Se sulla riva nord del
Mediterraneo non c’è una «primavera europea», mentre su quella
meridionale ci sono state le «primavere arabe», una delle ragioni
più spesso addotte è che in Egitto gli under-25 anni sono il 52%
della popolazione, in Siria il 55% (e così via), mentre in Italia
sono attorno al 24%: lì i giovani sono più della metà, da noi meno
di un quarto: i giovani protestano, gli anziani chinano il capo,
perché l’Italia è, con il Giappone, il paese sviluppato con più
anziani al mondo, Per parafrasare all’incontrario il titolo di un
celebre romanzo di Cormac McCarthy (e di un omonimo film dei fratelli
Cohen), questa è terra per vecchi.
Catastrofismi
demografici
Ma perché si dà per
scontato che i giovani si rivoltano e i vecchi subiscono? Una prima
spiegazione ce la offriva nel suo seminario Pierre Bourdieu quando
parlava della «biopolitica volgare» e spiegava che i giovanissimi
sono ancora fuori dal mercato del lavoro - e quindi dal sistema -, e
perciò vogliono cambiare completamente il sistema (sono
«rivoluzionari»); poi entrano in posizione subalterna nel mercato
del lavoro e perciò vogliono cambiarlo dall’interno per migliorare
la propria posizione (sono «riformisti»), quindi man mano che
s’inoltrano nell’età adulta e fanno carriera giungono all’apice
della propria traiettoria lavorativa, e perciò vogliono mantenere lo
status quo attuale, lo vogliono «conservare»; mentre, quando sono
usciti dal mercato del lavoro - sono fuori sistema -, vorrebbero
tornare indietro e quindi sono letteralmente «reazionari»
(naturalmente tutto ciò nell’accezione statistica, che contempla
fluttuazioni, eccezioni, contraddizioni),
Ed è appena uscito un
libro che studia gli anziani di questa nostra terra per vecchi
soprattutto dal punto di vista del mercato del lavoro, scritto dal
nostro storico collaboratore Enrico Pugliese: La terza età.
Anziani e società in Italia (Il Mulino, pp, 212, euro 13), Un
libro che smonta una serie di luoghi comuni, sfata molte leggende e
mette un grano di sale nelle insulse ricette politiche dei nostri
legislatori,
Il primo luogo comune che
Pugliese sfata è il catastrofismo della «bomba demografica», sia
perché le previsioni si sono rivelate spesso false, e non solo in
demografia: basti andare a riguardarsi le previsioni del rapporto del
club di Roma del 1972: quell’augusto consesso non ne aveva
azzeccata praticamente nessuna, sia perché le curve demografiche non
sono una fatalità naturale, ma sono il risultato di situazioni
culturali e sociali mutevoli. L’emigrazione di molti giovani
contribuisce a invecchiare la popolazione che si lascia indietro,
come al contrario l’immigrazione contribuisce a ringiovanirla.
Quindi si può svecchiare un paese favorendo l’immigrazione o con
politiche che incentivano la nascita di bambini (assegni familiari,
strutture di sostegno come asili nido, permessi estesi di maternità
e paternità) come è avvenuto in Francia, dove negli ultimi 25 anni
sono stati messi al mondo 5 milioni di bambini più che in Italia, E
poi nella piramide demografica vi sono veri e propri buchi che
derivano dai figli non nati, a causa di guerre o di crisi economiche,
Un secondo cliché
sfatato da Pugliese è l’immagine debilitata dell’anziano.
L’estensione del sistema pensionistico a tutta la popolazione
attiva nel secondo dopoguerra ha di fatto cancellato il miserabilismo
che circondava l’immagine del vecchio: nel Meridione i pensionati
costituiscono addirittura una risorsa indispensabile per molte
famiglie. Pugliese ci ricorda che non solo viviamo statisticamente
più a lungo, ma che viviamo meglio e in migliore salute, tanto che
ormai si deve distinguere tra una terza età (grosso modo fino ai 75
anni) e una quarta età, tra anziani e grandi vecchi.
