È un pezzo a cui tengo
molto, pubblicato ieri, 27 giugno 2019, su “micropolis”, il supplemento umbro de
“il manifesto”, nella rubrica La battaglia delle idee. Mi
pare che quello che sta accadendo nella nostra città, fino a qualche
lustro fa esempio di tolleranza, accoglienza, pacifismo, sia degno di
attenzione anche fuori dai confini dell'Umbria e perciò lo ripropongo qui agli amici d'ogni dove. (S.L.L.)
Perugia, Rocca Paolina, giugno 2016. Un'immagine dalla video-stallazione "Perugia folgora" |
Si è conclusa il 16
giugno la quarta edizione di “Perugia 1416”, la kermesse che
pretende di rievocare con scenografie, gare tra rioni, tornei, cortei
in costume e altro ancora, i giorni, non si sa quanto felici, di
Braccio Fortebraccio da Montone, un capitano di ventura che fu per
qualche tempo Signore della città.
Molto s'è detto nel
tempo, da parte degli oppositori e dei critici, sui costi
spropositati, sulla stravaganza di una tradizione senza radici nella
memoria collettiva, sulle incongruenze storiche - al limite dello
sfondone - presenti nella rievocazione, sulla scarsa attrattiva
turistica di una manifestazione senza passato e autenticità; ma
niente ha fermato gli ideatori, organizzatori, consulenti e
aggregati, guidati dall'assessore Severini, la vispa Teresa,
espressione della tradizionale borghesia cittadina con un
interessante passato enologico. Romizi peraltro, annunciandone il
rilancio nel vivo della campagna elettorale, ha voluto fare della
parata medievaleggiante il fiore all'occhiello della sua prima
sindacatura, l'emblema di una peruginità che rompe con un passato di
ibrido cosmopolitismo. Dopo il voto ne ha commentato i fasti più
rilassato e a chi gli diceva del sollievo per la sua rielezione dei
tanti “rionali” preoccupati di perdere il giocattolo, rispondeva
magnanimo: “Ma no! Nessuno oserà sopprimere, né ora né in
futuro, una manifestazione che riscuote un così forte gradimento”.
E con occhi luminosi di soddisfazione aggiungeva: “Ho visto i
ragazzini, i bambini impegnarsi con entusiasmo. Sono loro la garanzia
di futuro per Perugia 1416”.
Intanto, mentre da
settimane campeggiano sui muri cartelloni e poster preannuncianti il
medioevo imminente, all'altra ricorrenza perugina, quella più antica
e collaudata del 20 giugno, sono rimasti gli angolini: qualche
locandina qua e là con un programma di iniziative
dell'associazionismo e una forte impressione di residualità. Tutto
il contrario della festa grande che
Raffaele Rossi, padre nobile della sinistra novecentesca, aveva
promosso e caldeggiato! “Lello”, nei suoi “discorsi sulla
città”, sembrava compiacersi della felice coincidenza di data tra
la violenza assassina compiuta nel 1859 dalle truppe mercenarie
svizzere su Perugia, ricondotta al potere assoluto del Papa Re, e la
sua liberazione dai nazifascisti nel 1944 da parte degli alleati
affiancati dai partigiani resistenti. Questo fatto – a suo dire -
riscattava la ricorrenza dall'ipoteca massonica e ne inverava la
lettura data da Aldo Capitini e Walter Binni, i quali individuavano
nel coraggio della libertà, nell'avversione per la crudeltà, nella
diffidenza verso un potere imposto il manifestarsi di un alto
sentimento civile. Perugia, conosciuta già nell'Ottocento in Europa
e negli USA come “la città del 20 giugno”, martire
dell'oppressione assolutistica, poteva ora dare a quella data un
valore più inclusivo che in passato, tale da garantire la
riconciliazione tra laici e cattolici e la partecipazione del
cosiddetto “contado”, poteva volersi e vedersi come la città
dell'orgoglio democratico, della tolleranza, dell'accoglienza e della
pace.
