Parigi, giugno 1935. La platea del Congresso degli scrittori |
Poche occasioni come
quella del Congresso internazionale degli scrittori per la difesa
della cultura, svoltosi a Parigi cinquant'anni fa, dal 21 al 25
giugno 1935 (su cui, a partire da domani, si discuterà per tre
giorni a Roma in un convegno organizzato dal Centre Culturel
Français, dal Goethe Institut e dall'Istituto Gramsci) appaiono oggi
tanto esemplari per riflettere su problemi quali il rapporto tra
intellettuali e potere, le somiglianze e le differenze tra lo
stalinismo e le dittature di destra e così via. Pensiamo solo che
quel congresso si aprì nel Palais de la Mutualitè all'indomani del
patto di mutua assistenza tra Francia e Unione Sovietica e alla
vigilia di quel settimo Congresso dell'Internazionale comunista che
avrebbe consacrato la svolta nella direzione dei Fronti popolari e
delle coalizioni unitarie contro il fascismo.
Framk, Erenburg, Barbusse e Nizan |
L'iniziativa partì da un
gruppo di noti scrittori francesi antifascisti come Alain, Aragon,
Barbusse, Bloch, Chamson, Crevel, Dabit, Gide, Giono, Guèhenno,
Malraux, Moussinac, Nizan, Rolland; ma non c'è dubbio che in essa
assunse un ruolo importante il russo Erenburg, con l'appoggio e
l'incoraggiamento del governo sovietico. Parteciparono al Congresso
più di duecento scrittori e critici provenienti da ben trentotto
paesi; alcuni di loro erano tra i più grandi del secolo, da Thomas
Mann a Robert Musil, da E.M. Forster a Aldous Huxley, da Julien Benda
ad Andrè Malraux, da Boris Pasternak a Tristan Tzara, da Bertolt
Brecht ad Ernst Bloch. Senza contare gli outsiders, come ad
esempio lo storico italiano Gaetano Salvemini e il sociologo Georges
Friedmann.
Il Palais de la Mutualité |
In realtà, sia
l'iniziativa in sè, sia i discorsi per molti aspetti divergenti che
si pronunciano nel corso dei cinque giorni di lavori rivelano il
groviglio di contraddizioni, di equivoci, di contrasti profondi che
dividono i convenuti, l'ansia che domina tanto i comunisti quando i
democratici davanti al consolidamento del potere nazista in Germania
e di fronte a una prospettiva sempre più minacciosa di guerra. Fin
dal primo giorno risulta chiaramente come convivano nel Congresso
almeno due anime: quella di Erenburg, della delegazione sovietica,
degli scrittori iscritti al Pcf o ad altri partiti comunisti, i quali
vogliono fare della manifestazione un avvenimento emblematico della
nuova alleanza tra l'Unione Sovietica e l'antifascismo europeo; e
l'altra, rappresentata in modi diversi dai surrealisti come André
Breton (il cui discorso sarà letto da Paul Eluard), che critica
l'impostazione del Congresso; da liberali come Benda, che rifiuta la
concezione comunista; da democratici come Salvemini, che solleva il
caso clamoroso di Victor Serge, tenuto in carcere da Stalin. Una
posizione a sé assume Brecht che, durissimo nei confronti degli
scrittori "borghesi", non è d'accordo con la svolta
frontista e cerca inutilmente di richiamare i congressisti a
un'analisi che ponga al centro non le dispute astratte, ma le
strutture economiche e sociali del mondo occidentale e di quello
sovietico.
Pasternak (il terzo da sinistra) al Congresso degli scrittori |
Rispetto al tema centrale
cui il Congresso si intitola, risulta chiaramente che i delegati non
accettano (o forse non ci riescono) di discuterne e di confrontarsi
con omogeneità di tesi e di argomenti. C'è chi non può parlare,
come Boris Pasternak che proprio Stalin ha inviato a Parigi e che si
limita a pronunciare un elogio della poesia, con generiche valenze
politiche: "La poesia rimarrà sempre uguale a se stessa, più
alta di ogni Alpe d'altezza celebrata; essa giace nell' erba, sotto i
nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e
raccoglierla da terra; essa sarà troppo semplice perchè se ne possa
discutere nelle assemblee...". E c' è chi come Forster, che
sembra lontano più di tutti dall' atmosfera angosciata che l'
avvento di Hitler ha suscitato in Europa, sottolinea le minacce cui
gli intellettuali sono sottoposti anche nella democratica
Inghilterra: "Lì, più che altrove, gli scrittori non possono
scrivere liberamente di questioni sessuali...". Un' altra parte,
piuttosto ampia, del Congresso è occupata dalle dispute interne alla
cultura francese e alle scuole letterarie; ed è quella che, riletta
oggi, appare più remota e meno interessante.