Perché la vecchiaia è
al tempo stesso in parte stato fisico e in parte costruzione sociale,
Pierre Bourdieu insisteva molto sul fatto che l’invecchiamento
sociale è il restringersi dello spazio dei possibili. Un giovane di
ceto medio può finire a fare il barista a Salvador de Bahia o il
ricercatore a Stanford, ma poco a poco le sue possibilità si
restringono finché non può essere altro che quello che è stato. Da
questo punto di vista, un operaio ventenne dell’800 era già
vecchio, perché nella vita non avrebbe mai potuto essere altro,
mentre un borghese poteva restare «socialmente giovane» anche fino
a 40 anni (oggi si parla di «giovani scrittori» anche per i quasi
cinquantenni). Così, la pensione (che è la sanzione legale e
formale dell’invecchiamento) riguarda solo le frazioni dominate
(anche quelle delle classi dominanti), mentre i dominanti non vanno
mai in pensione: grandi medici, politici, grandi banchieri, artisti,
finanzieri restano in sella anche da vegliardi,
Segregazione per
età
E Pugliese fa notare
quanto sia fuorviante il dibattito convenzionale sull’allungamento
dell’età pensionabile: tutti discutono, dice Pugliese, come se
toccasse al lavoratore scegliere il momento in cui «andare a
riposo», ma in realtà quel che sta succedendo è che le persone
vengono espulse dal mercato del lavoro sempre più presto, mentre
l’età pensionabile si allunga. Già oggi in Italia i 55-65 anni
per buona parte non lavorano o perché licenziati o perché non
riescono a trovare un nuovo lavoro, e spesso non compaiono nelle
statistiche perché vengono cancellati dalla forza lavoro attiva in
quanto, scoraggiati, non ricercano più un’occupazione. Così oggi
vi sono sempre più persone anziane gettate sul lastrico perché non
percepiscono più un reddito da lavoro e non sono ancora eleggibili
per una pensione. E in periodo di recessione questo tipo di destino
sociale diventa sempre più diffuso.
Tre altri punti sono
notevoli nel volume di Pugliese, Il primo riguarda le mutazioni della
vecchiaia in un mondo globalizzato. Neanche il futurologo più
delirante avrebbe mai potuto prevedere nel 1980 che trent’anni dopo
una percentuale consistente di anziani italiani sarebbe stata sposata
a donne ucraine. Visti i suoi trascorsi di studioso
dell’immigrazione, non stupisce l’attenzione (e la simpatia
umana) che Pugliese presta a quel fenomeno tipicamente italiano della
«badante» e alla frangia crescente di vecchi immigrati sradicati,
che siano italiani in America Latina o stranieri in Italia, che non
possono più tornare nel paese d’origine ma si trovano emarginati
in quello d’accoglienza.
Il secondo punto è che
sempre più nelle nostre società vige la segregazione sociale per
età, dovuta in primo luogo al fatto che sempre meno nonni vivono
accanto ai nipoti e sempre più le famiglie sono mono- o al massimo
bi-generazionali: single o coppie, o al massimo coppie con figli,
anche se forse su questo punto Pugliese sottovaluta il peso che ha in
Italia il problema abitativo: è impossibile, insostenibile trovare
abitazioni che possano alloggiare con agio una famiglia
multigenerazionale. Ma la segregazione per età riguarda anche i
luoghi di ritrovo, le attività di svago, ed è dovuta alla mancanza
d’immaginazione da cui noi umani siamo afflitti. Tutti coloro che
vecchi non sono suppongono infatti che l’anzianità esteriore,
delle rughe, corrisponda a una vecchiaia interiore, a rughe mentali.
Ma così non è: non potete immaginare la sorpresa che mi ha colto le
prime volte che dei giovani mi hanno offerto il posto sull’autobus.
Sorpresa perché io non mi vedevo affatto come mi vedevano loro: sei
marcato di vecchiaia innanzitutto dall’esterno. Come diceva un
relatore accanto a me a un dibattito all’università di Padova
sull’argomento: «La vecchiaia è una gran fregatura», malgrado le
(precarie) migliorie apportate dai sistemi di welfare che Pugliese
descrive.
