Il Castello di Mussomeli |
Il 17 febbraio scorso
Mussomeli, grosso paese della provincia di Caltanisetta, assurgeva di
colpo ad una dolorosa notorietà.
Quel giorno una folla di
misera gente, donne la maggior parte, s’era raccolta sulla
piazzetta antistante il municipio invocando a gran voce il sindaco e
da lui attendendo che mettesse ordine nella esazione in corso dei
ruoli di pagamento del canone dell’acqua, proprio in un momento in
cui, da diversi giorni, l’acqua mancava. Si trattava di poche
migliaia di lire, forse meno di quanto costa, a Palermo o a Roma, un
pranzo in un ristorante alla moda. Ma poche migliaia di lire, per i
braccianti o per i minatori di Mussomeli, sono una ricchezza ch’essi
non possiedono. Il sindaco ebbe paura di quella folla inerme che gli
chiedeva già da due giorni un atto di giustizia, e la paura gli
suggerì la folle idea di far sgombrare la piazzetta dai carabinieri
col lancio di candelotti lacrimogeni. Fu sul luogo un grido solo: «Le
bombe! Ci assassinano! » e un fuggi fuggi disperato, per due strette
uscite e un parapetto dove la gente s’accalcava e si schiacciava.
Bilancio: quattro morti e molti feriti. Dei morti tre erano donne:
Messina Vincenza di anni 25 madre di 3 bambini, Pellitteri Onofria di
anni 50 madre di 8 figli; Valenza Giuseppina di anni 72. E un
ragazzo: Cappalongo Giuseppe di anni 16.
La commozione nell’Isola
e nel Continente fu generale. Quei morti erano, in un certa tal
guisa, il biglietto da visita del ministero Scelba che si era
costituito sette giorni prima e di cui era bastato annuncio perché
si tornasse, di un tratto, da Milano a Roma a Torino ai bei tempi dei
caroselli, delle jeep, delle cariche della Celere e delle
manganellate.
Si poteva credere che la
presenza vicino a Scelba del vice-presidente del Consiglio Saragat,
inducesse il governo a promuovere, o la parte socialdemocratica ad
esigere, una inchiesta, previa la destituzione del sindaco e del
maresciallo dei carabinieri, evidentemente incorsi in un caso
clamoroso di abuso di potere. Nulla. Il governo si tenne pago del
rapporto dell’Arma, di qualche sussidio mandato alle famiglie delle
vittime, di una parola di pietà che non dirò ipocrita, ma
insufficiente sì. La sua stampa annunciò che il sindaco ed i
carabinieri avevano dovuto difendersi da una fitta sassaiola, sotto
il cui grandinare i vetri del municipio erano andati infranti.
Risultò che non c’era un solo vetro rotto, che le autorità non
avevano corso alcun pericolo, che sarebbe bastata una buona parola
del sindaco per rimandare a casa la gente. Ma intanto s’erano
svolti frettolosamente i funerali e non per nulla il nostro è il
paese dove chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Su Mussomeli.
sui suoi morti, sulla sua miseria cadde in pochi giorni l’oblio del
silenzio.
Noi non abbiamo
dimenticato, nè taceremo, se prima Mussomeli non abbia ottenuto
riparazione e giustizia.
Mussomeli, i suoi morti,
la sua miseria nera, ci appaiono come il simbolo del tanto, del molto
che resta da intraprendere e da fare per attuare il terzo tempo
sociale. Si tratta di un grosso paese, che si stende attorno ad un
antico castello, con le case grigie dei borghesi, tra le quali
troneggia il palazzo della famiglia Lanza, principi di Trabia, ultimi
signori feudali della zona; con misere casupole dove si ammassa la
povera gente, braccianti, carusi delle miniere di zolfo, piccoli
artigiani di mille mestieri; col tanfo perenne, il colore, gii usi e
costumi della miseria. È un paese, come ve ne sono tanti in Sicilia,
dove la mafia ancora detta legge; dove le autorità sono agli ordini
e a disposizione dei «cappeddi» (dei ricchi) e della mafia,
pressapoco come ai tempi delle orazioni di Cicerone contro Verre;
dove la Chiesa fa corpo (sociale e non mistico) coi proprietari di
terre (e per le cui viuzze di fango o di polvere non si incontrano
quindi i fraticelli del cardinale Lercara in amore di riformismo
sociale); dove la legge del tempo sembra essere la immobilità. Le
esigenze di Mussomeli sono quelle del terzo tempo sociale: lavoro e
pane, istruzione ed igiene, case e svago civile, cioè dignità di
vita nella sicurezza di una occupazione stabile. Non furono dunque
questi i motivi sociali della grande lotta dei Fasci siciliani,
esattamente sessanta anni or sono?