L'intervento di Gide |
A ben vedere, le sorti
dell'iniziativa non si giocano tanto negli interventi generici e
imbarazzati delle grandi personalità chiamate a presiedere la
sedute, come Andrè Gide e Andrè Malraux, quanto nei discorsi che
affrontano da vicino il tema politico del Congresso. Uno tra i primi
a farlo è sicuramente Julien Benda, l' autore, nel 27, del
famosissimo Tradimento dei chierici. Benda ripete a Parigi le
sue argomentazioni sulla differenza essenziale che passa tra la
concezione comunista della cultura e quella occidentale di
derivazione classica: la prima postula la dipendenza dell'attività
letteraria dalla sfera economica, la seconda (che Benda preferisce)
la nega. Gli rispondono in molti; ma è di particolare interesse la
risposta di Paul Nizan, che tre anni prima ha pubblicato I cani da
guardia, una requisitoria brillante e spietata contro gli
intellettuali asserviti al potere nelle società capitalistiche.
Nizan nega la distinzione introdotta da Benda, polemizza contro il
mito di un "nuovo umanismo" avanzato da più parti e
conclude con parole di esaltazione profetica, tipiche dell'uomo che
nel 39, di fronte al patto Hitler-Stalin, abbandonerà il partito
comunista e andrà a farsi ammazzare in guerra dai nazisti a
Dunquerque: "In questo mondo, dove ciascuno di noi è preda
della solitudine e della guerra, l'affermazione di valori comuni è
possibile solo tra coloro che conducono una lotta comune... Verrà
un'età nella quale gli uomini potranno accettare il loro destino...
E forse parleranno di un umanismo della gioia. Noi, invece, ancor
oggi noi parliamo soltanto di un umanismo limitato: limitato perché
rifiuta il mondo e perché comporta l'odio; un umanesimo nel quale
l'unico valore che preannunci l' avvenire è la fraternità
volontaria di quanti si impegnano a trasformare la vita".
La risposta di Nizan (insieme a quella, cui abbiamo accennato, di Brecht) è l'espressione più chiara di quel mito della "patria socialista" che sarà al centro della strategia dei Fronti popolari e della resistenza contro il fascismo. Di fronte alla rivendicazione liberale dell'autonomia della cultura, il giovane si aggrappa alla speranza che il "mondo nuovo" costruito dalla rivoluzione bolscevica possa condurre non solo al superamento delle differenze di classe, ma anche alla fine dell'asservimento degli intellettuali al potere. Viene in mente, di fronte al discorso di Nizan, la scoperta che tanti (a cominciare da Andrè Gide) faranno negli anni successivi del "giro di vite" interno che Stalin attua contemporaneamente alla svolta frontista. Sarà proprio Gide, tornando da un soggiorno in Urss l'anno dopo, a scrivere che la "patria socialista" è il paese meno libero del mondo, che la dittatura c' è, ma è di Stalin e non del proletariato...
La risposta di Nizan (insieme a quella, cui abbiamo accennato, di Brecht) è l'espressione più chiara di quel mito della "patria socialista" che sarà al centro della strategia dei Fronti popolari e della resistenza contro il fascismo. Di fronte alla rivendicazione liberale dell'autonomia della cultura, il giovane si aggrappa alla speranza che il "mondo nuovo" costruito dalla rivoluzione bolscevica possa condurre non solo al superamento delle differenze di classe, ma anche alla fine dell'asservimento degli intellettuali al potere. Viene in mente, di fronte al discorso di Nizan, la scoperta che tanti (a cominciare da Andrè Gide) faranno negli anni successivi del "giro di vite" interno che Stalin attua contemporaneamente alla svolta frontista. Sarà proprio Gide, tornando da un soggiorno in Urss l'anno dopo, a scrivere che la "patria socialista" è il paese meno libero del mondo, che la dittatura c' è, ma è di Stalin e non del proletariato...
Il forum delle donne scrittrici |
Parigi 1935, Manifestazione degli Scrittori |
“la Repubblica”, 15
maggio 1985
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