L’ultimo punto riguarda
l’ideologia C’è una enigmatica contraddizione tra realtà
sociale e ideologia diffusa attorno a questa realtà. Per esempio, in
Italia un familismo persino ossessivo e opprimente va di pari passo
con politiche che penalizzano le famiglie e le oberano di funzioni
non assolte dallo stato, nella cura sia degli infanti che degli
anziani. Altro caso: la nostra società sfavorisce in modo pesante i
giovani (più alto tasso di disoccupazione, difficoltà d’ingresso
nel mercato del lavoro), discriminazione che si riflette nell’uso
dell’aggettivo «giovanile» quasi solo in contesti negativi:
«subculture giovanili», «criminalità giovanile» (si è mai
sentito parlare di «criminalità senile»?), Ma nello stesso tempo
la società è pervasa dal giovanilismo, dall’ideologia che ci
vuole tutti giovani e che spinge a inseguire la gioventù fino in
tarda età, Il reciproco avviene per gli anziani, Da un lato
costituiscono il gruppo sociale più potente, più influente, visto
che continuano a detenere il capitale (la proprietà) fino alla fine,
come si vede negli Stati Uniti: poiché sono la classe di età a più
alta partecipazione elettorale, sono coccolati da democratici e
repubblicani tanto è vero che sono l’unico gruppo sociale a godere
di un servizio sanitario nazionale pubblico.
Vegliardi letterari
Dall’altro lato però
«vecchio è brutto», prevale quel che i francesi chiamano l'agisme,
«una forma molto diffusa di pregiudizi relativi alla vecchiaia e
alle persone anziane, fonte di discriminazioni sociali basate su
false credenze e stereotipi». Tanto che a conclusione del suo volume
Pugliese cita un ironico passo di Peter Laslett: «Un ottantenne che
si trovi a partecipare a un convegno di geriatria o gerontologia
sentirà sottolineare con tanta insistenza le sue presunte incapacità
che finirà col meravigliarsi del fatto stesso di poter essere
presente»,
In realtà, una delle
caratteristiche più forti dell'agisme è la rimozione della
vecchiaia, una rimozione che varia nelle culture e a seconda dei
generi e che va dalla cancellazione al confinamento e alla
relegazione, come si vede bene dalla letteratura. Certo, nella
narrativa occidentale degli ultimi due secoli non mancano memorabili
vecchi: papà Goriot (1834), il vecchio David Séchard ( 1843) e il
padre di Eugenie Grandet («vieux tonnélier, vieux vigneron», 1833)
di Balzac, Jean Valjean (nei Miserabili, 1862) di Victor Hugo,
o il maresciallo Kutuzov in Guerra e pace (1869) di Tolstoj, anche se
Séchard viene considerato vecchio già dai 50 anni e ha 61 al tempo
della vicenda, Jean Valjean muore a 64 anni e Kutuzov ha 67 anni al
momento della battaglia di Borodino (1812).
Di veri vecchi ricordo
Dubslav von Stechlin (vedovo da trent’anni) con il suo anziano
cameriere Engelke nell’omonimo romanzo (1897) di Theodor Fontane,
il Carlino ottantenne delle Confessioni di un italiano (1858)
di Ippolito Nievo, il padron ‘Ntoni dei Malavoglia ( 1881)
di Giovanni Verga, o il vecchio pescatore di Ernest Hemingway (Il
vecchio e il mare, 1952). Ma mi scrive Franco Moretti: «È come
se la cultura europea si fosse specializzata in una cosa che si
potrebbe chiamare la tarda mezza età». Monsieur Homais e Charles
Bovary in Flaubert, molto Henry James (il dottor Austin Sleper in
Washington Square, l’avvocato sudista Basii Random nei Bostoniani),
e così via.