Era
difficile che il mito del 20 giugno e la connessa narrazione
identitaria resistessero intatti all'ondata revisionistica della
cosiddetta seconda repubblica. Un ruolo di punta di lancia lo ha
svolto nei primi anni Duemila la rivista “Diomede”, pensatoio
della sognata riscossa aristocratico-borghese: per snobbare la
ricorrenza del 20 giugno non ci si attaccava più ai residui di
anticlericalismo, ovviamente “vieto”, ma se ne denunciava il
carattere troppo “di sinistra”, e per ciò stesso antiquato. Non
era però un indigeno, né tanto meno proveniva però dalla cerchia
antica il vero e proprio profeta della nuova “peruginità”
militaresca, era piuttosto un immigrato di successo: si tratta di
Alessandro Campi, ammanicato politologo della destra nazionale e
locale.
A suo
tempo costui aveva definito “eroe” e “campione di italianità”
uno dei mercenari italiani sequestrati e uccisi in Iraq, il povero
Quattrocchi, per via della sua ultima frase autoconsolatoria su come
muoiono gli italiani; più di recente Campi aveva organizzato, nel
nome di Machiavelli, una mostra sulla tradizione perugina dei
capitani di ventura, di cui Braccio Fortebraccio rappresenta un
esempio tra i più fortunati. Da consumato ideologo ben sapeva il
Campi, già prima della conversione italianista della Lega, che le
piccole patrie, le spesso meschine identità locali non
indeboliscono, ma corroborano il nazionalismo statolatrico.
È
grazie a questa cultura consapevolmente contrapposta alla nonviolenza
e al pacifismo capitiniani (ovviamente “buonisti”) e non sempre
adeguatamente contrastata, che la città nei giorni deputati trabocca
di militarismo, ben al di là della criticatissima e finta sassaiola:
questa è solo un elemento marginale, popolaresco, dell'apologia
della violenza che “Perugia 1416” organicamente incarna. Quella
che qui viene esaltata è la figura del professionista della
violenza, dell'uomo d'armi, del guerriero e più ancora quella del
comandante in capo, del duce. Il pensiero non può non correre a quel
“capitano” alla guida della destra, uno che ama indossare le
divise e a tutto si dice pronto pur di fermare l'invasore, magari sul
bagnasciuga.
Ci
sono aspetti inquietanti in questa mascherata grottesca, primo fra
tutti il simbolo raffigurato nelle bandiere blu che ornano il centro
cittadino: le catene. In piazza Matteotti un barbuto dall'aria
bonaria, tipo vecchietto del West, invita i bambini ad entrare nello
spazio del cimento per abbattere, lancia in resta, un cattivo, un
saraceno non a a caso. Alla Rocca Paolina pannelli esaltano le glorie
della cavalleria, crociate incluse, e vengono offerte in visione
spade, picche, lance, maglie metalliche e pesanti armature (il tutto
rifatto ovviamente, ma generalmente luccicante). Il clou si raggiunge
in una saletta, dove un'istallazione video dal titolo Perugia
folgora promette una full
immersion nella città
medievale, mentre una didascalia, la canonica excusatio non
petita, avverte che non bisogna
pretendere veridicità e precisione da quella che è solo
un'elaborazione artistica, di fantasia. Segue una escalation
di edifici, immagini artistiche
di guerra, intrecciati giochi di luce, in cui spesso la croce si fa
spada e che culmina nell'apparizione di un'ombra che sovrasta la
città, a proteggerla e ad ammonirla, un guerriero con l'arma
sguainata che ricorda il simbolo leghista. Non c'ero, ma mi hanno
raccontato che a fine festa il finto Braccio volendo comunicare la
morale della favola come invasato urlava: “La tradizione è
cultura! La tradizione è identità, la tradizione è bellezza”.
Che poi anche la tradizione sia rielaborazione fantastica per costoro
è secondario.
Pagliacciate?
Dicevano così anche nel secolo scorso i benpensanti, quando i
balilla armeggiavano coi moschetti finti, i podestà intravedevano
nell'armeggiare un futuro luminoso e Mussolini si metteva in posa con
l'armatura di Bartolomeo Colleoni. Si sa come andò a finire. Non
pochi di quei balilla, dopo, da partigiani, in cerca di pace e
libertà rivolsero le armi contro i fascisti. Ma non era meglio
risparmiarsela una così grande carneficina?
“micropolis
– il manifesto”, 27 giugno 2019
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