5.6.19

Parigi 1935: il Congresso degli Scrittori per la difesa della cultura. Chi era il cane da guardia? (Nicola Tranfaglia)

Parigi, giugno 1935. La platea del Congresso degli scrittori

Poche occasioni come quella del Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, svoltosi a Parigi cinquant'anni fa, dal 21 al 25 giugno 1935 (su cui, a partire da domani, si discuterà per tre giorni a Roma in un convegno organizzato dal Centre Culturel Français, dal Goethe Institut e dall'Istituto Gramsci) appaiono oggi tanto esemplari per riflettere su problemi quali il rapporto tra intellettuali e potere, le somiglianze e le differenze tra lo stalinismo e le dittature di destra e così via. Pensiamo solo che quel congresso si aprì nel Palais de la Mutualitè all'indomani del patto di mutua assistenza tra Francia e Unione Sovietica e alla vigilia di quel settimo Congresso dell'Internazionale comunista che avrebbe consacrato la svolta nella direzione dei Fronti popolari e delle coalizioni unitarie contro il fascismo.
Framk, Erenburg, Barbusse e Nizan 
L'iniziativa partì da un gruppo di noti scrittori francesi antifascisti come Alain, Aragon, Barbusse, Bloch, Chamson, Crevel, Dabit, Gide, Giono, Guèhenno, Malraux, Moussinac, Nizan, Rolland; ma non c'è dubbio che in essa assunse un ruolo importante il russo Erenburg, con l'appoggio e l'incoraggiamento del governo sovietico. Parteciparono al Congresso più di duecento scrittori e critici provenienti da ben trentotto paesi; alcuni di loro erano tra i più grandi del secolo, da Thomas Mann a Robert Musil, da E.M. Forster a Aldous Huxley, da Julien Benda ad Andrè Malraux, da Boris Pasternak a Tristan Tzara, da Bertolt Brecht ad Ernst Bloch. Senza contare gli outsiders, come ad esempio lo storico italiano Gaetano Salvemini e il sociologo Georges Friedmann.
Il Palais de la Mutualité
Si discute fittamente per cinque giornate fino alla mezzanotte; ma la mozione finale è di una genericità sconcertante: si dà vita a un'associazione internazionale di scrittori per difendere la cultura dall'espansione del fenomeno fascista, si elegge il comitato di dodici membri che dovrà guidarla, e si accenna vagamente alla necessità di battersi "contro ogni minaccia che sia portata alla pace e alla civiltà".
In realtà, sia l'iniziativa in sè, sia i discorsi per molti aspetti divergenti che si pronunciano nel corso dei cinque giorni di lavori rivelano il groviglio di contraddizioni, di equivoci, di contrasti profondi che dividono i convenuti, l'ansia che domina tanto i comunisti quando i democratici davanti al consolidamento del potere nazista in Germania e di fronte a una prospettiva sempre più minacciosa di guerra. Fin dal primo giorno risulta chiaramente come convivano nel Congresso almeno due anime: quella di Erenburg, della delegazione sovietica, degli scrittori iscritti al Pcf o ad altri partiti comunisti, i quali vogliono fare della manifestazione un avvenimento emblematico della nuova alleanza tra l'Unione Sovietica e l'antifascismo europeo; e l'altra, rappresentata in modi diversi dai surrealisti come André Breton (il cui discorso sarà letto da Paul Eluard), che critica l'impostazione del Congresso; da liberali come Benda, che rifiuta la concezione comunista; da democratici come Salvemini, che solleva il caso clamoroso di Victor Serge, tenuto in carcere da Stalin. Una posizione a sé assume Brecht che, durissimo nei confronti degli scrittori "borghesi", non è d'accordo con la svolta frontista e cerca inutilmente di richiamare i congressisti a un'analisi che ponga al centro non le dispute astratte, ma le strutture economiche e sociali del mondo occidentale e di quello sovietico.
Pasternak (il terzo da sinistra) al Congresso degli scrittori
Rispetto al tema centrale cui il Congresso si intitola, risulta chiaramente che i delegati non accettano (o forse non ci riescono) di discuterne e di confrontarsi con omogeneità di tesi e di argomenti. C'è chi non può parlare, come Boris Pasternak che proprio Stalin ha inviato a Parigi e che si limita a pronunciare un elogio della poesia, con generiche valenze politiche: "La poesia rimarrà sempre uguale a se stessa, più alta di ogni Alpe d'altezza celebrata; essa giace nell' erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà troppo semplice perchè se ne possa discutere nelle assemblee...". E c' è chi come Forster, che sembra lontano più di tutti dall' atmosfera angosciata che l' avvento di Hitler ha suscitato in Europa, sottolinea le minacce cui gli intellettuali sono sottoposti anche nella democratica Inghilterra: "Lì, più che altrove, gli scrittori non possono scrivere liberamente di questioni sessuali...". Un' altra parte, piuttosto ampia, del Congresso è occupata dalle dispute interne alla cultura francese e alle scuole letterarie; ed è quella che, riletta oggi, appare più remota e meno interessante.
L'intervento di Gide