I vecchi sembrano essere
più protagonisti nei romanzi sudamericani: basti pensare a Cento
anni di solitudine (1967), o all’Autunno del patriarca
(1975) o all’Amore ai tempi del colera (1985) di Gabriel
Garcia Marquez, mentre la letteratura giapponese contemporanea è
costellata di memorabili vecchi, dalla sessantanovenne Orin del
villaggio di Narayama che vuole a tutti i costì affrettare la
cerimonia della propria morte nel romanzo La leggenda di Narayama di
Schichiro Fukazawa (1956), al settantaseienne Shigekuni Honda
protagonista de Lo specchio degli inganni (1970) di Yukio
Mishima, all’indimenticabile autoritario suocero ormai in preda
all’Alzheimer in quel capolavoro che è Gli anni del crepuscolo
(1972) della grande scrittrice Sawako Ariyoshi (il romanzo è stato
tradotto in inglese e in francese, ma non purtroppo in italiano) : il
curioso è che sia Mishima sia Ariyoshi sono morti suicidi,.
Nella considerazione
della vecchiaia vi è poi una frattura di genere, tra uomini e donne.
Come si è visto da questa rapida carrellata, le anziane sono
minoritarie rispetto agli anziani: la cugina Bette di Balzac non è
propriamente vecchia, come non lo è la «vecchia» zia Baby Kochamma
nel Dio delle piccole cose (1997) di Arundati Roy,
Le autrici italiane
sembrano occuparsi con più attenzione dell’invecchiamento, e
soprattutto delle donne che invecchiano. È formidabile la vecchia
Alfonsina che vive in una casa di cura, come la descrive mia madre
Luce d’Eramo nel romanzo Ultima luna (1993), o l’apparire
della vecchiaia a una cinquantanovenne che vive sola, in La
fontana della giovinezza di Luisa Passerini (1999)- D’altronde
negli Stati Uniti è stato pubblicato un libro dedicato
all’argomento: Women of a Certain Age. Contemporary Italian
Fictions of Female Aging (2005) di Rita C, Cavigioli,
La paura del futuro
Eppure la rimozione,
caratteristica generale nel caso dell'agisme, diventa più
evidente per le donne. Esemplare il caso di un libro uscito nel 1987
negli Stati Uniti: si intitola Oursélves, Growing Older. Women
Aging with Knowledge and Power (1987) ed è il seguito ideale di
un testo che è stato un livre de chevet del femminismo negli
anni ’70 e cioè Our Bodies, Oursélves (1971) del Boston
Women’s Health Book Collective. Il secondo libro, che affronta i
problemi dell’invecchiamento con saggezza e senza eufemismi, si
propone come «A Book for Women Over Forty», ma alla fine degli anni
’ 80 questo nuovo libro del collettivo bostoniano si è scontrato
con il muto rifiuto da parte delle stesse donne (allora attorno ai
quaranta) che avevano tradotto con entusiasmo Noi e il nostro
corpo, né è stato tradotto in seguito, perché l’agisme,
accoppiato col giovanilismo esteriore, lo subiscono assai più le
donne degli uomini. Non solo, ma in questa rimozione è possibile
leggere anche l’incerto rapporto che l’anzianità instaura col
futuro, un rapporto sempre più traballante che caratterizza
l’invecchiamento, una paura di fare progetti a lungo termine, il
senso di avvicinarsi a gran passi all’ultimo recinto invalicabile.
Il restringersi dei
possibili di cui parla Bourdieu assume qui la forma inesorabile del
restringersi dell’orizzonte temporale (è un’altra delle ragioni
del conservatorismo senile: gli anziani hanno uno scarso interesse
personale in mutamenti di cui pensano di non poter vedere gli
effetti). A meno di non essere come il grande sinologo Joseph Needham
(1900-1995) che incontrai nel 1982 nella sua indimenticabile stanza
al Caius College di Cambridge, quando ottantaduenne stava lavorando
alla sua grande storia Science and Civilization in China iniziata
nel 1954: da allora in 28 anni aveva pubblicato i primi 5 volumi e
quando gli chiesi quanti volumi contava di scrivere ancora, «Sette»
mi rispose, come se lo aspettassero altre sterminate praterie di
lavoro e ricerca.
“il manifesto”, 8
febbraio 2012
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