Dalla
lunga intervista a Nicola Tranfaglia stampata con il titolo Le
cose impossibili, riprendo un brano che fu pubblicato da “la
Repubblica”. (S.L.L.)
Forse è il momento di
discutere la questione del “Politecnico”. Come hai vissuto
l'esperienza del Politecnico e lo scontro fra Togliatti e Vittorini
sul “Politecnico”?
Una brutta vicenda. Oggi
mi appare chiaro che la valutazione su di essa va data al di là del
confronto tra diverse e divaricate posizioni teoriche, che in essa vi
fu. Che cosa voglio dire? Nella polemica di “Rinascita” si
espresse un attacco alla grande letteratura borghese della crisi e
ancora più avanti a correnti filosofiche, artistiche e culturali,
che sono parte essenziale del Novecento. Questo emerge già nel
corsivo di Alicata e duramente sia nella prima risposta di Togliatti
a Vittorini, sia nel brutto corsivo (Vittorini se n' è gghiuto e
soli ci ha lasciato) con cui risponde alla rottura di Vittorini
con il partito. Cioè, per me, l'errore fu concreto: stava nella
posizione chiara e sbagliata che veniva assunta verso correnti
culturali essenziali in questo secolo, stava nella legnosità con cui
si sottovalutavano ricerche espressive, percorsi cognitivi e
problematiche, che sono stati costitutivi della vicenda culturale di
questo secolo. C'è un interessante saggio sulla vicenda, che è di
Giuseppe Vacca. Egli sostiene che Togliatti combatteva contro
un'antica separatezza della intelligenza italiana, per chiamarla ad
un compito, progressivo e nazionale, di orientamento democratico
diffuso. Bene. Ma, a volersi muovere veramente in tale direzione,
bisognava entrare nel merito: come si rompeva la separatezza se non
misurandosi concretamente con le problematiche che quelle correnti
culturali e artistiche recavano con sé? Può darsi che a me facciano
velo le mie passioni letterarie, i miei amori verso testi, autori, di
cui già ti ho parlato. Ma, nel mio piccolo, era una testimonianza
che quelle esperienze avevano seminato una inquietudine, non un
conformismo. Contrapporre ad esse gli uomini chiari e semplici della
letteratura era davvero sommario. Comprendo bene che in Togliatti - e
lo aveva già detto nella famosa polemica con Prezzolini, e lo ripeté
anche a Vittorini - agiva potentemente il ricordo cupo della
frantumazione o addirittura dell'abdicazione di fronte al fascismo, a
cui erano approdati figure, gruppi, circoli dal primo Novecento
letterario e filosofico italiano. L'assillo, insomma, di lottare
contro la separatezza del ceto intellettuale. Ma il giudizio concreto
che scaturiva da quell'assillo era sommario e infondato, e metteva
troppo in un sacco solo vicende diverse, e assimilava a vicende
italiane percorsi europei di ben altro respiro. Fu zdanovismo? Non
farei confusioni. Ci fu anche dello zdanovismo nella vicenda
culturale del Pci. Ma nella polemica con “Politecnico” fu altro:
non fu mai affermare l'imperio di una dottrina di partito nella
cultura. Fu debole e arretrata la valutazione dei percorsi culturali
europei. Questo fu il limite. E costò. Detto questo, la posizione di
Vittorini sul piano teorico mi parve per lo meno assai discutibile; e
non mi convinceva. Lo dico in breve: egli affermava un primato della
cultura come storia rispetto alla politica intesa come cronaca e
direi - parole mie - come amministrazione. Salvo il caso di
rivoluzione in cui la politica si eleva a cultura come storia (il
caso di Lenin...). Io non riuscivo ad accettare questa concezione
subalterna della politica, che invece mi appariva anch'essa come un
momento essenziale, specifico della più generale battaglia
culturale. In nome di che intendere la politica come cronaca? Io ero
arrivato alla politica attraverso uno stringente assillo generale,
attraverso un allarme sulle sorti del mondo, e sul rischio che