A ben vedere, le sorti dell'iniziativa non si giocano tanto negli interventi generici e imbarazzati delle grandi personalità chiamate a presiedere la sedute, come Andrè Gide e Andrè Malraux, quanto nei discorsi che affrontano da vicino il tema politico del Congresso. Uno tra i primi a farlo è sicuramente Julien Benda, l' autore, nel 27, del famosissimo Tradimento dei chierici. Benda ripete a Parigi le sue argomentazioni sulla differenza essenziale che passa tra la concezione comunista della cultura e quella occidentale di derivazione classica: la prima postula la dipendenza dell'attività letteraria dalla sfera economica, la seconda (che Benda preferisce) la nega. Gli rispondono in molti; ma è di particolare interesse la risposta di Paul Nizan, che tre anni prima ha pubblicato I cani da guardia, una requisitoria brillante e spietata contro gli intellettuali asserviti al potere nelle società capitalistiche. Nizan nega la distinzione introdotta da Benda, polemizza contro il mito di un "nuovo umanismo" avanzato da più parti e conclude con parole di esaltazione profetica, tipiche dell'uomo che nel 39, di fronte al patto Hitler-Stalin, abbandonerà il partito comunista e andrà a farsi ammazzare in guerra dai nazisti a Dunquerque: "In questo mondo, dove ciascuno di noi è preda della solitudine e della guerra, l'affermazione di valori comuni è possibile solo tra coloro che conducono una lotta comune... Verrà un'età nella quale gli uomini potranno accettare il loro destino... E forse parleranno di un umanismo della gioia. Noi, invece, ancor oggi noi parliamo soltanto di un umanismo limitato: limitato perché rifiuta il mondo e perché comporta l'odio; un umanesimo nel quale l'unico valore che preannunci l' avvenire è la fraternità volontaria di quanti si impegnano a trasformare la vita".
La risposta di Nizan (insieme a quella, cui abbiamo accennato, di Brecht) è l'espressione più chiara di quel mito della "patria socialista" che sarà al centro della strategia dei Fronti popolari e della resistenza contro il fascismo. Di fronte alla rivendicazione liberale dell'autonomia della cultura, il giovane si aggrappa alla speranza che il "mondo nuovo" costruito dalla rivoluzione bolscevica possa condurre non solo al superamento delle differenze di classe, ma anche alla fine dell'asservimento degli intellettuali al potere. Viene in mente, di fronte al discorso di Nizan, la scoperta che tanti (a cominciare da Andrè Gide) faranno negli anni successivi del "giro di vite" interno che Stalin attua contemporaneamente alla svolta frontista. Sarà proprio Gide, tornando da un soggiorno in Urss l'anno dopo, a scrivere che la "patria socialista" è il paese meno libero del mondo, che la dittatura c' è, ma è di Stalin e non del proletariato...
Il forum delle donne scrittrici
Nizan non cambierà idea fino al patto tra Hitler e Stalin; quando lo farà, i compagni di partito lo accuseranno di essere un "venduto" al servizio della polizia. Nella discussione sul tema centrale, si registra anche uno scontro tra esuli italiani: da una parte, Salvemini, dall'altra il comunista Ambrogio Donini. Lo storico pugliese non solleva soltanto il caso drammatico della prigionia dello scrittore rivoluzionario Victor Serge; allarga il discorso a un confronto diretto tra la situazione della cultura nei paesi fascisti e quella che esiste nell'Urss. "Non mi sentirei in diritto", dice Salvemini, "di protestare contro la Gestapo e l' Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania vi sono dei campi di concentramento, in Italia vi sono isole adibite a luoghi di pena, e nella Russia sovietica c'è la Siberia". La risposta del giovane Donini è almeno in parte elusiva. Donini parla degli Indifferenti di Moravia come specchio della crisi della società fascista in Italia, critica Salvemini per non aver accettato la candidatura socialista a Torino nel 1913, afferma che solo l'unione tra intellettuali proletari e contadini può sconfiggere il fascismo; ma non è in grado di rispondere all' interrogativo drammatico posto sia da Salvemini, sia - su un piano diverso - da Julien Benda.
Parigi 1935, Manifestazione degli Scrittori
Cinquant'anni dopo, la situazione non è cambiata in maniera apprezzabile. I condizionamenti che agiscono sugli intellettuali nella società capitalistica sono reali e preoccupanti, le divisioni di classe sopravvivono e a volte si accentuano; ma non sono paragonabili neppure di lontano allo "stato di polizia" che caratterizza ancora oggi la patria del "socialismo reale", costringendo gli intellettuali russi ad essere conformisti o "dissidenti". Chissà che il congresso organizzato a Roma per il cinquantenario di quello parigino non possa servire a far riflettere in termini nuovi su questo problema che gli anni Trenta ci hanno lasciato in eredità. Allora, proprio allora, caddero le speranze di tanti in una società che fosse insieme socialista e democratica. E nessuno rispose efficacemente ai dubbi sollevati da Salvemini e da tanti altri. Fu proprio Salvemini, del resto, a scrivere parole che mi sembrano oggi di grande attualità: "L'intellettuale deve lottare contro ogni ingiustizia sociale accanto alle classi sfruttate che lottano per conquistare l'eguaglianza economica; ma non deve riconoscere a nessuna dottrina il monopolio legale della verità".

“la Repubblica”, 15 maggio 1985

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