Nella memoria collettiva,
nella coscienza nazionale, nella riflessione sulle nostre condizioni
attuali, c’è in genere poco spazio per la giusta collocazione di
un fenomeno come quello dell’emigrazione che per l’Italia è
stato di così ampie dimensioni. Ora un bel libro, dalla scrittura
leggera e accattivante, ci ricorda che lo studio dettagliato,
approfondito dell’emigrazione italiana induce a una miglior
comprensione di grandi nodi della storia del paese.
Andreina De Clementi, in
Di qua e di là dell’Oceano. Emigrazione e mercati nel meridione
(1860-1930) (Carocci, 1999), si pone un duplice obiettivo. In
primo luogo vuole individuare le cause più precise che portavano a
decidere di emigrare, gli obiettivi che si intendeva perseguire, i
modi per raggiungerli. In secondo luogo, quali ricadute, economiche,
sociali e culturali abbia avuto l’esperienza migratoria. Un
approccio che richiede la metodologia del cercatore di tartufi:
cercare indizi, tracce, segnali sparsi in una grande quantità e
varietà di fonti, e delimitare un terreno preciso per scandagliarlo
in profondità. I confini della sua ricerca racchiudono il
Mezzogiorno continentale, in un arco di tempo che va dai primi timidi
tentativi di esplorare opportunità lontano da casa fino
all’esaurirsi della tipologia migratoria che si era venuta formando
con la crisi del ’29 e il fascismo.
Il meridione esce così
da quella nicchia di semplicistica arretratezza in cui una
sedimentata pubblicistica l’aveva collocato per mostrare una sua
forma di modernità. Si popola di musicanti, ramai, suonatori
ambulanti, ebanisti e modelli per pittori la cui intraprendenza e
iniziativa porta notizie, informazioni, speranze e sogni che in
assenza di strade e ferrovie viaggiano attraverso venditori ambulanti
per fiere, mercati e tratturi impervi; di donne lasciate inoperose
dalla inquietante deindustrializzazione di un sud arroccato in una
protoindustria obsoleta a causa di un mercato asfittico che la nuova
classe dirigente nulla aveva fatto per ammodernare. Varie sono le
strategie messe in atto per mantenere status e autosufficienza
economica a fronte di confische e lottizzazioni che distruggono
patrimoni boschivi di Molise e Basilicata, eliminano pascoli e di
un’agricoltura resa precaria da epidemie delle piante e
fluttuazioni dei mercati internazionali che spingono a depauperare le
terre con coltivazioni sbagliate, prima di ricorrere a quella che
l’autrice chiama «insorgenza migratoria».
L’analisi critica e
comparata dei dati statistici consente a De Clementi di individuare
scarti di comportamento, cunei di difformità nei dati del Meridione
continentale. Alcuni stereotipi si infrangono. Abitudini familiari,
organizzazioni domestiche, valori e codici patriarcali, la
sottomissione femminile, la solidarietà o la tanto sottolineata
amoralità familistica del Sud si dimostrano essere non omogenei, ma
legati a situazioni economiche di notevole diversità. L’autrice
intreccia i dati tecnici con i dati culturali e sociali. La
femminilizzazione della popolazione trasforma produzione e società.
In alcune zone si rafforza l’autonomia femminile, in altre arretra.
E tutto ciò incide sulla tenuta complessiva del tessuto sociale,
sullo stimolo a partire, a tornare o a emigrare definitivamente.
Bell’esempio, a tratti, di come l’attenzione per la storia delle
donne possa e debba diventare storia di genere e storia sociale. In
alcune zone si estende alle donne il lavoro dei campi anche dove non
ve n’era la tradizione, in altre si valorizza il ruolo della sposa,
delegata a tutelare i beni del marito emigrante.
A dimostrazione delle
diverse strategie vi è uno studio dell’uso delle rimesse. Anche
questo ha modalità diverse e una sua interna gerarchia. Se la prima
preoccupazione è mantenere i familiari rimasti in patria e pagare
debiti e imposte, segue subito dopo il desiderio di dimostrare il
proprio successo. Solo dopo aver ottenuto questi primi obiettivi si
investe in risparmi, non si disdegna di riproporre la piccola usura o
si apre un piccolo commercio. L’acquisto della casa e della terra è
l’ultimo dei desideri da soddisfare. Gli emigrati tornavano con una
accresciuta coscienza di sé e maggior autostima, abbandonavano la
deferenza e imparavano a trasformare comportamenti sottomessi in
atteggiamenti di indipendenza e sicurezza di sé. Ma rimanevano soli
e mai fu capitalizzato il loro patrimonio di esperienze. In realtà
avevano guadagnato molto intellettualmente, come dimostra De
Clementi, ma in un modo autodidatta, che avrebbe avuto bisogno di
sostegno e strutture per diventare qualcosa di diverso. Da questo
libro emerge un Sud non rassegnato e non del tutto estraneo alla
modernità. Un Sud molto variegato, da approfondire in tutte le sue
sfumature per poter capire meglio qualche perché della nostra
«patria debole».
il manifesto, 4 novembre
1999
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