Lo furono. E il fatto che
tanto tempo sia passato e i medesimi problemi siano all’ordine del
giorno, è un atto d’accusa per la classe dirigente siciliana, ed
italiana, per le autorità locali e il governo centrale.
I Fasci sorsero in
Sicilia nel 1891, furono la prima istintiva forma di organizzazione
contadina e socialista, divennero una forza dopo il 1892, dopo la
costituzione a Genova del Partito Socialista (allora Partito dei
Lavoratori). Nel maggio 1893, quando si tenne il primo congresso
socialista siciliano, l’organizzazione di Partito era almeno
formalmente distinta da quella più larga dei Fasci, dove confluivano
operai, contadini, minatori delle zolfare, piccola e minuta borghesia
rurale. Poi, nello sviluppo rapido del movimento, i Fasci, con alla
testa Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, Bernardino Verro, Giuffrida De
Felice, presero l’effettiva direzione della lotta sociale e
politica nell’Isola. Si assisteva al fenomeno detto da Filippo
Turati della «proletarizzazione della massa siciliana»; alla
trasformazione della agricoltura feudale e patriarcale in agricoltura
capitalista; alla spoliazione borghese delle terre demaniali.
Coincidevano i mali della vecchia società feudale e della società
capitalista in formazione. Il movimento dei contadini era diretto
essenzialmente contro i gabellotti, per lo sfruttamento a cui
sottoponevano i lavoratori dei campi. Il movimento dei minatori delle
zolfare era diretto contro le condizioni inumane del lavoro, che
all’epoca strapparono grida di orrore per come vivevano i
picconieri e specialmente i carusi. L’artigianato assecondava la
rivolta dei contadini. Tutti avevano nemico lo Stato, impersonificato
dal carabiniere e dall’agente delle tasse. Si lavorava per paghe
giornaliere da 40 cent, a una lira, fino a un massimo di due lire per
la mietitura, nei pochi giorni in cui le braccia non bastavano.
Un movimento di quella
natura, in quel clima, in quelle condizioni sociali, non poteva
sfuggire a impulsi anarchici (ed infatti Antonio Labriola in una sua
lettera a Federico Engels parlava dell'influenza pazzotica di De
Felice), eppure c’era nei dirigenti una maturità di coscienza e di
responsabilità che ancora sorprende. C’era l’idea chiara del
valore dell’alleanza tra città e campagna; c’era il sentimento,
se non ancora la teorizzazione, che la emancipazione dei lavoratori
doveva essere opera dei lavoratori stessi; c’era una nozione esatta
del legame tra politica ed economia, tra classe dirigente politica e
classe dirigente economica. Bosco poteva dire fin d’allora agli
studenti: non potremo trionfare se con noi non si muoveranno i
contadini. Il programma dei Fasci era quello del Partito Socialista,
era quello della scuola marxista. Nella scultorea definizione di
Antonio Labriola i fasci ebbero il compito di portare il proletariato
agricolo siciliano «sul davanti della scena della storia». Tra i
dirigenti Bosco e De Felice esprimevano l’interesse della
popolazione progressiva urbana al grande riscatto dei contadini;
Nicola Barbato, medico a Piana dei Greci e Bernardino Verro
segretario comunale a Corleone (egli fu assassinato dalla mafia nel
1915) erano in più diretto contatto con la grande miseria e la
grande rivolta dei rurali.
La rivolta assunse le
forme che poteva assumere, confermando uno dei principii fondamentali
del materialismo storico e cioè che la storia si fa come può, nelle
condizioni determinate dall’ambiente, ma si fa: occupazione di
terre, prevalentemente demaniali; scioperi; attacco ai gabellotti ed
ai signori; incendio dei casotti del dazio e dei municipi.
La repressione fu
localmente quale l’imponeva l’istinto bellicoso di difesa dei
feudali e dei loro scherani, che sentivano traballare sotto i loro
piedi l’organizzazione sociale di cui gli uni vivevano lautamente e
gli altri raccoglievano le briciole, e fu da parte dello Stato,
inerente alla natura delle istituzioni, falsamente liberali col
Giolitti della primissima maniera e apertamente reazionarie col
Crispi dell’ultima maniera. Nessun arbitrio fu risparmiato,
dall’assassinio all’arresto per associazione a delinquere, dalla
proibizione dei cortei e dei comizi alla diffida personale,
dall’allontanamento degli inscritti ai Fasci dagli impieghi
pubblici, all’intimidazione famigliare; dal sequestro del giornale
Giustizia Sociale alla chiusura delle sedi dei Fasci.
Quando quelle misure
apparvero inadeguate, si ricorse alla strage. Undici contadini uccisi
a Giardinello nel dicembre 1893, altri 11 poco dopo a Lercara, 8 a
Pietraperzia nel gennaio 1894, 20 a Gibellina, 2 a Belmonte, 18 a
Marineo, 13 a Villanova ecc.
