Anzitutto io da bambino
non lo chiamavo uovo sbattuto, ma lo chiamavo «ovo duci duci», e mi
piaceva da matto. Prima di tutto bisogna farselo da sé, non farselo
servire. Se te lo fai da solo vedi via via il rosso montare, che
cambia colore e diventa sempre più bianco e sempre più fluido –
non liquido – e questa è una goduria alla sola idea.
Non mi piaceva mescolarlo
nel caffè, sì, è ottimo lo so, ma non è puro. Il cucchiaino
dritto era il segno che l’«ovo duci duci» era pronto. Dopodiché
riempivi il cucchiaio ma non lo mangiavi in una sola botta, era uno
sbaglio, lo mangiavi poco alla volta e poi alla fine la leccata e lo
rinfilavi dentro. Questa è una delle delizie dell’infanzia che
ricordo.
Naturalmente poi per i
siciliani ha tutto un altro senso.
Vitaliano Brancati, Don
Giovanni in Sicilia: «Cavaliere mio se mi mangio due uova
sbattuti fuoco e fiamme fazzu», ecco, il gallismo siculo con lo
zabaione si accorda benissimo.
Su questa memoria
dell’«ovo duci duci» ho scritto anche un racconto, perché va a
finire che con la vecchiaia si ha la cosiddetta «presbiopia della
memoria» e quindi le cose dell’infanzia ti ritornano presenti con
un’intensità che è dovuta al passaggio del tempo, alla
prospettiva del tempo: più lontane sono e più ti precipitano
addosso e riesci anche a percepirne le sensazioni, cosa che credevo
impossibile. Perché con l’età hai un certo ottundimento di alcune
sensazioni. Invece, i ricordi dell’infanzia davvero ti ritornano
con un nitore, una forza, una precisione incredibile.
Non sono ricordi
malinconici, mi diventano divertenti quando mi tornano e sono sempre
estremamente piacevoli, perché hanno un’intensità tale che la
malinconia non s’insinua.
D’altra parte nessuno
ti vieta di riprodurre la sensazione – anche se il mio medico se ne
risentirebbe come di un’offesa personale, se mi sbattessi due
tuorli d’uovo con lo zucchero, forse rischi la morte, anche se non
è vero perché rischi l’aumento di qualche analisi, ma poi stai
due anni senza e ti passa. Si può riprodurre la sensazione in
laboratorio, come ogni bravo esperimento scientifico.
Non c’è malinconia.
Malinconia non è «Malinconia, ninfa gentile, la vita mia consacro a
te», figuriamoci! La malinconia è una camurrìa che non finisce
mai, la malinconia è uno stato d’animo da malattia, infatti la
«melancolia» era una malattia.
l'Unità, 30 luglio 2010
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