Riprendo da “Pagina 99”
un interessante articolo sul sistema carcerario in Germania e la
scheda di confronto con l'Italia che lo correda. (S.L.L.)
Qualità
tedesca, prezzi cinesi. Per molte aziende le carceri sono diventate
siti produttivi
Hans è l’operaio che
tutti gli imprenditori sognano. Ogni mattina arriva puntuale in
laboratorio, è preciso, diligente e costa poco: la sua paga oraria è
di appena 2,50 euro l’ora. Quindici euro al giorno. In più, non
può protestare né scioperare. Perché Hans è un detenuto.
È stato condannato a 12
anni per furto e sta scontando la sua pena nel carcere di Butzbach,
nel land tedesco dell’Assia, uno degli 11 länder (su 16) in cui il
lavoro per i detenuti è obbligatorio. Complessivamente su 60 mila
persone recluse in Germania, circa 40 mila sono impiegate all’interno
del sistema produttivo delle carceri tedesche. Gli unici esentati
sono gli anziani e le persone malate.
I circa 4.500
detenuti-operai di Butzbach producono un po’ di tutto: sedie per le
stazioni di polizia, banchi per le scuole e letti per i centri
d’accoglienza dei richiedenti asilo. Ma anche barbecue, attrezzi da
giardinaggio e griglie metalliche per aziende private. Inoltre, i
detenuti sono impiegati anche nei lavori di manutenzione
dell’edificio. Se poi si allarga lo sguardo all’intero Paese, la
gamma dei prodotti galeotti realizzati all’interno delle prigioni
federali spazia dai componenti per automobili agli elettrodomestici,
fino ai pannelli solari. Tutto, orgogliosamente, “made in Germany”.
Un vero e proprio sistema economico che si sviluppa fra le mura delle
carceri, al cui interno si trovano veri laboratori industriali
perfettamente attrezzati per i diversi tipi di produzione richiesta.
Di più: ci sono penitenziari che vengono progettati ad hoc per
rispondere a questo principio, come il nuovo carcere di Dusseldorf
(inaugurato nel 2012) che ha un’area di circa 5 mila metri quadri
dedicata alla produzione e al magazzino. Inoltre, buona parte dei
penitenziari ha un’apposita sezione sul proprio sito internet in
cui illustra i vantaggi per le aziende che desiderassero
delocalizzare la produzione fra le mura di un istituto penitenziario.
Qualcuno ha persino un e-commerce dove vendere direttamente al
pubblico i prodotti “galeotti” realizzati dietro le sbarre.
Le aziende, però, sono
recalcitranti nel dire esplicitamente che la loro produzione viene
realizzata – in tutto o in parte – da detenuti. «Sappiamo che
Volkswagen e Mercedes sono tra le aziende che producono in carcere.
Ma ci sono anche Miele ed Enercon. In molti casi si tratta di
subappalti con altre compagnie che contrattano direttamente con gli
istituti di pena», spiega Jörg Nowak, ricercatore di Politiche
sociali presso l’università di Kassel, specializzato sul lavoro
penitenziario.
I bassi costi sono una
delle principali motivazioni che spinge le aziende private a portare
parte della loro produzione in carcere. Ma non c’è solo il fattore
economico. «La qualità è decisiva», ha puntualizzato Thomas
Krienke, responsabile delle risorse umane di Butzbach, in
un’intervista al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Qualità tedesca a prezzi cinesi, insomma. Per non parlare poi delle
questioni logistiche: rispetto alla delocalizzazione in Asia o
nell’est Europa, la produzione in carcere permette un ulteriore
risparmio sui costi di trasporto.
E se manca un dato che
permetta di valutare il valore complessivo della produzione nelle
carceri tedesche, il quotidiano Die Welt ha stimato che nel 2011 il
giro d’affari sia stato di 30 milioni di euro nel Baden-Wuttemberg
(con una media tra i 5 e i 7 mila lavoratori) e di 43,6 milioni di
euro in Baviera (dove i detenuti che “prestano servizio” sono 12
mila). Il piccolo carcere di Ravensburg, che ospita poco più di 450
persone, nel 2011 ha conosciuto un giro d’affari di tre milioni di
euro, con un utile netto di 500 mila euro.
La paga media oscilla
attorno ai 2-2,50 euro l’ora. I detenuti hanno l’assicurazione
contro gli infortuni e quella di disoccupazione, pagate dal governo.
