Un albergo sulle pendici dell'Etna |
Mi sono trovato una
volta, d’estate, in un albergo di montagna dove ogni anno si
riuniscono, per gli esercizi spirituali, gli ex allievi di un
convitto religioso; uno di quei convitti che fanno «classe», e
perciò vi si arrampicano anche quelli che appena possono permettersi
di pagarne la retta (cioè: i padri vi arrampicano i figli, che certo
preferirebbero le squallide e invigilate «stanze in famiglia», ma
finiscono poi con l’affezionarsi e, una volta fuori, col
riconoscere il vantaggio dei legami stabiliti coi maestri e coi
compagni in quegli anni di clausura).
Arrivavano, gli ex
allievi, alla spicciolata: e nello spiazzo davanti all’albergo,
scendendo dalle loro grandi automobili, si incontravano con
espressioni di sorpresa e di gioia, scherzosi insulti, abbracci e
manate. E magari si erano lasciati la sera avanti, giù in città: ma
il ritrovarsi all’appuntamento di ogni anno, tutti insieme,
svegliava in loro una compagnoneria facile e sguaiata: che sarebbe
stata, pensandoci bene, l’unica contropartita e risorsa alle lunghe
ore di messa, predica e preghiera che li attendevano. Qualcuno
arrivava accompagnato dalla moglie: ma soltanto fino alla soglia del
ritiro; e lasciato lì, la valigia accanto, col viatico di due
sororali baci sulle guance e di una frettolosa raccomandazione
riguardo al freddo della sera e al golfino o alle medicine da
prendere al pasto.
E lei se ne ripartiva
lestamente, dando l’impressione, nel virare l’automobile nello
spiazzo, nel festoso rombo del motore, nello slancio con cui usciva
dal cancello, che, avendo consegnato il marito a un luogo in cui si
celebrava lo spirito, libera, leggera, ilare corresse a luoghi dove
invece si celebrava la materia. Una di quelle situazioni che
provocano e suscitano immaginazioni che si sogliono dire boccaccesche
ma che meglio sarebbe, in questo caso, dire maupassantiane
(malpassantiane, preferiva Savinio): lei che corre all’alcova
segreta e nel frenetico impatto, tra un bacio e l’altro, mentre il
partner, come Mario Cavaradossi, la discioglie dai veli, dice: «ho
lasciato quel porco ai suoi esercizi spirituali». Quel porco! E
qualcuno, tra i venuti al monte dello spirito, lo era davvero: forse
anche nella vita coniugale, certamente in quella pubblica.
Malversazione, peculato, interesse privato in atti di ufficio: nero
su bianco in rubrica giudiziaria. E molti altri ce n’erano, non mai
o non ancora rubricati, di cui si diceva illecita la ricchezza,
torbida l’incredibile ascesa. Avevo insomma sotto gli occhi,
adunati all’insegna dello spirito, con apparente allegria
costituitisi (verbo perfettamente in taglio) alla meditazione e alla
preghiera, non pochi esponenti di una classe di potere.
La meditazione, la
preghiera. Alla fine di ogni predica, dovevano ritirarsi ciascuno
nella propria camera, a meditare. Uno che dopo la predica si
attardava nell’atrio, fu severamente rimproverato da un prete: «
Avvocato, mi meraviglio di lei! Vada a meditare in camera»; e
l’avvocato filò in camera, mortificato. La sera, tutti insieme,
recitavano il rosario: andavano su e giù nello spiazzo avaramente
illuminato, a passo svelto, con dei dietrofronti improvvisi, confusi,
aggrovigliati; e quanto più si aggrovigliavano tanto più levavano
le voci nei pater, negli ave, nei gloria. Con una nota di isteria, di
paura. E in quel momento, anche chi (come me) li vedeva nell’abietta
mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era qualcosa di
vero, qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale, in
quel loro andare su e giù al buio, in quel biascicare preghiere, in
quel confondersi e aggrovigliarsi: quella nota di isteria, di paura;
quasi che per un attimo si sentissero, disperati, nella confusione di
una bolgia, sul punto della metamorfosi. Appunto come nella dantesca
bolgia dei ladri. E che l’attimo potesse diventare eternità.
Debbo confessarlo: quel
piccolo, momentaneo contrappasso che sentivo si realizzava tra loro,
in loro, mi appagava e rassicurava. Che credessero nell’inferno,
che ne avessero paura. «Se ci credi, c’è; se c’è, ci andrai».
E capisco perché un mio amico, che non ci crede e non ci andrà,
ogni volta che incontra un prete domandi: «c’è ancora,
l’inferno?». Ma pare che in questi ultimi tempi non riesca ad
ottenere risposte soddisfacenti, e cioè affermative.
Nero su nero,
Einaudi, 1979
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