Una provocazione a tema
che usa come propria giustificazione la recensione di alcuni libri.
Il finale mi pare, per usare una parola cara al Gigliucci, un po'
stronzo, e anche di più. Ma dentro l'articolo trovo più di una
notazione condivisibile (S.L.L.)
Uno dei caratteri del
melanconico è anche quello di denigrare il proprio paese. Lo ha
fatto rigogliosamente e sfrenatamente Thomas Bernhard nei confronti
della sua Austria, e forse non aveva tutti i torti, se si va poi a
guardare un film come Il nastro bianco del grande Haneke o si
leggono i romanzi della Nobel Jelinek. “L’elemento
cattolico-nazionalsocialista, i metodi educativi
cattolico-nazionalsocialisti sono però normali in Austria, consueti,
i più largamente diffusi e dunque producono dappertutto, senza
ostacoli, effetti devastanti e crudeli su un intero popolo in
definitiva nazionalsocialista e cattolico”, come si trova scritto
in Estinzione di Bernhard, edizione italiana (traduzione dal
tedesco di Andreina Lavagetto) di Auslöschung del 1986.
Insomma, noi italiani siamo in ottima compagnia.
Parlare male degli
italiani è un diritto solo degli italiani, peraltro, i quali si
alterano se sono i forestieri a parlar male di loro. Solo noi
dobbiamo denigrarci, perché in realtà ci riteniamo il popolo
migliore del mondo. E in realtà non siamo né strame né gemme,
siamo come tutti, magari senza averne precisa consapevolezza. E
dunque il problema dell’identità. Premesso che l’identità è
una costruzione, e che quindi l’identità nazionale è una
super-costruzione, potremmo anche dire volgarmente che l’identità
nazionale è una super-cazzata. E soprattutto che ogni identità è
un danno.
Roberto Gigliucci |
Noi siamo attraversati.
L’io non esiste scientificamente, oggettivamente, è un Münchausen
che si tira su per i capelli da solo, come le neuroscienze spiegano
(assai meglio di me!). Noi siamo una camera aerata, attraversata da
venti continui, impetuosi o dolci. Non c’è identità se non come
forma di difesa da questi attraversamenti; quindi ogni identità è
falsa. Sono stanco di essere attraversato da entità straniere
(rumeni, albanesi), quindi chiudo una persiana (credo di chiuderla) e
mi costruisco un pezzo di identità contro le entità straniere che
mi attraversano (rumeni, albanesi).
Insomma, l’Italia può
anche andarsene a casa del diavolo, non dobbiamo piangere una lacrima
per questo. E così la Francia, la Germania ecc. Se mai, teniamo
insieme l’Europa, ma solo per poter dialogare con il mondo,
sperando in un futuro mondo unito. Dante aveva ragione: se i senesi
sono fatui e sciocchi, i pisani meritano di affogare in Arno, i
fiorentini meglio nemmeno parlarne, allora l’Italia, che per Dante
esisteva, starà meglio governata da un imperatore sovranazionale che
possiede tutto e non ruba nulla, perché ha già tutto. Un’utopia,
ma la potremmo rimodulare meglio per noi oggi.
Belle parole, e
vere.
Il centocinquantenario
dell’unità italiana ha dato la stura a innumerevoli pubblicazioni
sull’Italia e la sua identità, e fin qui tutto va bene, purché le
sciocchezze in diffusione siano limitate, ovviamente. Ottimi studiosi
ci hanno offerto succosi volumi: Marino Biondi, Alberto Banti e
altri. Ora siamo chiamati a discutere partendo da tre libri. Il primo
(Giulio Bollati, L’invenzione
dell’Italia moderna. Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima
dell’Unità, pp. 195, € 22, Bollati Boringhieri,
Torino 2014) è una raccolta di quelli che chiameremmo sine
iniuria fegatelli critici del compianto Bollati, includenti la
prefazione alla mitica edizione “NUE” della Crestomazia italiana:
la prosa di Leopardi, il corposo contributo al Manuale di
letteratura italiana di Brioschi-Di Girolamo su La prosa
morale e civile e altri saggetti sparsi. Il discorso sull’Italia
Bollati l’aveva scritto nel suo celebre libro einaudiano del 1983,
L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come
invenzione. Alfonso Berardinelli, nella limpida introduzione al
volume che ora recensiamo, ricorda il nucleo del pensiero storico di
Bollati: l’Italia perse l’appuntamento con la modernità
scientifico-politica, subì la sconfitta dell’illuminismo, insomma
non diventò come l’Inghilterra o la Francia. È vero, come è in
parte vera la classica querimonia della mancanza di una riforma
protestante in Italia: estremismi ermeneutici, ma pregni di un senso
su cui discutere. Non è un caso che certo protofascismo “colto”
alla Malaparte facesse l’apologia della Controriforma. Roba da
vomitare, come sappiamo. Alla severità lucida di Bollati (scomparso
nel 1996) affianchiamo due volumi di “giovani” intellettuali
contemporanei; Matteo di Gesù (Una nazione di carta. Tradizione
letteraria e identità italiana, pp. 191, € 19, Carocci, Roma
2013) e Stefano Jossa (Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo
Ortis a Montalbano, pp. 283, € 22, Laterza, Roma-Bari 2013). Il