correva il più intimo bisogno di libertà. Il problema mi appariva
quello delle autonomie e delle connessioni dei diversi momenti di una
creatività culturale. E certamente allora non avevo chiaro come
articolare e sciogliere il problema. Ma quella politica ridotta come
dire? a gestione contraddiceva profondamente alle esperienze più
intense della mia vita. Naturalmente queste cose mi sono più chiare
oggi. Ma già allora mi crearono un malessere, un attrito. Per dirla
in volgare, mi sentii come un asino in mezzo ai suoni. Cu fu anche
sofferenza. Conversazione in Sicilia era stato uno dei libri
della mia generazione. Forse già allora, quando uscì nel ' 41,
alcuni di noi ne demmo una lettura troppo politicista: gli astratti
furori di Silvestro, i nuovi doveri di cui parla il Gran Lombardo,
quei siciliani scavati che possedevano solo arance che non riuscivano
a vendere, li leggemmo subito, e rudemente, in chiave di dramma
sociale. Quanto a me, mi incantarono anche quei dialoghi altalenanti,
quello scavare per successive approssimazioni nel ricordo, che
rimandavano subito agli autori di Americana (l' antologia
famosa di Vittorini), e anche a Lawrence. Mi piacerebbe sapere se
oggi Conversazione in Sicilia viene letto dai giovani e che
impressione gli fa... In ogni modo, in quella vicenda del
“Politecnico” io non seppi parlare. Non fu un'omissione da poco.
Perché la questione del rapporto politica/cultura e
dell'atteggiamento verso la cultura della crisi del primo Novecento e
verso le avanguardie del pensiero e dell' arte che rompevano col
realismo e mettevano in discussione lo storicismo progressista tornò
negli anni seguenti. E non era questione settoriale. Togliatti lo
avvertiva benissimo, e drammaticamente. Lo vedemmo nella discussione
aspra che si svolse poi sulle pagine del “Contemporaneo” nel 56.
E tornò allora, in polemica col partito, un'idea della cultura non
proprio come primazia, ma come autogestione della cultura. Figure
diverse come Fortini, Scalia, Guiducci rivendicavano un ruolo
autonomo della cultura nel rapporto con la classe e nella costruzione
del blocco storico. E la polemica aveva un doppio indirizzo, a volte
esplicitato con asprezza, a volte indiretto: il primato assorbente
del partito (e quindi l'accusa sottintesa di zdanovismo); e
l'arretratezza dell'asse culturale Spaventa-De
Sanctis-Labriola-Croce, che appariva dominante nella cultura
comunista romana e che Togliatti aveva assunto come centrale nello
sforzo di identificare un retroterra del comunismo italiano, un
radicamento nazionale profondo del partito comunista. Milano contro
Roma? Lo schema è semplicistico. Ma contiene una sua verità. E
Milano non era solo Fortini e il suo marxismo e il suo amore per
Brecht. Erano anche Pizzorno e Guiducci, che chiedevano sociologia,
analisi empirica e che parlavano già dalla sponda del revisionismo
socialista. E c'era anche Torino (Barca, Spriano) che chiedeva un
esame autocritico della sconfitta operaia del 55 e un'analisi degli
sviluppi del neocapitalismo (in fondo contro l' idea considerata
romana di un capitalismo italiano estremamente arretrato). I ritardi,
gli schematismi teorici, le difficoltà degli anni bui della guerra
fredda e del Cominform si pagavano. È facile oggi, anche per me,
vederli. Ma è giusto dimenticare che in quegli anni difficili
dovemmo lottare contro l'odiosa offensiva maccartista, addirittura
contro ritorni clericali, contro politiche selvagge di
discriminazione sociale e politica? Vincemmo nel 53 contro la legge
truffa e poi contro il governo Scelba-Saragat; ma (lo riconobbe nel
56 anche Togliatti) non riuscimmo dopo quella vittoria a dare il
respiro innovativo necessario alla nuova fase.
"la Repubblica", 11 novembre 1990
Nessun commento:
Posta un commento