Il Cicerone dei Musei capitolini |
Nel
192 d.C., lo storico Cassio Dione, seduto in prima fila fra i
senatori durante uno spettacolo nel Colosseo, riuscì a stento a
trattenere il riso. L’imperatore Commodo, nell’arena, ghignando
mostrava ai senatori una testa mozzata di struzzo, come per
avvertirli che avrebbe fatto lo stesso con loro. Ridere allora
avrebbe significato morire, così Dione strappò le foglie d’alloro
della sua corona e si mise a masticarle per nascondere l’ilarità.
Oggi ci si morde le labbra, o si mette in bocca una caramella.
In
Ridere nell’antica Roma (Carocci), la storica Mary Beard
spiega che furono i Romani a elaborare il concetto di spirito
umoristico come «sale» del discorso, legandolo alla sfera del
convivio. Cicerone fu un prolifico autore di facezie. Vedendo il
genero Lentulo, un piccoletto, armato di una lunga spada, disse: «Chi
ha legato mio genero alla sua spada?». Quando, al processo contro
Milone, gli fu chiesto di specificare a che ora era morto Clodio,
replicò con una sola parola: sero (tardi/troppo tardi). E
quando, durante la guerra civile, dopo aver a lungo vacillato
politicamente, giunse nell’accampamento di Pompeo, gli fu detto:
«Sei arrivato un po’ tardi». «Non sono in ritardo – replicò
Cicerone —. Vedo che non c’è nulla di pronto per cena».
Quintiliano ammette che alcuni degli espedienti cui l’oratore
ricorreva erano pericolosamente vicini a quelli del mimo o
addirittura dello scurra, il buffone politicamente scorretto, l’
alter ego dell’aristocratico uomo di spirito.
Il
tiranno è da sempre dipinto come colui che deride per umiliare. Si
dice dell’imperatore Eliogabalo che a teatro ridesse tanto forte da
coprire la voce degli attori. Aveva anche l’abitudine di invitare a
cena otto calvi, oppure otto guerci, o otto sordi o otto uomini dalla
pelle scura o otto uomini alti – o otto grassi, per suscitare il
riso di tutti, dato che non entravano sullo stesso divano. I suoi
amici meno importanti li faceva sedere su cuscini pieni d’aria, e
li faceva sgonfiare mentre quelli cenavano, così che si ritrovavano
d’improvviso sotto il tavolo nel bel mezzo del pasto. Caligola
invece, ai consoli che gli domandavano il motivo di una fragorosa
risata, aveva risposto: «Solo l’idea che a un mio cenno potrei
farvi sgozzare all’istante».
Lo
sbeffeggio si rivolgeva però anche contro il potere. Giulio Cesare
veniva deriso per la sua calvizie e pare si pettinasse con il
«riporto» o sistemasse ad arte la corona d’alloro per
nasconderla, mentre Domiziano (il «Nerone calvo») s’infuriava se
qualcuno osava parlare della sua pelata. Sotto Augusto, invece, era
giunto a Roma un sosia dell’imperatore, che attirava gli sguardi.
Augusto gli chiese: «Dimmi, giovanotto, tua madre è mai stata a
Roma?». «No», disse quello. Ma aggiunse: «Però mio padre sì,
spesso». Il princeps, che amava le arguzie, incassò il
colpo. Un aneddoto narra di un Gallo di umili origini che rise in
faccia a Caligola, che dava responsi vestito da Giove. Caligola gli
domandò: «Come ti sembro?». E l’uomo: «Come un vero idiota».
Ma restò impunito: per l’imperatore era più facile sopportare la
franchezza della gente comune rispetto a quella dei nobili. Lo
schiavo o il provinciale che rideva del padrone sovvertiva
momentaneamente i rapporti di potere, ma in realtà serviva a
legittimarli.
Anche
le donne potevano fare battute. Di Giulia, la figlia di Augusto, si
ricorda la risposta a chi si stupiva della somiglianza dei suoi figli
al marito Agrippa, nonostante concedesse il suo corpo a Tizio, Caio e
Sempronio: «Non prendo mai a bordo un passeggero se non quando la
stiva è piena».
Una
raccolta di epoca imperiale, il Philogelos o «Amante del riso»,
tramanda 265 facezie, spesso con protagonisti un professore svitato,
in trio con un barbiere e un pelato, un po’ come le nostre freddure
su un inglese, un francese e un italiano. Un barbiere chiacchierone
domanda a un tipo arguto: «Come vuoi che ti tagli i capelli?». «In
silenzio», è la risposta. Un erudito, durante la festa per il
millennio di Roma (21 aprile 248 d.C.), vede un atleta sconfitto che
piange e per consolarlo gli dice: «Non preoccuparti, ai giochi del
prossimo millennio vincerai tu». Quella dell’uomo di Abdera che
vede un corridore sulla croce e dice: «Non corre più, vola!», ci
lascia freddi e un po’ a disagio. Ma l’idea che il riso è un
bene trasportabile e vendibile anche dopo secoli è la prova, secondo
Mary Beard, che i Romani furono gli inventori della barzelletta, una
delle più importanti conquiste per la storia dell’Occidente. Ponti
e strade, al confronto, sono ben poco.
La
Lettura – Corriere della sera, 27 novembre 2016
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