Machiavelli pensa la
politica a partire dall’esperienza concreta, e dall’esigenza, del
resto ovvia, che l’agire politico sia efficace. Quindi la politica
deve obbedire alle esigenze interne alla «cosa stessa», alla logica
del successo, della sopravvivenza e dell’accrescimento della
potenza, e non può affidarsi a precetti morali astratti, a priori.
Machiavelli pensa in una fase storica in cui da tempo il rapporto fra
religione e politica non è più vitale – di lì a poco quel
rapporto diventerà mortale, sarà la causa delle guerre civili di
religione in Europa, che nondimeno egli non fece in tempo a vedere –.
Una fase storica in cui la politica si carica di intensità, di
autonomia, di rischiosità (quel rischio che egli definisce
«fortuna»).
C’è tuttavia in lui,
oltre al realismo di chi cerca di conoscere e padroneggiare ciò che
«è» – ossia i concreti rapporti di potere, i conflitti, le
occasioni per difendersi e per offendere –, anche una sorta di
realismo del «dover essere»: l’agire politico non può esporsi al
disprezzo e all’odio di chi nella politica è comunque coinvolto,
cioè del popolo. Una sorta di «consenso», di condivisione di
ideali e di interessi, fra élites e popolo, è sempre richiesto;
perché l’agire politico sia vitale e condiviso deve essere
concreto, adattarsi alle circostanze, essere iscrivibile in un senso
comune, produrre egemonia. La politica non è solo tecnica del
potere; o meglio, il potere non è solo tecnica: è accortezza e
forza (volpe e leone), è agire efficace condiviso, è prassi comune.
Il principe non è un profeta disarmato che crede che gli Stati si
governino con i Paternostri, ma non è neppure un tiranno avido e
crudele: anzi dà le armi al popolo; la repubblica, poi, vive del
conflitto (non totale, ma neppure del tutto neutralizzato) fra le
parti sociali per la conquista del potere.
Insomma, il pensiero di
Machiavelli non consiste in un manuale di consigli (malvagi) ai
potenti, come pure fu interpretato per secoli: sarebbe una sorta di
moralismo rovesciato, un’astrazione di segno diverso. Consiste
piuttosto nella scoperta della forza e della rischiosità della
politica, della sua necessità (non ne possiamo fare a meno) e della
sua aleatorietà (è un territorio sempre insidioso, non sorretto da
alcuna configurazione etica trascendente, né da alcun ordine
razionale). È, questa, una scoperta paragonabile a quella, più o
meno coeva, dell’America, di un nuovo mondo.
Tutto ciò è assai
lontano non solo dal modo tradizionale di pensare la politica come
parte di un’etica religiosamente fondata, ma anche dalla modalità
con cui il pensiero moderno mainstream pensa la politica: cioè come
contrapposizione fra individuo privato, dotato di diritti morali ed
economici, da una parte, e potere pubblico dall’altra. Questa
modalità ha avuto una valenza critica verso il potere assoluto, ma
più spesso è ormai solo lo strumento della delegittimazione
radicale fra avversari. Al contrario, il pensiero di Machiavelli non
è individualistico, né moralistico, e neppure economicistico: non
si fonda, insomma, su diritti dei singoli, delle persone, da
rispettare, da implementare e da difendere rispetto allo Stato. E non
prevede neppure la costruzione dello Stato attraverso un contratto
razionale che coinvolga tutti i cittadini in vista di un bene comune
– la pace, in cui i singoli possano perseguire i propri fini,
soprattutto economici, sotto la protezione della legge –. La
proprietà, la legalità, il singolo, hanno certamente un posto nel
suo pensiero: non li si può violare con leggerezza, li si deve
rispettare quando si può, ma la politica non si riduce alla loro
affermazione e alla loro difesa: è molto di più. È energia, è
determinazione – decisa, e tuttavia sempre incerta – di un
destino collettivo; è partecipazione libera alla vita collettiva, ai
suoi conflitti di potere, alle sue aspre necessità, alle sue glorie
mondane.
Sta qui l’intrinseca
moralità della politica. La politica è morale non perché debba
rispettare alcuni principi ad essa esterni o superiori, ma perché è
principio di se stessa, dovere a se stessa. Non perché si inchina
alla trascendenza ma perché prende sul serio l’immanenza. Non
perché nasce dai diritti e dalla volontà dei singoli, ma perché
l’uomo raggiunge la propria pienezza solo se vive la politica, se
vive civicamente; altrimenti è un uomo «privato», diminuito. Oggi
diremmo «alienato». Il privato è un uomo dimezzato sia che conduca
una vita sociale pensando solo al denaro e alla ricchezza; sia che
voglia condurre la vita seguendo la morale religiosa, astratta,
perché ciò può avvenire solo se si ritira in convento. Lo schema
che contrappone i diritti individuali al potere politico, o la morale
alla politica, non fa parte del pensiero di Machiavelli, che si
costruisce piuttosto intorno allo schema inerzia-energia,
privato-civile.
La grandissima nuova
attenzione a Machiavelli, che oggi si constata, significa che si
sente un nuovo bisogno di politica. Di una politica che, certo,
ripristini il rispetto per l’uomo e per i suoi diritti (che per
noi, a differenza che per Machiavelli, sono primari, e che sono
spesso violati benché tutto il mondo occidentale li ponga a proprio
fondamento), e che li ripristini proprio attraverso la critica della
riduzione della politica ad ancella dell’economia, o della morale;
attraverso, cioè, la ripresa di una politica attiva, energica,
partecipata, non individualistica, economicistica o moralistica. Di
una politica, quindi, che non sia solo «richiesta» di diritti, ma
che sappia essere «conquista» di una più piena umanità. Insomma,
oggi una decente democrazia si conquista grazie alla politica, più
che con il ricorso alla morale – fin troppo utilizzata, da tutti,
come mezzo di lotta politica –, e certo ben più che con il dominio
sfrenato dell’attività economica privata. Cioè grazie alla lotta,
alla partecipazione, alla serietà spregiudicata ma non arbitraria,
che Machiavelli individua come essenza della politica. A differenza
di quanto credeva don Ferrante, il Segretario fiorentino non è
«mariuolo, ma profondo»; piuttosto, è «realista, ma umano». Per
questo oggi il suo lascito non è più oggetto di critica
scandalizzata, e anzi entra a far parte di ogni pensiero veramente
critico.
Nella rivista «formiche»,
n. 147, maggio 2019
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