Ma nessuno versa loro i contributi previdenziali. «Negli ultimi
vent’anni le carceri tedesche sono diventate veri siti produttivi
che vengono gestiti secondo criteri manageriali. I tempi in cui si
assemblavano biro e si incollavano insieme borse sono passati: molte
attività sono basate sul cottimo e su obiettivi di produzione. Le
persone producono plusvalore, non oggetti alla buona». Oliver Rast,
classe 1973, ha scontato tre anni di detenzione nel carcere di Tegel
a Berlino. Ed è qui, che nel 2014 ha dato vita al GG/BO
(Gefangenengewerkschaft/Bundesweite Organisation), ovvero il
sindacato nazionale dei lavoratori-detenuti tedeschi.
Perché, tra loro, sono
sempre più numerosi quelli che hanno iniziato a protestare contro le
condizioni di lavoro “cinesi” nelle carceri teutoniche. La paga
oraria è infatti quattro volte inferiore rispetto al salario minimo
in vigore nel Paese di Angela Merkel (8,50 euro l’ora). E, oltre
alla mancanza di contributi pensionistici e previdenziali, non godono
neanche del diritto di sciopero, né potrebbero organizzarsi
sindacalmente, perché non sono considerati “prestatori d’opera”.
Una situazione che Jörg Nowak non esita a paragonare al lavoro
forzato: «Questi detenuti sono obbligati alle prestazioni lavorative
per legge, a meno che non siano troppo anziani o malati. Sul piano
giuridico, il rifiuto al lavoro viene considerato come un
ammutinamento e come tale viene punito in maniera piuttosto severa».
Diverso il punto di vista
del ministero della Giustizia. Secondo cui l’obiettivo della “piena
occupazione” nelle carceri non è il profitto, quanto piuttosto
offrire ai detenuti la possibilità di imparare un mestiere. In modo
da agevolare il loro ritorno nella società una volta che avranno
finito di scontare la pena. Ma i detenuti non sembrano essere
d’accordo. Non è un caso che (dopo anni di malumori) nel maggio
2014 Oliver Rast e un altro carcerato siano riusciti a dare vita al
GG/BO, che ora conta circa 800 membri in più di 40 prigioni
tedesche. E dalla fine del 2015 conta anche una “succursale” in
Austria. Un sindacato illegale, non riconosciuto, ma che in questi
mesi ha provato ad animare diverse iniziative di protesta. E che può
contare sul sostegno esterno di attivisti e ricercatori universitari.
Le loro richieste sono semplici e chiare: salario minimo, versamento
dei contributi previdenziali, riconoscimento formale del sindacato e
diritto di riunirsi.
La prima protesta è
scoppiata nel dicembre 2015 nel carcere di Butzbach. Una ventina di
detenuti ha messo in atto uno sciopero della fame protrattosi per 11
giorni. Con il supporto di un altro centinaio di persone, che hanno
rifiutato i pasti nel primo giorno della protesta. «Durante uno
sciopero della fame il lavoro deve essere obbligatoriamente sospeso
per ragioni mediche», spiega Nowak. «Qualsiasi altro tipo di
astensione dal lavoro sarebbe equivalso a una rivolta e avrebbe
provocato dure misure repressive». Nel marzo 2016, un secondo
sciopero della fame.
Organizzare queste
proteste, però, non è facile né indolore. I portavoce del GG/BO
denunciano come i primi mesi di attività siano stati caratterizzati
da diverse forme di repressione e ritorsione da parte delle
amministrazioni penitenziarie ai danni dei leader sindacali: blocco
della corrispondenza, isolamento, impossibilità di distribuire
volantini e altro materiale informativo. Il segretario del sindacato,
Mehmet Aykol, è stato messo di fronte a una scelta: continuare con
l’attività sindacale oppure rinunciare alle misure alternative.
«Jürgen Rössner, uno degli animatori della protesta dello scorso
marzo a Butzbach, era stato trasferito in un altro penitenziario il
29 febbraio, il giorno precedente all’inizio della protesta,
proprio perché identificato come uno dei leader», prosegue Nowak.
Che aggiunge un dettaglio di non poco conto: «Il primo marzo la
polizia ha compiuto un raid a casa della moglie di Rössner. Questo
fatto rappresenta un’escalation delle repressione, che per la prima
volta si è estesa al di fuori delle mura della prigione». C’è
poi un’altra forma di pressione, molto più sottile: «Chi non
lavora deve pagare le spese di mantenimento, che sono piuttosto
elevate: 16 euro al giorno», spiega Marco Bras dos Santos, membro
“esterno” del GG/BO.
