Articolo su un caso accaduto all'inizio del mese, quello del dossier raccolto dal ministro di polizia su tre magistrate toscane. Caso gravissimo, a mio avviso, e intorno al quale continua ad esserci troppo silenzio. (S.L.L.)
Giugno 1925: Alfredo
Rocco, intervenendo alla Camera dei deputati sulle vicende
dell’ordine giudiziario, era stato chiaro: «La magistratura non
deve fare politica di nessun genere. Non voglio che faccia politica
governativa o fascista, ma esigo fermamente che non faccia politica
antigovernativa o antifascista»; e in seguito avrebbe bollato i
magistrati non allineati come appartenenti a una «insignificante
minoranza di politicanti».
L’artefice dello Stato
totalitario aveva colto il cuore del problema: non era necessario che
i magistrati manifestassero apertamente il loro sostegno al governo
fascista, bastava semplicemente che applicassero le nuove leggi,
quella di Pubblica Sicurezza e i codici penali in particolare, varate
al posto di quelle dello Stato liberale: il risultato, per il regime,
sarebbe stato assicurato e, se qualcuno si fosse dimostrato incerto,
il ministro lo avrebbe prontamente rimesso sulla retta via, inviando
apposite circolari.
Così è stato e con quei
magistrati funzionari si è proceduto per venti anni (e oltre).
Giugno 2019: il «governo
del cambiamento» vara una serie di norme repressive in funzione
antimigranti. Il ministro dell’Interno, che su quelle ha costruito
il proprio consenso, si accorge che tre giudici, per giunta donne,
hanno interpretato alcune norme in modo difforme dai suoi desiderata.
Irritato, non contesta con argomenti il merito delle decisioni;
indossa invece i panni del ministro della Giustizia – un’invasione
di competenza già verificatasi in passato in ambiti diversi –
raccoglie una serie di informazioni sulle magistrate interessate e le
attacca pubblicamente.
Per cominciare, le
giudica faziose, precisando subito che appartengano a una
insignificante minoranza (le contrappone «al 99% dei giudici che
lavorano obiettivamente»), poi le accusa di aver assunto «posizioni
in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza,
accoglienza (!) e difesa dei confini», quindi si rivolge
all’«Avvocatura dello Stato [perché] valuti se i magistrati che
hanno emesso le sentenze avrebbero dovuto astenersi», poiché gli
stessi in precedenza avevano mantenuto «rapporti di collaborazione o
vicinanza con riviste sensibili al tema degli stranieri o con gli
avvocati dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione».
Continuando nella sua recita mediatica, Salvini spiega poi, su Canale
5, che per lui era «doveroso segnalare quei pochissimi magistrati
che utilizzano la toga per fare politica non applicando le leggi
approvate dal parlamento».
Alcune considerazioni.
Si può innanzitutto
osservare che la raccolta di informazioni sui giudici (a quali
convegni pubblici partecipino, su quali riviste scrivano, ecc.)
ordinata da un ministro era una prassi illiberale diffusa nel secolo
scorso, sopravvissuta al regime fascista, utilizzata in seguito dal
Sid e che ora inopinatamente riappare proprio a opera del governo del
cambiamento.
Va poi sottolineato che
non spetta a un ministro incompetente – tale è infatti quello
dell’interno – minacciare gli autori di quelle sentenze di
un’azione disciplinare per «mancata astensione», veicolando in
tal modo un messaggio intimidatorio rivolto a tutti quei magistrati
che intendono applicare la legge in coerenza con i principi della
Costituzione.
Perché questo è il
punto. Ed è grave dover ricordare al ministro e ai suoi modesti
replicanti televisivi, che oggi in Italia, a differenza del 1925,
oltre alle leggi ordinarie esiste una legge di grado superiore, la
Carta del 1948; che le norme varate dal parlamento sono interpretate
da giudici indipendenti, che non sono più, come allora, dei
funzionari subordinati all’esecutivo; che la legge, per poter
essere applicata, deve essere interpretata, se possibile, in modo
conforme ai principi costituzionali di riferimento, mentre, in caso
di contrasto, va ritenuta illegittima e la Corte, investita della
relativa eccezione, può in ogni tempo espungerla dall’ordinamento.
Come si vede la politica
non c’entra. In primo piano vi sono invece i principi cardine dello
Stato di diritto, l’attualità della Costituzione, la divisione dei
poteri, la separazione tra governo, parlamento e magistratura in un
tempo in cui i giudici non sono più funzionari dipendenti. Principi
che Salvini dimostra di ignorare e che evidentemente non stanno a
cuore del ministro della Giustizia in carica, nell’occasione
distratto e assente.
Si tratta dunque di
questioni complesse e delicate, che investono i rapporti tra i poteri
dello Stato e che non possono essere risolte a colpi di tweet, né
possono essere liquidate con slogan e battute varie,
nell’indifferenza generale. Come invece fa il «Corriere della
sera» che, il 7 giugno, a tutta pagina, ha definito l’intera
vicenda come una semplice «lite tra le magistrate e Salvini».
Una formula d’uso,
questa, per confondere le acque, non prendere posizione, agevolare di
fatto il manovratore. Nel solco, comunque, della tradizione dei
liberali di casa nostra.
dal sito de”Il Ponte”,
pubblicato il10 Giugno 2019
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