Anche se non sempre i
francesi hanno buona memoria, ci sono formule che sopravvivono alla
scomparsa degli eventi cui sono legate. E il caso dell’immaginazione
al potere, enunciato-vessillo del ’68, ma anche dichiarazione
di guerra - una guerra fatta di parole e di immagini, di gesti e di
pratiche, di capelli improvvisamente lunghi e di desideri liberati,
di indignazione di fronte all’ingiustificabile e di entusiastiche
speranze, di voglia di libertà e di giustizia. Una guerra che odiava
la guerra vera (quella del Vietnam - ma il ricordo della seconda
guerra mondiale non era poi così lontano, e anche il conflitto in
Algeria era terminato da pochissimo) e che si opponeva a tutte le
forme di autorità: dei genitori sui figli, degli uomini sulle donne,
del primo mondo sul secondo e sul terzo, della borghesia sulla classe
operaia, della cultura “alta” sulle forme di espressione
popolare, della Chiesa sui costumi, dello Stato sui cittadini,
dell’università sui saperi, della famiglia sulle scelte personali.
Parte dei giovani si levava contro una generazione che aveva permesso
il regime di Vichy e la trasformazione di quella che era una
sanguinosa difesa del mondo coloniale in una vera e propria guerra
civile, da cui la Francia si stava a malapena rimettendo. Cambiamo il
mondo, invadiamo le strade e le piazze! Noi uomini e donne di buona
volontà, noi operai e studenti, noi immigrati e cittadini francesi,
noi che non abbiamo chiesto di ereditare ciò di cui si sono resi
responsabili quanti ci hanno preceduto! Si tratta di sperimentare
nuove maniere di stare assieme, nuove modalità di vita.
Spesso gli eventi del ’68
vengono ridotti a una rivoluzione edonista e libertaria, centrata sul
sesso e sull’arte e appannaggio di poche privilegiate migliaia di
studenti parigini. In quegli eventi si potrebbero già intravedere le
premesse di quell’individualismo liberale che rappresenta oggi il
nostro orizzonte, in cui ognuno vuole far valere i propri desideri e
il proprio piacere qui e subito, a scapito di tutti gli altri! Non
c’è niente di più falso: il ’68, con la sua sete di
sperimentazione antiautoritaria, con la sua volontà di destituire
ogni potere senza volerne assumere nessuno, con la sua gioiosa voglia
di inaugurare il mondo, non ha mai perso di vista il fatto che
trasformare il reale è possibile soltanto se a farlo siamo tutti
quanti assieme - attraverso sperimentazioni che, senza costringere le
differenze a conformarsi a un unico modello, le potessero invece
lasciare libere di essere ciò che erano. Occorreva costruire un
mondo in cui le differenze riuscissero a coabitare senza che nessuna
di esse potesse mai essere considerata superiore alle altre.
Immaginazione al potere significava rifiuto del potere e voglia di un
mondo comune costituito da ricche e preziose differenze, significava
guerra agli autoritarismi, agli egoismi e ai tradizionalismi di ogni
genere.
Il malessere di oggi non
nasce dal perdersi della memoria. Il disagio nasce dalla
constatazione che le stesse parole che avevano incarnato le speranze
del ’68 (rivoluzione, immaginazione, trasformazione) sono passate a
integrare il vocabolario di un neoliberismo smanioso di disciplinare
le vite per rendere gli individui più produttivi e governabili.
Sconcerta che l’immaginazione sia diventata la parola chiave di una
melassa ideologica che ci vorrebbe tanto più docili quanto più
utili, e viceversa. In realtà, oggi, la nostra utilità produttiva
risiede nella nostra capacità di inventare. Diventata ormai un
mantra delle imprese, l’immaginazione al potere è un’ingiunzione
a trasformare se stessi in continuazione, a essere più creativi, più
innovativi: a spiazzare il consumatore avido di novità, a
schiacciare la concorrenza con l'innovazione, a catturare
l’immaginario sociale e a brevettarlo (vale a dire privatizzarlo),
per alimentare la febbrile rincorsa alla conversione in valore
economico. “Sii inventivo o crepa”: è questa la nuova formula
magica della selezione naturale all’epoca del neoliberismo. La
guerra di tutti contro tutti è oggi una guerra dell’immaginazione:
chi riuscirà a stupire di più? Chi riuscirà a essere più rapido,
più imprevedibile, più stravagante, più paradossale?
La cifra del nostro
asservimento è rappresentata dall’obbligo al trasformismo, dal
culto della nostra propria individualità e del capitale umano che
siamo diventati, un capitale che ci strappa dall’entusiasmante e
condiviso stimolo alla socializzazione e alla compartecipazione.
Rifiutare le trasformazioni neoliberali della società
significherebbe rimanere attaccati ai privilegi! Lottare contro
l’istituzionalizzazione di ingiustizie d’ordine nuovo
significherebbe appartenere al passato! Denunciare lo sfilacciarsi
delle grandi conquiste sociali significherebbe non essere
contemporanei! Rivoluzione è oggi la parola preferita di quanti sono
impegnati a ridurre metodicamente a brandelli le nostre vite con il
pretesto di dover accompagnare il movimento della storia: una storia
la cui (falsa) necessità viene da queste stesse persone presentata
come qualcosa di scontato, qualcosa di cui loro stessi si dicono
autori esclusivi. In realtà questa storia non è l'unica, e
quell’uso dell’immaginazione non è il nostro.
È, oggi, necessario e
urgente riappropriarsene. L'immaginazione e la rivoluzione non sono
quelle che voi ne avete fatto. Tanto per cominciare, la nostra
immaginazione ci porta ad affermare il nostro rifiuto a sottometterci
alla falsa alternativa tra rivoluzione neoliberale e conservatorismo
sociale. Il gioco di prestigio che consiste nel rovesciare i poli (il
neoliberismo come fattore inconfutabile di progresso e la critica al
neoliberismo come freno alla modernità) è qualcosa di osceno. È
proprio dove tutto è crollato, che dobbiamo inventare. Abbiamo
davvero bisogno di arrivare alla catastrofe per veder funzionare di
nuovo in maniera corretta l’immaginario del cambiamento? Non c’è
una risposta. Però è qui che, indubbiamente, comincia la
responsabilità politica. Siamo liberissimi di aspettare la
catastrofe. Ma siamo anche liberissimi di decidere che dall'attesa
del peggio non verranno mai buoni consigli, perché l’indignazione
non aspetta, perché l’immaginazione freme dentro ciascuno di noi e
s insinua nel complesso generale dei rapporti sociali: noi vogliamo
tentare di inventare qualcosa d'altro. Non a dispetto del mondo (non
vogliamo essere utopisti), né sulle sue rovine (non vogliamo essere
catastrofisti). Al contrario: dentro e contro ciò che è.
“Le Monde”,
25/1/2018, ora in Alfabeta materiali. Il '68 sociale politico
culturale Trad. M. Zaffarano.
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