Articolo-recensione di tre anni fa, ma tuttora utilissimo a comprendere le origini e gli sviluppi di un degrado sempre più evidente, (S.L.L.)
Università di Pisa. La Camera delle Meraviglie nel Museo di Storia Naturale |
Perché un luogo di
trasmissione della conoscenza è diventato uno straordinario
concentrato di stupidità in cui l'automazione frenetica delle
pratiche svuota il significato delle azioni quotidiane?” Muovendo
da questo interrogativo, attraverso un racconto che spazia dal diario
alla satira al pamphlet, il filologo e storico della letteratura
Federico Bertoni delinea un quadro chiaro e convincente del vicolo
cieco in cui decenni di riforme hanno cacciato l'università italiana
(Universitaly. La cultura in scatola, Laterza, Roma-Bari
2016). Di più: la presunta separatezza del mondo dell'accademia
appare a ben vedere una specie di illusione ottica: invece che una
torre eburnea l'università si rivela di più come uno specchio che
riflette dinamiche generali, a cominciare dalla sanzione delle
diseguaglianze come qualcosa di inevitabile e naturale.
Il discorso prende il via
dal racconto della giornata tipo del professore universitario, che
conferma l'ossessiva presenza dell'amministrazione nella vita
dell'individuo moderno: nello specifico si tratta di richieste di
validazioni, partecipazione a peer review (revisioni tra
pari), produzione di abstract in inglese dei propri “prodotti
scientifici”. Caratteristica comune del sistema di valutazione di
impronta anglosassone, adottato dall'università italiana, è il
tentativo di formalizzare e quantificare il complesso lavoro di
ricerca e didattica che - nonostante tutto - nelle università si
continua a fare. Alla crisi dei paradigmi epistemologici, i sistemi
scolastici e universitari reagiscono con una farsesca pretesa di
oggettività. Non è in gioco solo lo spaesamento del docente che non
ritrova in questi metodi di valutazione la sostanza del suo effettivo
lavoro quotidiano, né si tratta di un semplice errore di approccio
scientifico: il sistema di valutazione formalizzato, sorta di
neopositivismo volgare dominante, ha il potere di “colonizzare
l'organizzazione e gestione della ricerca”, orientando la gerarchia
dei finanziamenti alle diverse università e facoltà, legittimando
tagli e aumenti di tasse, guidando, in una parola, la mutazione
genetica in atto nel sistema accademico italiano.
Il meccanismo è tanto
potente da autoriprodursi come “microfisica del potere”: molti
docenti diventano esecutori di una massa pulviscolare di funzioni
amministrative, moltiplicando così la logica di autoriproduzione e
indifferenza ai fini propria di ogni struttura burocratica.
Bertoni, che sottolinea
la propria estraneità (anagrafica e politica) all'università del
passato, rinviene il punto di partenza della trasformazione nella
riforma Berlinguer del 1999, alla base della quale vi era la
condivisibile volontà di affrontare problemi storici del sistema
accademico italiano: il basso numero di laureati e quello troppo alto
di fuori corso, la vetusta disposizione dei curricoli. Ma la nuova
organizzazione (il 3+2, i crediti, la classificazione delle
discipline tra “base”, “caratterizzanti”, “affini e
integrative”) è stata mal disegnata e soprattutto pessimamente
applicata, producendo un'irrazionale proliferazione di sedi e corsi
che giustificherà i successivi tagli indiscriminati. All'interno
delle facoltà si evidenzia una lotta al coltello per il
riconoscimento di più crediti o l'accesso alle discipline
“caratterizzanti”; un meccanismo che non intacca, anzi rafforza
le tradizionali cordate di potere, mentre svalorizza tanto la ricerca
quanto la didattica.
