stava lavorando per l’Averoldi, inviò da Ferrara una
lettera furibonda in cui ordinava al suo ambasciatore Jacopo Tebaldi
di manifestare a Tiziano tutto il suo sdegno perché, minacciava, se
non compirà il lavoro promesso «penseremo noi a farglielo portare a
termine».
È a
questo punto che l’ambasciatore, non sapendo come barcamenarsi,
propone al duca di Ferrara una truffa, come la definì lo stesso
Tiziano che si mostrò comunque disponibile ad attuarla. In visita
nello studio del pittore, Tebaldi aveva ammirato il san Sebastiano
che sarebbe stato collocato nella parte bassa del polittico, lodato
da tutti i presenti. Aveva aspettato l’uscita della folla e, preso
in disparte il pittore, gli aveva sussurrato «ch’el era gettato
via questa pictura, a darla a prete, et ch’el la porti a Brixia» e
gli aveva proposto di consegnarla invece al duca di Ferrara. Uomo di
mondo, conoscitore delle debolezze umane, Tebaldi aveva solleticato
la sconfinata ambizione del giovane Tiziano spiegandogli quanto fosse
un peccato che quel gran lavoro finisse in una chiesa di Brescia,
cioè in provincia, e non nella casa di un principe. Il pittore
tentennò ma alla fine, assicurava l’ambasciatore al suo signore,
si dichiarò «paratissimo per far ogni cosa».
La
tavola col San Sebastiano andava accomodata, ma si poteva fare.
L’Averoldi, infatti, aveva chiesto un polittico diviso in cinque
scomparti, come ormai non si usava più, con il proprio ritratto
inginocchiato accanto ai santi Nazaro e Celso, la resurrezione di
Cristo, San Sebastiano e già che c’era anche l’Annunciazione.
Una richiesta del genere, fatta proprio all’autore dell’Assunta,
la pala più moderna che si potesse allora vedere in Italia, era come
chiedere a Mary Quant, la creatrice della minigonna, di cucire un
modello a crinolina. Ma Tiziano si mise al lavoro e fece di testa
sua. Accentuò la narrazione per frammenti scompaginando i vincoli
logici del racconto così che anche l’angelo e Maria rimangono due
mezze figure separate dal gran volo del Cristo risorto. Fece piazza
pulita delle precedenti iconografie con il sepolcro vuoto e le
guardie addormentate e riequilibrò la trionfante levità del Risorto
con il peso dolente del San Sebastiano, un nudo così possente da
uscire dallo stretto spazio della tavola. Ma con un’aggiunta di
qualche centimetro, assicurò Tiziano al Tebaldi, avrebbe dipinto la
mano mancante. Alla fine, però, fu Alfonso d’Este a tirarsi
indietro perché l’Averoldi era pur sempre il legato del papa e
Ferrara era feudo papale.
Tiziano, Ritratto di Ludovico Ariosto |
Quanto
a Tiziano, non perse mai la sua supponenza verso Brescia. Un aneddoto
narra che quando i governatori veneziani assegnati a Bergamo andarono
a chiedergli il ritratto, li consigliò di rivolgersi al Moroni, che
i ritratti li sapeva fare «naturali», volendo così dire
somiglianti. Assegnati agli uffici della provincia, quei governatori
non disponevano certo della ricchezza e del prestigio necessari per
posare davanti al pittore dell’imperatore Carlo V e del papa. Ma
nelle parole di Tiziano era contenuta anche un’altra insinuazione.
Dicendo che Moroni dipingeva al «naturale», affermava che il
collega bergamasco si limitava a riprodurre la realtà mentre l’arte,
secondo l’ideale estetico rinascimentale, perfecit naturam. E però
sarà proprio partendo da questa parlata lombarda «al naturale»
che, settant’anni più tardi, Caravaggio darà inizio alla sua
rivoluzione.
Corriere
della Sera, 21 marzo 2018
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