ROMA
«Novecento è
nato qui». Bernardo Bertolucci allunga le braccia verso il grande
salotto, come potesse toccare i ricordi e le pareti fossero
impregnate delle conversazioni con il fratello Giuseppe e l’amico
Kim Arcalli. Dalla casa studio del regista a Trastevere prese vita un
progetto epico. Tre anni di lavorazione, cinque ore di film per
raccontare mezzo secolo di storia d’Italia tra lotta di classe e
sentimenti. Novecento monopolizzò il Festival di Cannes, nel
maggio di 40 anni fa. «Partimmo da un’idea semplice. Nel 1900
nascono due bambini: il figlio dei padroni e quello dei contadini. Si
chiamano Alfredo, in omaggio alla Traviata, e Olmo, in omaggio
agli alberi sterminati in quell’epoca da una grave malattia».
Il film si apre con la
morte di Verdi ed è concepito in due atti, come un’opera.
«Abbiamo pensato di
contenere tutto il periodo che va dal 1900 al 1945 nel giorno della
Liberazione, il 25 aprile. Il tempo dei contadini è scandito dalle
stagioni. Così pensammo a una grande estate per l’infanzia. Poi i
protagonisti crescono ed è autunno. Arriva il fascismo, l’inverno,
il film si fa dark con i personaggi di Attila, Donald Sutherland e
Regina, Laura Betti, che sono due veri mostri».
Per i due patriarchi, il
nonno contadino e il nonno padrone, scelse Sterling Hayden e Burt
Lancaster.
«Sterling, lo ricordavo
in Giungla d’Asfalto e nel Dottor Stranamore, arrivò
da Roma a Parma su una vecchissima moto Triumph. Prima di ogni ciak
lo trovavamo sdraiato sotto qualche albero a farsi una canna. La sera
in cui doveva incontrare Lancaster, Sterling era nervosissimo. Beveva
vodka e rimetteva in continuazione lo stesso brano di Barry White &
Love Unlimited. “Tremo all’idea di incontrare Lancaster, è un
uomo tutto d’un pezzo, troppo per bene, per me” insisteva lui.
Burt Lancaster mi regalò la sua interpretazione, recitò gratis:
“Dopo questo film voglio andare in Tibet in una grotta a imparare
il buddismo” mi confessò».
Poi è il momento di
DeNiro e Depardieu.
«Quando ho concepito il
film pensavo sarebbe stato un ponte tra Unione Sovietica e Stati
Uniti. Dopo il successo di Ultimo Tango avevo un po’
sbarellato, con qualche scivolata nella megalomania. Pensavo di poter
fare ciò che volevo io, pensavo che il cinema potesse cambiare il
mondo. Volevo un attore sovietico per Olmo, ma rifiutai di sottoporre
la sceneggiatura ai russi e ripiegai sul giovanissimo Depardieu. Per
il ruolo di Alfredo andai a Los Angeles, incontrai Robert DeNiro e
Harvey Keitel, scelsi Bob per il suo aspetto più borghese. DeNiro a
New York mi portò a un concerto di Bob Dylan e in taxi litigò con
l’autista sull’itinerario: “Gira di là, non fare il furbo,
guarda che ho fatto il tassista per tre mesi”, diceva. Era reduce
da Taxi Driver ».
Novecento fu anche
una risposta al pessimismo antropologico di Pasolini.
«Pier Paolo con i suoi
saggi raccontava la trasformazione sociologica e culturale
dell’Italia, da paese contadino a consumistico. Volevo mostrargli
che quell’innocenza contadina che lui riteneva sparita c’era
ancora. Che i contadini emiliani erano riusciti a preservare, grazie
al socialismo, la loro identità culturale. E poi volevo raccontare
la grande utopia, la rivoluzione contadina. Novecento,
distribuito da tre major americane, avrebbe portato negli Usa questo
messaggio socialista. Invece la Paramount lo boicottò. Il presidente
dichiarò: “Ci sono troppe bandiere rosse”».
In Italia quali scene
vollero censurare?
«L’unica che mi
chiesero di accorciare fu quella in cui la prostituta epilettica,
Stefania Casini, è a letto tra DeNiro e Depardieu e prende in mano i
loro membri. Ma io li ho imbrogliati, accorciando i fotogrammi ma
prima che la cosa avvenisse. Così quel momento è rimasto nel film».
Il film è anche un
omaggio alla sua infanzia tra i contadini, al mondo raccontato nelle
poesie di suo padre Attilio.
«Fino a 12 anni ho
abitato in campagna a casa di mio nonno. Accanto c’era la casa dei
contadini, il civile e il rustico. Trascorrevo le giornate in questa
grande famiglia. Era come se mi sentissi in debito con loro».
Fu con loro che lei
scoprì la parola comunista.
«Durante la raccolta dei
pomodori passa un camioncino con l’altoparlante: “Domani sciopero
generale per la morte di Attila Alberti, ucciso barbaramente dalla
celere di Scelba”. “Chi è?”, chiedo. La Nella si gira e mi
dice: “Un comunista”. Poi mi racconta che ci sarebbe stata la
rivoluzione, avrebbero appeso tutti i padroni ai rami degli alberi.
“Anch’io?”, “No tu ti salvi perché sei un comunista” ».
Il Pci fu critico sulla
scena del processo “cinese”.
«Fu penoso, per me.
Volevo dedicare il film a Berlinguer. Invito il Pci alla proiezione.
A metà film Pajetta è entusiasta, ma alla fine mi dice: “La
seconda parte è un falso storico. Non c’è mai stato un processo
ai padroni”. Mi è crollato tutto addosso. Rispondo: “Certo, il
processo non c’è mai stato, ma questo è un film, è finzione, e
racconta una grande utopia”. Ci voleva uno sguardo sofisticato per
capire quel che volevo fare, i politici dell’epoca non lo
possedevano. Mi sostennero i giovani della Figc, Veltroni, Borgna,
Bettini….».
Progettò un Terzo
atto...
«Dal 1945 al 2000, ma
non l’ho mai girato perché non ho mai più ritrovato quel
trasporto. Novecento fu un successo ma il mio idealismo ne
uscì frustrato. Oggi li chiameremmo format: la cultura contadina, la
piccola borghesia, la lotta di classe…. Ma già mentre finivo il
film, con l’assassinio di Pier Paolo e la morte di Aldo Moro, per
me era svanita la possibilità di sognare in quella maniera».
Qual è il suo sguardo
sull’Italia di oggi?
«Forse questo
rinchiudermi in una magica caverna high tech è anche dovuto
al rifiuto di quel che è diventata l’Italia negli ultimi anni.
Forse preferisco starmene qui, con una realtà audiovisiva che mi
arriva da tutto il mondo, e stranamente mi nutre, piuttosto che
muovermi per Roma, città degradata e probabilmente impossibile da
salvare».
C’è un film che vuole
girare?
«Ci deve essere, lo sto
cercando. Incontro produttori, mi propongono grandi progetti che
rifiuto in trenta secondi. Voglio girare in “due camere e cucina”,
come per Io e Te. Vivo un po’ isolato, ma sono affascinato
dal presente, per esempio dalla possibilità di girare un film con il
telefonino. Da giovani sognavamo la caméra-stylo, oggi è
realtà».
“la Repubblica”, 4
giugno 2016
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