primo compie un’operazione in bilico fra il saggio militante e il
volumetto adottabile per moduli universitari: una inevitabile
“carocciata” (con tutto il rispetto per l’editoria accademica),
che però riesce a salvare bene capra e cavoli. Da Dante a oggi Di
Gesù ci guida per le strade della letterarietà identitaria italiana
con la volontà di sfuggire alle ingessature istituzionali
disciplinari, per promuovere un’idea di humanities ben più
sovranazionale e pluridisciplinare. E in questo ha ragione da
vendere, tanta ragione che merita una citazione un po’ estesa:
“Intestare un mandato resistenziale alla letteratura – a chi la
apprende come a chi la insegna – rispetto ai processi di
indebolimento della nazione italiana, trincerarsi dietro le cattedre
di italianistica per fronteggiare l’assalto all’integrità della
patria, quand’anche si voglia ingaggiare questa lotta per difendere
la nazione (...), rischia di essere una disperata strategia di
retroguardia, dall’esito davvero incerto non tanto per la
conservazione della nazione, quanto per la salvaguardia di un’idea
di letteratura, rinnovata nei suoi statuti e nelle sue pratiche,
capace ancora di quella fondamentale funzione civile che certamente
le si deve attribuire”. La letteratura, proviamo ad aggiungere, è
qualcosa che non è letteratura italiana, tedesca, portoghese o
cubana: è letteratura, letta ovunque in quella sorta di esperanto
che è la traduzione, diffusa, inoculata, messa in crisi, esaltata,
lustrinata in tv o faticosamente promossa nelle terze pagine o infine
liberata in rete, la grande democrazia a 5 stelle. Quindi le
letterature nazionali, in quanto scritte in lingue nazionali, saranno
preservate dalle competenze linguistico-filologiche degli esperti
accademici, e questo non può tramontare, ma nessuno si scandalizzi
se Dante sconvolge studenti americani tradotto da Singleton o
francesi tradotto da Risset, o se i nostri studenti si emozionano
ancora da matti a leggere in italiano L’idiota o Il
castello. Ne consegue che l’identità letteraria nazionale,
italiana ad esempio, può essere un oggetto di studio storico, ma non
è certo un assoluto, dato che l’identità stessa non esiste se non
come relativissima maligna costruzione umana.
Jossa scrive da parte sua
un saggio a tesi: l’Italia non ha prodotto alcun eroe nazionale, né
puramente letterario né storico-leggendario-letterario come Robin
Hood, D’Artagnan o Guglielmo Tell. E questo è un bene, argomenta
Jossa, perché l’eroe raggruma in sé irrazionalismo,
indistinzione, estetismo politico, reazione, soteriologia e assenza
di partecipazione collettiva, mentre l’anti-eroe o il semplice
“personaggio” permette il confronto, la responsabilità, la
comprensione, la consapevolezza sociale. Anche qui un viaggio
storico, affascinante, da Foscolo a Nievo, da Pirandello a Camilleri.
Certo, “resta tuttavia aperto il problema del rapporto tra autore
ed eroe”: basti pensare a D’Annunzio, la cui icona sarebbe giunto
il momento di ri-eradere e damnare una volta per sempre, o a Saviano,
che Jossa non ama (ma qui c’è un po’ di snobberia da napoletano
radical di classe alta, non me ne voglia l’amico). Quello che
invece è tremendamente doloroso per chi è italiano è il fatto che
gli eroi nella forma degli “uomini forti” sono stati ricorrenti
nel nostro paese: da Napoleone a Garibaldi, da Mussolini a
Berlusconi. E questo rende l’Italia storicamente la genitrice di
molti mali, fra cui massime il fascismo, quindi indirettamente il
nazionalsocialismo e quindi ancora la corresponsabilità con lo
sterminio. Per non parlare dell’immoralismo iperbolico come
normalità della politica.
Insomma, niente eroi ma
un bel po’ di stronzi, ci sia concesso usare questa paroletta. In
conclusione si potrebbe provare a fare un po’ d’ordine (anche se
chi scrive è tutto meno che un uomo d’ordine): la letteratura è
una cosa, ha un legame forte con la creazione di mitografie e
identità nazionali ma è comunque letteratura, e come tale andrà
valutata nell’ambito della funzione dell’estetica nel consorzio
dell’homo sapiens. Poi: l’identità non esiste, è sempre falsa
ed è sempre un male; trascendere le identità, frantumarle e
costruire solidarietà globali è l’unico compito della politica
attuale. Infine: Babele è una condanna, non una gioia, per cui un
futuro di lingua unica universale (un inglese globish,
verosimilmente) va auspicato; le lingue nazionali resteranno come dei
macro-dialetti importanti e le competenze linguistiche specifiche
saranno sempre attivate nei luoghi di ricerca scientifica. Così non
mancherà mai una nuova edizione critica (identitaria? ah ah ah!) del
Macbeth o della Divina Commedia, ma tutti nel mondo
leggeranno Dante e Shakespeare facendosene attraversare pur essendo
nati in Corea del sud o in Bolivia.
L'Indice dei libri del
mese, giugno 2014
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