6.6.19

L’astuzia di Tiziano (Francesca Bonazzoli)

Tiziano - Il Polittico Averoldi

Sarà il polittico Averoldi, conservato nella collegiata dei santi Nazaro e Celso, il perno della mostra che Brescia dedica a Tiziano e la pittura del Cinquecento tra Venezia e Brescia. Non solo perché l’opera commissionata dal vescovo Altobello Averoldi costituì uno spartiacque nella storia dell’arte bresciana, ma anche perché racconta in modo paradigmatico quali fossero i rapporti fra la Serenissima e il suo dominio in terraferma.
La vicenda è ricca di curiosità. Dunque il vescovo, rampollo di una delle illustri casate di Brescia, nel 1517 era stato nominato da Leone X nunzio apostolico a Venezia dove Tiziano, nel maggio 1518, diventava una star collocando la pala dell’Assunta nella chiesa dei Frari. Le ordinazioni fioccavano e il pittore prometteva quadri a tutti perché era un accentratore ambizioso, ma per sua disgrazia era anche molto lento. Successe così che Alfonso d’Este, in attesa di una consegna da ormai un paio d’anni, venuto a sapere che il pittore stava lavorando per l’Averoldi, inviò da Ferrara una lettera furibonda in cui ordinava al suo ambasciatore Jacopo Tebaldi di manifestare a Tiziano tutto il suo sdegno perché, minacciava, se non compirà il lavoro promesso «penseremo noi a farglielo portare a termine».
È a questo punto che l’ambasciatore, non sapendo come barcamenarsi, propone al duca di Ferrara una truffa, come la definì lo stesso Tiziano che si mostrò comunque disponibile ad attuarla. In visita nello studio del pittore, Tebaldi aveva ammirato il san Sebastiano che sarebbe stato collocato nella parte bassa del polittico, lodato da tutti i presenti. Aveva aspettato l’uscita della folla e, preso in disparte il pittore, gli aveva sussurrato «ch’el era gettato via questa pictura, a darla a prete, et ch’el la porti a Brixia» e gli aveva proposto di consegnarla invece al duca di Ferrara. Uomo di mondo, conoscitore delle debolezze umane, Tebaldi aveva solleticato la sconfinata ambizione del giovane Tiziano spiegandogli quanto fosse un peccato che quel gran lavoro finisse in una chiesa di Brescia, cioè in provincia, e non nella casa di un principe. Il pittore tentennò ma alla fine, assicurava l’ambasciatore al suo signore, si dichiarò «paratissimo per far ogni cosa».
La tavola col San Sebastiano andava accomodata, ma si poteva fare. L’Averoldi, infatti, aveva chiesto un polittico diviso in cinque scomparti, come ormai non si usava più, con il proprio ritratto inginocchiato accanto ai santi Nazaro e Celso, la resurrezione di Cristo, San Sebastiano e già che c’era anche l’Annunciazione. Una richiesta del genere, fatta proprio all’autore dell’Assunta, la pala più moderna che si potesse allora vedere in Italia, era come chiedere a Mary Quant, la creatrice della minigonna, di cucire un modello a crinolina. Ma Tiziano si mise al lavoro e fece di testa sua. Accentuò la narrazione per frammenti scompaginando i vincoli logici del racconto così che anche l’angelo e Maria rimangono due mezze figure separate dal gran volo del Cristo risorto. Fece piazza pulita delle precedenti iconografie con il sepolcro vuoto e le guardie addormentate e riequilibrò la trionfante levità del Risorto con il peso dolente del San Sebastiano, un nudo così possente da uscire dallo stretto spazio della tavola. Ma con un’aggiunta di qualche centimetro, assicurò Tiziano al Tebaldi, avrebbe dipinto la mano mancante. Alla fine, però, fu Alfonso d’Este a tirarsi indietro perché l’Averoldi era pur sempre il legato del papa e Ferrara era feudo papale.
Tiziano, Ritratto di Ludovico Ariosto
Quanto a Tiziano, non perse mai la sua supponenza verso Brescia. Un aneddoto narra che quando i governatori veneziani assegnati a Bergamo andarono a chiedergli il ritratto, li consigliò di rivolgersi al Moroni, che i ritratti li sapeva fare «naturali», volendo così dire somiglianti. Assegnati agli uffici della provincia, quei governatori non disponevano certo della ricchezza e del prestigio necessari per posare davanti al pittore dell’imperatore Carlo V e del papa. Ma nelle parole di Tiziano era contenuta anche un’altra insinuazione. Dicendo che Moroni dipingeva al «naturale», affermava che il collega bergamasco si limitava a riprodurre la realtà mentre l’arte, secondo l’ideale estetico rinascimentale, perfecit naturam. E però sarà proprio partendo da questa parlata lombarda «al naturale» che, settant’anni più tardi, Caravaggio darà inizio alla sua rivoluzione.

Corriere della Sera, 21 marzo 2018

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