Tra l'indifferenza dei
lettori che da anni disertavano la forte moralità della sua
eloquenza stilistica e la quasi smodata cultura letteraria, politica,
storica delle sue pagine, Riccardo Bacchelli se ne è andato,
concludendo in un ospedale di Monza la sua lenta e lunga agonia. È
stato, il grande vecchio, un malato imbarazzante: per
l'amministrazione del Comune di Milano, che generosamente lo aveva
per anni ospitato a proprie spese in una clinica cittadina; per i
legislatori, i quali sul suo "caso" avevano finalmente,
varato, tra polemiche che ancora si trascinano, una civile legge
assistenziale a favore di chi, avendo meritoriamente operato per la
nostra cultura, venga a trovarsi, in tarda età, impedito e
indigente; per gli amici anche intimi, che negli ultimi tempi
desistevano dal fargli visita per l'afflizione di dover riconoscere,
nella muta, cieca ma ancora maestosa corporalità dello scrittore,
del tutto arresa ormai alla vecchiaia, il già imprevedibile compagno
di festosi e illuminanti colloqui.
Il fiume Bacchelli, un
fiume di oltre diciottomila pagine in prosa di romanzi, commedie,
saggi e in versi (la bibliografia di Maurizio Vitale per i soli anni
1909-1961 si stende su 150 pagine) è naturalmente giunto alla sua
foce e si disperde nel mare infido della memoria delle generazioni.
Il grande tavolo nello studio di via Borgonuovo è da molti anni
privo del suo protagonista, della prodigiosa manualità dello
scrittore.
L'ultima volta che lo
vidi al lavoro, in quella stanza silenziosa e luminosa, disadorna di
libri (li aveva tutti regalati alla Biblioteca comunale), ma ben
fornita di enciclopedie e di vocabolari, Bacchelli, in giacca da
camera sotto la quale spiccava una camicia a largo collo con la ben
annodata cravatta a farfalla, scriveva, come da sempre usava, su di
un grande foglio protocollo rigato, lasciando un ampio margine
laterale. Scriveva con la mai smessa cannuccia d'argento e con uno
dei suoi leggendari pennini inglesi marca Perry: ne aveva una grossa
riserva regalatagli da un anonimo lettore, il quale aveva appreso, da
un suo elzeviro, della difficoltà che incontrava nel procurarseli.
"Ne ho per una ventina di libri", diceva; e senza esagerare
nel computo e nel programma, lui che di libri fin da giovane era
abituato a scriverne due o tre all'anno. "Anche il Manzoni",
mi ripetè in quella occasione, asciugando col tampone il foglio
appena scritto, "ricorreva a grandi margini laterali. Piegava il
foglio in due e scriveva sul lato sinistro della piegatura; a destra,
spesso senza cancellare l'originale, riscriveva, correggendoli,
periodi e frasi". E inarcando ancor più i suoi sopraccigli a
virgola e già innescando una risata, aggiunse: "E quello
sciocco del Visconti, curando l'edizione del Fermo e Lucia,
non se ne accorse: stampò, insieme, l'originale e le correzioni!".
Sorprendente, nella sua
conversazione, era una immedesimazione nel tempo e nei luoghi della
sua cultura: riferiva del Leopardi e del Tommaseo (uno "schiavone"
che un po' detestava) come se li avesse visti e ascoltati la sera
prima al ristorante. Nella clinica di via Lamarmora, dove mi ero
adoprato per farlo ospitare, ancora riusciva a colloquiare senza
amnesie, con felici spigolature nella memoria delle sue letture:
ancora lo visitavano fantasmi di personaggi, tanto che più volte lo
sorpresi a dettare alla moglie Ada ("la più devota e santa
delle donne") frasi di favole e fantasticherie. Gradiva qualche
bottiglia di vino e gli alberi di Natale fatti di pane cotto che gli
portavo per quella festività; e molto teneva ad assicurarmi che la
clinica disponeva di un ottimo cuoco, mentre degustava soddisfatto le
smorte e obbligate pappine, le patate lesse, la pallida frutta cotta.
Raramente e con pudore accennava a ciò che aveva dettato alla
moglie, più volentieri parlava della sua esperienza di narratore,
ribadendo che i buoni soggetti per un romanzo non sono mai quelli
belli per se stessi, ma quelli che nascono "a frusto a frusto, a
parola per parola, e quasi costretti a nascere". Mangiava a quel
suo desco di malato con la stessa gratitudine di quando si sedeva ad
una tavola ben imbandita, rammentandomi, tuttavia, che mai era stato,
come gli amici sostenevano, un forte mangiatore; una pura leggenda
nata dal fatto - spiegava - che quando a Milano, negli anni Trenta,
scriveva il Mulino, restando diciotto ore di fila seduto alla
scrivania e sorbendo solo caffè tra le molte sigarette arrotolate a
mano, di necessità la sera, al Bagutta, doveva riassumere in uno
solo i suoi dovuti tre pasti quotidiani.
Fin quando la malattia
gli ha concesso di ordinare ed esprimere pensieri, Bacchelli, negli
ultimi tempi, accennava con frequenza a sue meditazioni spirituali.
Quasi dimentico di ogni trascorsa gloria mondana e letteraria, pareva
dialogare ormai solo con l'eterno e con intatta passione di capire e
di spiegare. Non lo interessava più la parola già usata per
confutare il Progresso, "la maggior menzogna della storia
umana", perché fatto "di crudeltà che corrompe e di
corruzione che incrudelisce", non più la parola con cui nei
romanzi aveva rincorso l'inafferrabile verità della vita, ma la
parola che meditava sul tempo che dimostra l'eterno, che aggiunge
mistero a mistero, giacché, concludeva, "il mondo prova ed
esige Dio".
L'ultima volta che lo
andai a visitare fece perfino fatica a riconoscermi: mi scambiò per
il pittore Novello, e poi se ne scusò imbarazzato. Andarlo a trovare
era aggiungere una pena alla sua pena di liberarsi così
faticosamente dalla sua lunga ed operosa vita. Da anni, è certo, i
lettori lo hanno dimenticato; altrettanto è certo che le generazioni
a venire, se ancora faranno oggetto di studio la letteratura,
dovranno riconoscere nelle pagine de Il mulino del Po, in
questo suo gran romanzo sulla gente semplice vinta dalla Storia, uno
dei capisaldi della nostra narrativa del secolo. E la sbalorditiva
vitalità di Bacchelli, come scrisse Gianfranco Contini, apparirà
davvero cosa d'altri tempi, "da comparare nel nostro secolo solo
a quella, nell'ambito speculativo e storico, del Croce".
"la Repubblica", 9 ottobre 1985
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