«Oggi Consiglio dei
ministri per elaborare il testo dell'amnistia», annotava Pietro
Nenni nel suo diario il 19 giugno 1946. E continuava: «Tendenza di
De Gasperi: "mettere fuori tutti i fascisti"; tendenza di
Togliatti:"mollarne il meno possibile". Due modi di
intendere la Repubblica». Il dibattito centrato intorno a questo
dilemma ideale non andò per le lunghe se, appena tre giorni più
tardi, il 22 giugno - sessant' anni fa, esatti - il decreto
presidenziale venne ufficialmente emanato. Quel testo fu subito
definito «l' amnistia Togliatti», dal cognome del segretario del
Pci che nel primo governo De Gasperi rivestiva la carica di
Guardasigilli. Lo stesso titolo porta il volume che alla vicenda ha
dedicato lo storico Mimmo Franzinelli (Mondadori), corredandolo di un
sottotitolo esplicitamente polemico: "22 giugno 1946, colpo di
spugna sui crimini fascisti".
Nel segno della fretta si
svolsero, di fatto, i primi atti della magistratura chiamata ad
attuare il decreto. In appena quattro giorni, la Corte d'Assise di
Roma scarcerò ottantanove fascisti accusati di «collaborazionismo o
di atti rilevanti». Fra gli umori, che Nenni immaginava
contrastanti, del leader democristiano e del capo comunista, furono i
primi a prevalere. Nel giro d'un paio di anni, sarebbero tornati in
circolazione molti personaggi che all' indomani della caduta del
fascismo erano stati condannati, a volte perfino con troppo spirito
punitivo.
«Condanne eccessive»,
annota Franzinelli, vennero trasformate in «strabilianti
proscioglimenti». Se si dovesse assegnare a quell'amnistia un valore
di simbolo, non ci sarebbe da trarne motivi di esultanza per il
«nuovo corso». Essa valse a confermare lo scetticismo che, fin
dagli albori dell'epurazione, aveva pervaso le personalità
antifasciste che venivano chiamate a gestirla. L'ipotesi che
l'epurazione stessa fosse nata un po' deforme - è qui il caso di
ricordarlo - aveva trovato alimento nel fatto che il primo suo
fautore, Pietro Badoglio, mancava di ogni requisito per ergersi a
moralista. Fin da allora, 1944, venne contraddetto, nei fatti, il
proposito di punire i responsabili di vertice, evitando di
prendersela con certi «poveri diavoli di gerarchetti», cioè con «i
nostri fratelli sciocchi» (così li chiamava Carlo Sforza, primo
Alto Commissario all' Epurazione). Lo stesso Nenni, insignito a sua
volta della carica dopo la nascita del governo Parri, trovò
difficile attuare la direttiva di «colpire in alto e indulgere in
basso». E concluse che «nel campo dell' epurazione» si era
«raggiunto il risultato di scontentare tutti».
Gli scontenti
dell'amnistia si contavano ora in gran numero fra gli antifascisti e
gli uomini della Resistenza, cioè in un ambiente che comprendeva i
militanti del partito di cui proprio Togliatti era a capo. A mano a
mano che la Cassazione tornava, con intenti assolutori, sulle
sentenze che erano state emesse dalle Corti d' Assise Straordinarie
nell'immediato dopoguerra, specie nell'Italia del nord, la protesta
saliva di livello. Falliva così l'intenzione di procedere a una
pacificazione nazionale. «L' associazionismo partigiano», scrive
Franzinelli, «considerò l' amnistia come uno schiaffo». Tornavano
alla vita civile collaborazionisti e delatori, complici dei nazisti e
confidenti dell' Ovra, gerarchi che si erano distinti nelle diverse
reincarnazioni del regime littorio, bastonatori, aguzzini,
fucilatori, teorici ed esecutori della «soluzione finale»,
componenti degli organi di giustizia della Repubblica sociale,
giornalisti dediti all' apologia del regime. Nei territori da loro
amministrati, i prefetti registravano quelle reazioni esacerbate. Le
associazioni delle vittime del fascismo indirizzavano ai governanti
documenti sdegnati, nei quali campeggiavano slogan del tipo: «Evviva
la Repubblica! Abbasso l' amnistia!». Nei volantini spiccava la
minaccia di «riprendere le armi per la seconda lotta di
liberazione». Nei diari dei capi progressisti (ancora una volta in
quello di Nenni, giornalista ancor prima che leader politico)
dominano le annotazioni riguardanti «la macchia d' olio
dell'agitazione» e si citano focolai di rivolta estesi dal Piemonte
in tutto il nord. «A Milano», registra il capo socialista, «sono
comparsi camion di partigiani in armi». Nelle aule di giustizia,
imputati fascisti in procinto di venir perdonati vengono sottratti
con fatica al furore del pubblico. A Casale, settembre 47, durante il
processo contro gli autori dell' assassinio di alcuni partigiani fu
necessaria la mediazione del segretario della Cgil Giuseppe Di
Vittorio - con la garanzia che il presidente della Repubblica non
avrebbe firmato le istanze di grazia - perché tornasse fra gli
astanti un minimo di ordine, dopo che una dozzina di carri armati
erano entrati a presidiare la città. Nell'occasione il questore di
Torino, l'azionista Giorgio Agosti, interpretò, in un colloquio con
il ministro dell'Interno Mario Scelba, il sarcasmo d' un pubblico
indignato di fronte al perdonismo «strisciante»: «Se si vogliono
accordare le grazie», osservò, «si abbia il coraggio di dirlo
chiaro, così che tutto il Paese sappia che i seviziatori e i
massacratori neri hanno salvato la vita grazie al tenero cuoricino di
De Nicola».