Il 25 dicembre 1893
Crispi si faceva autorizzare dal re e dal consiglio dei ministri a
proclamare lo stato d’assedio nell’isola e inviava a Palermo, con
pieni poteri, il generale Morra di Lavriano. All’accusa di
fomentare la sedizione e la rivolta, i Fasci rispondevano fieramente
proclamando che «l’agitazione presente è il portato doloroso e
necessario di un ordine di cose inesorabilmente condannate e che
mette la borghesia nella necessità o di seguire le esigenze dei
tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali». Faceva eco da Roma
la solidarietà dei deputati socialisti i quali accusavano il governo
di non avere fatto «nulla nel passato», di nutrire ora «di piombo
gli stomaci affamati» e «fraintendendo ad arte l’opera
moderatrice dei Fasci dei Lavoratori» di soffocarne «con l’arresto
dei capi la voce generosa».
Piombo e galera furono il
rimedio di Crispi, e perché non mancasse nulla del classico
armamentario reazionario, ci fu anche la solita e stolida accusa
crispina che i capi dei Fasci fossero al servizio dello straniero,
della Francia e della Russia (già allora!) per staccare l’isola
dal regno.
Sciolti i Fasci, dispersi
i seguaci, arrestati quelli che oggi chiamiamo gli attivisti,
condannati i capi dal tribunale militare straordinario (De Felice a
16 anni, Barbato e Verro a 14, Bosco a 12, Montalto a 10 anni ecc.)
l’antico ordine sociale fu ritenuto salvo. Senonché i dispersi
ritrovarono rapidamente animo e coraggio; l’amnistia del ’96
strappò dai reclusori i capi dei Fasci che nelle elezioni del 1895
erano stati eletti in diverse circoscrizioni continentali; nel
gennaio del ’96 il Partito Socialista in Sicilia veniva
ricostituito; le masse si rimettevano in movimento.
La repressione dei Fasci
siciliani non fu un episodio né unico né singolare del decennio
della reazione: 1890-1900. Metodi analoghi furono subito dopo
impiegati contro analoghi moti in Lumgiana e si ebbe, nel luglio
1894, la legge contro gli anarchici, fonte per lunghi anni di
inqualificabili abusi, di cui furono vittima in modo particolare i
socialisti. Poi le elezioni del 1895, che raddoppiarono alla Camera
l’Estrema Sinistra, e a Roma videro Crispi vincere di stretta
misura il galeotto De Felice con uno scarto di 213 voti. Poi Adua che
rovesciò Crispi. E dopo il ritiro di Crispi, l’oscuro periodo
culminato nei moti e nelle repressioni del ’98, moti e repressioni
che presero di bel nuovo l’avvio in Sicilia, per dilagare
rapidamente, di provincia in provincia, nel continente, fino a
Milano, e ivi essere immortalate nelle gesta del generale Bava
Beccaris. Dopo di che, e dopo il tentativo del generale Pelloux, di
piegare con la frode dei regolamenti della Camera e delle elezioni
ammaestrate la resistenza della democrazia, dopo il regicidio di
Monza, la reazione precipitava d’un tratto nel vuoto ch’essa
aveva scavato sotto i propri piedi. Nasceva, col Giolitti della
seconda maniera, l’era liberale, durata, con alterne vicende e tra
clamorose contraddizioni, fino al 1922.
A distanza di tanti anni,
dopo tanti eventi militari e politici, dopo i vent’anni della
dittatura fascista tra le due guerre mondiali, un episodio come
quello di Mussomeli, attesta le insufficienze dell’epoca liberale,
denuncia il tragico sperpero di ricchezze e di energie promosso, al
di là dei mari, da Mussolini; ripropone alla democrazia repubblicana
il terzo tempo sociale, eluso, nel corso degli ultimi sette anni,
dalla democrazia cristiana e dalla socialdemocrazia per le quali
urgenti non era dare terra ai contadini, case, scuole ed ospedali al
popolo, sicurezza di lavoro agli operai, dignità di occupazione ai
dipendenti delle pubbliche amministrazioni, garanzia di sviluppo alle
professioni intellettuali, ma urgente era la crociata ideologica
contro il marxismo, la discriminazione che tende a porre ai margini
della vita democratica socialisti e comunisti, la lotta contro i
sindacati e la maggiore delle loro organizzazioni centrali, la
C.G.I.L.
Mussomeli ci ha
ricondotti al «quia». «State contenti, umana gente, al quia». I
lavoratori non staranno contenti. Hanno nel passato rimosso molte
delle cause della loro servitù e della loro miseria. Rimuoveranno le
cause persistenti dell’ingiustizia sociale. Questo, e non altro, ha
da essere il senso del terzo tempo sociale.
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