La logica che presiede al
3+2 ha due errori di base: uno teorico, consistente nella malintesa
idea di professionalità, per cui occorre liberare l'università da
una base teorica, vissuta come una zavorra; l'altro “psicologico”,
per cui la maggior parte dei docenti usano la nuova organizzazione
come strumento di separazione tra una base larga da trattare come
“mandria” e un'élite da cui ricavare il meglio. In questo modo
l'università torna ad essere un meccanismo che conferma e allarga
privilegi e diseguaglianze. È una logica che si diffonde come “senso
comune”, alimentando la frenetica corsa a “riformare la riforma”.
Caratteristica comune, indipendente dagli orientamenti politici dei
governi, delle leggi successive è l'applicazione “senza nuovi
oneri”: così la politica dei tagli viene sistematizzata,
aumentando ancor di più la distanza tra atenei, e tra indirizzi di
studio.
Più in generale, e fatte
salve le contraddizioni e le resistenze, l'università italiana si
sta incamminando verso il modello già sperimentato negli Usa, e
descritto da Bill Readings nel 1996. Il modello classico humboldtiano
di istruzione superiore, che coniugava ricerca e didattica, è
sostituito da una consumer oriented corporation, con gli
studenti ridotti a clienti e i docenti a burocrati, mentre il potere
si concentra nelle mani di rettori-tecnocrati. Alla centralità (e
complessità) della crescita culturale si sostituisce l'idea senza
contenuto dell'“eccellenza”, del tutto conforme ai canoni del
capitalismo neoliberista. Nel caso italiano, dietro il mito della
“internazionalizzazione” e del confronto con le università di
tutto il mondo, lo scenario che si prepara prevede pochi atenei “di
eccellenza” concentrati al nord, circondati da una massa di
“liceoni” dequalificati, privi di risorse né prospettive.
Se questa abdicazione al
ruolo costituzionale democratico dell'istruzione universitaria è la
posta in gioco della trasformazione, c'è da chiedersi come mai il
processo incontri una resistenza tutto sommato blanda, sia dal punto
di vista sociale, sia da parte di chi nell'università vive e opera.
Per rispondere a questa domanda Bertoni usa gli strumenti della
critica letteraria e dell'analisi linguistica, risalendo al
meccanismo che - analogamente a quanto avviene per i sistemi
economici - costruisce un paradigma interpretativo semplificato, una
“narrazione che formatta la realtà” adeguandola all'ideologia
dominante. Nel caso specifico l'esempio è il trattamento mediatico
della riforma Gelmini (2010): all'immagine della volontà
modernizzatrice della ministra si contrapponeva una massa di baroni
che difendevano i loro atavici privilegi. Gli oppositori venivano
inchiodati a questa immagine, anche quando indicavano dati precisi,
come la realtà dell'Italia che diminuiva le spese per l'istruzione,
pur essendo l'ultimo paese Ocse da questo punto di vista.
Nella realtà, lungi
dall'aver “tagliato le unghie” ai baroni, la riforma ne ha
rafforzato il potere, affidando le commissioni di concorso ai soli
ordinari e all'Anvur, organismo di diretta nomina politica, l'intera
valutazione, da cui dipendono le selte di finanziamento dei diversi
atenei.
Più in generale il
meccanismo di mistificazione ideologica attraverso la “narrazione”
si costruisce attorno a tre parole chiave: il merito, l'eccellenza e
la valutazione.
Dietro la retorica del
merito, ribadita senza differenze da Berlusconi a Renzi, si nasconde
l'accettazione delle differenze sociali e culturali di partenza,
ovvero una pesante restaurazione antiegualitaria. Anche l'eccellenza,
che già come termine richiama l'ancièn régime, rimanda ad
una trasformazione di finalità di un'istituzione chiusa in se stessa
che risponde solo a stakeholders e finanziatori. Chiude il cerchio la
“mistica” della valutazione, che assolve ad un duplice compito:
ridurre la complessa attività di giudizio ad una classificazione
quantitativa, facendone poi la base presunta “oggettiva” per
distribuire le (declinanti) risorse agli atenei.
“micropolis” luglio
2016
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