Fra le carte della
«scrivania di Togliatti», custodite nell'archivio romano della
Fondazione Gramsci, i fascicoli relativi al 46 rigurgitano di
appelli, petizioni, lettere, telegrammi di protesta. Nella missiva
d'un gruppo di parenti di fucilati per mano fascista emerge la
minaccia di ritorsioni elettorali. «Continuando detto stato di
cose», vi si legge, «faremo attiva propaganda contro il comunismo».
È forse esagerato presumere che, proprio a causa di queste
difficoltà, dopo la caduta del primo governo De Gasperi (13 luglio '
46), Togliatti non accettò l'incarico di Guardasigilli nel secondo.
Doveva comunque averlo infastidito nel profondo quella contingenza
che - così si esprime Franzinelli - aveva trasformato «il capo
rivoluzionario in un ministro borghese». Egli peraltro negò che
l'amnistia fosse stata «una cosa disastrosa», sostenendone la
necessità: «Dovevamo farla e l'abbiamo fatta». Deplorò, nella
«base», «manifestazioni scomposte», dovute ad «eccesso di
nervosismo», e fece risalire gli «sbandamenti» verificatisi nel
partito a «mancanza di fermezza politica». In termini politici
generali Togliatti attribuì la colpa di certe incongruenze
«perdoniste» agli alleati di governo e sottolineò la
responsabilità dei magistrati filofascisti - perché tali erano
rimasti - desiderosi di mettere in difficoltà le sinistre.
Non sfuggiva tuttavia,
anche in ambito comunista, il fatto che il decreto di amnistia era
stato costruito in maniera tecnicamente manchevole e a tratti
incongruente, offrendo ai giudici una palestra per acrobazie
concettuali, sottili disquisizioni, ragionamenti tortuosi,
considerazioni capziose e settarie. Colpisce la varia gamma di umori
che Franzinelli registra ai vertici del Pci. Luigi Longo scorge nel
Guardasigilli l'ovvia intenzione di «conquistare» al partito «i
fascisti sinceramente onesti». Per Terracini l'errore è consistito
nell'«affidare ai giudici un ambito di discrezionalità inusitato».
Pietro Secchia è convinto che Togliatti sia stato «fregato» dalla
burocrazia del ministero. L'autore del volume, assai severo in sede
storica, trova poco convincente quest'ultima ipotesi, basata sulla
sprovvedutezza del capo comunista, il quale, osserva, disponeva fra i
suoi consulenti di tecnici agguerriti. E trova dunque verosimile che,
dato il suo «carattere volitivo», egli, «raggiunta una
convinzione, poco si sia curato del parere dei collaboratori».
I socialisti furono tra i
più decisi nel deplorare l'amnistia. Nilde Iotti colse sulle labbra
di un militante del «partito fratello» un proposito che la
sconcertò. Riferendosi agli ex fascisti liberati dalle carceri, egli
assicurava: «Quelli escono e poi ci pensiamo noi». Sandro Pertini
disegnò sconsolato il quadro che l'amnistia lasciava dietro di sé:
«Abbiamo visto uscire coloro che hanno incendiato villaggi, che
hanno violentato donne...». Saragat consigliò: «Nella questione
dell'amnistia dobbiamo dissociare la nostra responsabilità da quella
dei comunisti». Fra gli azionisti, Calamandrei definì il decreto
togliattiano «il più insigne monumento all'insipienza legislativa»
ed Ernesto Rossi vi scorgerà «una dimostrazione di imbecillità e
di incoscienza».
In pagine risentite,
Franzinelli descrive nominativamente il corteo degli alti dignitari
del fascismo che torna in circolazione dal ' 46 in poi. Si va da
Grandi a Federzoni, da Bottai a Scorza, da Alfieri a Caradonna, da
Acerbo ad Ezio Maria Gray, da Renato Ricci a Giorgio Pini, da Teruzzi
a Junio Valerio Borghese, da Cesare Maria de Vecchi ai collaboratori
della banda Koch. E poi Mario Appelius, Telesio Interlandi, Concetto
Pettinato, Bruno Spampanato. Molti fra loro detteranno le proprie
memorie. Parecchi militeranno nelle file del Msi. Più d'uno,
incredulo del miracolo che gli tocca, emigra in Sud America, per
prevenire un ripensamento della democrazia. Un'epigrafe adatta a
suggellare l'intera vicenda si trova in un'autobiografia che Giorgio
Almirante pubblicò nel 1974: «Sarebbe ingeneroso non ricordare l'
amnistia voluta da Togliatti per i fascisti».
“la Repubblica” 21
giugno 2006
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