7.6.19

Il '68 e le sue bandiere. Riappropriarsi della rivoluzione e dell'immaginazione (Judith Revel)



Anche se non sempre i francesi hanno buona memoria, ci sono formule che sopravvivono alla scomparsa degli eventi cui sono legate. E il caso dell’immaginazione al potere, enunciato-vessillo del ’68, ma anche dichiarazione di guerra - una guerra fatta di parole e di immagini, di gesti e di pratiche, di capelli improvvisamente lunghi e di desideri liberati, di indignazione di fronte all’ingiustificabile e di entusiastiche speranze, di voglia di libertà e di giustizia. Una guerra che odiava la guerra vera (quella del Vietnam - ma il ricordo della seconda guerra mondiale non era poi così lontano, e anche il conflitto in Algeria era terminato da pochissimo) e che si opponeva a tutte le forme di autorità: dei genitori sui figli, degli uomini sulle donne, del primo mondo sul secondo e sul terzo, della borghesia sulla classe operaia, della cultura “alta” sulle forme di espressione popolare, della Chiesa sui costumi, dello Stato sui cittadini, dell’università sui saperi, della famiglia sulle scelte personali. Parte dei giovani si levava contro una generazione che aveva permesso il regime di Vichy e la trasformazione di quella che era una sanguinosa difesa del mondo coloniale in una vera e propria guerra civile, da cui la Francia si stava a malapena rimettendo. Cambiamo il mondo, invadiamo le strade e le piazze! Noi uomini e donne di buona volontà, noi operai e studenti, noi immigrati e cittadini francesi, noi che non abbiamo chiesto di ereditare ciò di cui si sono resi responsabili quanti ci hanno preceduto! Si tratta di sperimentare nuove maniere di stare assieme, nuove modalità di vita.
Spesso gli eventi del ’68 vengono ridotti a una rivoluzione edonista e libertaria, centrata sul sesso e sull’arte e appannaggio di poche privilegiate migliaia di studenti parigini. In quegli eventi si potrebbero già intravedere le premesse di quell’individualismo liberale che rappresenta oggi il nostro orizzonte, in cui ognuno vuole far valere i propri desideri e il proprio piacere qui e subito, a scapito di tutti gli altri! Non c’è niente di più falso: il ’68, con la sua sete di sperimentazione antiautoritaria, con la sua volontà di destituire ogni potere senza volerne assumere nessuno, con la sua gioiosa voglia di inaugurare il mondo, non ha mai perso di vista il fatto che trasformare il reale è possibile soltanto se a farlo siamo tutti quanti assieme - attraverso sperimentazioni che, senza costringere le differenze a conformarsi a un unico modello, le potessero invece lasciare libere di essere ciò che erano. Occorreva costruire un mondo in cui le differenze riuscissero a coabitare senza che nessuna di esse potesse mai essere considerata superiore alle altre. Immaginazione al potere significava rifiuto del potere e voglia di un mondo comune costituito da ricche e preziose differenze, significava guerra agli autoritarismi, agli egoismi e ai tradizionalismi di ogni genere.
Il malessere di oggi non nasce dal perdersi della memoria. Il disagio nasce dalla constatazione che le stesse parole che avevano incarnato le speranze del ’68 (rivoluzione, immaginazione, trasformazione) sono passate a integrare il vocabolario di un neoliberismo smanioso di disciplinare le vite per rendere gli individui più produttivi e governabili. Sconcerta che l’immaginazione sia diventata la parola chiave di una melassa ideologica che ci vorrebbe tanto più docili quanto più utili, e viceversa. In realtà, oggi, la nostra utilità produttiva risiede nella nostra capacità di inventare. Diventata ormai un mantra delle imprese, l’immaginazione al potere è un’ingiunzione a trasformare se stessi in continuazione, a essere più creativi, più innovativi: a spiazzare il consumatore avido di novità, a schiacciare la concorrenza con l'innovazione, a catturare l’immaginario sociale e a brevettarlo (vale a dire privatizzarlo), per alimentare la febbrile rincorsa alla conversione in valore economico. “Sii inventivo o crepa”: è questa la nuova formula magica della selezione naturale all’epoca del neoliberismo. La guerra di tutti contro tutti è oggi una guerra dell’immaginazione: chi riuscirà a stupire di più? Chi riuscirà a essere più rapido, più imprevedibile, più stravagante, più paradossale?
La cifra del nostro asservimento è rappresentata dall’obbligo al trasformismo, dal culto della nostra propria individualità e del capitale umano che siamo diventati, un capitale che ci strappa dall’entusiasmante e condiviso stimolo alla socializzazione e alla compartecipazione. Rifiutare le trasformazioni neoliberali della società significherebbe rimanere attaccati ai privilegi! Lottare contro l’istituzionalizzazione di ingiustizie d’ordine nuovo significherebbe appartenere al passato! Denunciare lo sfilacciarsi delle grandi conquiste sociali significherebbe non essere contemporanei! Rivoluzione è oggi la parola preferita di quanti sono impegnati a ridurre metodicamente a brandelli le nostre vite con il pretesto di dover accompagnare il movimento della storia: una storia la cui (falsa) necessità viene da queste stesse persone presentata come qualcosa di scontato, qualcosa di cui loro stessi si dicono autori esclusivi. In realtà questa storia non è l'unica, e quell’uso dell’immaginazione non è il nostro.
È, oggi, necessario e urgente riappropriarsene. L'immaginazione e la rivoluzione non sono quelle che voi ne avete fatto. Tanto per cominciare, la nostra immaginazione ci porta ad affermare il nostro rifiuto a sottometterci alla falsa alternativa tra rivoluzione neoliberale e conservatorismo sociale. Il gioco di prestigio che consiste nel rovesciare i poli (il neoliberismo come fattore inconfutabile di progresso e la critica al neoliberismo come freno alla modernità) è qualcosa di osceno. È proprio dove tutto è crollato, che dobbiamo inventare. Abbiamo davvero bisogno di arrivare alla catastrofe per veder funzionare di nuovo in maniera corretta l’immaginario del cambiamento? Non c’è una risposta. Però è qui che, indubbiamente, comincia la responsabilità politica. Siamo liberissimi di aspettare la catastrofe. Ma siamo anche liberissimi di decidere che dall'attesa del peggio non verranno mai buoni consigli, perché l’indignazione non aspetta, perché l’immaginazione freme dentro ciascuno di noi e s insinua nel complesso generale dei rapporti sociali: noi vogliamo tentare di inventare qualcosa d'altro. Non a dispetto del mondo (non vogliamo essere utopisti), né sulle sue rovine (non vogliamo essere catastrofisti). Al contrario: dentro e contro ciò che è.

“Le Monde”, 25/1/2018, ora in Alfabeta materiali. Il '68 sociale politico culturale Trad. M. Zaffarano.

Nessun commento:

statistiche