Malgrado le difficoltà,
però, il sindacato dei detenuti sta ottenendo i primi riconoscimenti
istituzionali. A febbraio, lo ha fatto per primo il ministero della
Giustizia della Sassonia. «Anche in altri lander la situazione sta
migliorando. Mentre in altre zone abbiamo ancora molti problemi: è
una situazione a macchia di leopardo», conclude dos Santos.
Hünfeld - Il carcere e le sue fabbriche
|
Scheda - Confronti
Come funziona in
Italia. Meno occupati, più tutele.
Non lavorare stanca. Se
per i detenuti tedeschi prestare un’attività lavorativa è
obbligatorio in buona parte dei lander, in Italia invece è un
privilegio per pochi: su un totale di 52.164 reclusi solo 15.524 (il
29,4% del totale) hanno la possibilità di non trascorrere l’intera
giornata fissando le pareti della cella (dati del ministero della
Giustizia al 31 dicembre 2015, ndr).
Ma cosa si fa,
esattamente, nelle carceri italiane? La stragrande maggioranza è
impiegata alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria:
13.140 persone (l’84% del totale dei lavoranti) sono “spesini”
o “scopini”, porta vitto o addetti alla manutenzione dei
fabbricati dell’istituto carcerario. Mansioni semplici, poco
qualificate, che spesso durano solo pochi mesi perché sottoposti a
turnazione. «Un lavoro dequalificato e poco formativo, vissuto più
come welfare, pur prezioso, che non come esperienza utile»,
spiega Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, «Sebbene le
paghe siano basse, sono impieghi ambiti, soprattutto da chi non ha
nulla». Le cosiddette “mercedi” per legge non dovrebbero essere
inferiori ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri
lavoratori della stessa categoria dal contratto collettivo nazionale
in vigore. Ma sono ferme alla contrattazione del 1994, anno in cui la
banconota corrente era ancora la lira. Da 22 anni la commissione
ministeriale incaricata non dispone adeguamenti. I lavoranti interni
al carcere vengono pagati 2,50 euro l’ora: più nel dettaglio –
come ricostruisce la rivista Carte Bollate – un addetto alle
pulizie riceve 2,23 euro nette l’ora, un addetto alla distribuzione
del vitto 2,12 euro, mentre gli “scrivani” (fortunati loro)
arrivano a 2,74 euro. Un misero guadagno: le buste paga dei
lavoratori a mercede non arrivano a 300 euro al mese. Di cui circa
100 vengono trattenuti dall’amministrazione per ripagare le spese
di mantenimento che, per di più, dallo scorso agosto sono
raddoppiate. I detenuti tedeschi, invece, sono tenuti a pagare per il
proprio mantenimento (circa 16 euro al giorno) solo se non lavorano.
Stanno un po’ meglio quei 2.384 italiani assunti alle dipendenze di
cooperative sociali o di aziende esterne (il 15%). Le produzioni sono
varie e spesso anche di alta qualità: dalla birra della cooperativa
“Pausa caffè” di Torino, agli abiti e le toghe per magistrati
della “Sartoria San Vittore”, passando per i panettoni della
cooperativa “Giotto” di Padova al caffè delle “Lazzarelle”
di Napoli. E poi i call center all’interno delle carceri di
Bollate, Rebibbia e Padova cui molte amministrazioni locali hanno
affidato la gestione di alcuni servizi. In questi casi «si tende a
garantire ai detenuti diritti simili a quelli che hanno tutti i
lavoratori nel mondo esterno», spiega Scandurra. Mentre tutti i
detenuti italiani che lavorano, sia dentro che fuori dal carcere,
hanno comunque diritto alla pensione e agli assegni familiari, anche
quando sono impegnati alle dipendenze dell’amministrazione
penitenziaria.
A separare Italia e
Germania, dunque, sono due filosofie molto diverse. Da un lato un
sistema (paradossalmente) garantista che equipara in larga parte i
diritti dei lavoratori detenuti a quelli di tutti gli altri. Ma che
non offre a tutti la possibilità di lavorare. Dall’altro il
modello “separato” tedesco, in cui tutti lavorano ma dove,
osserva Scandurra, «lo sforzo rieducativo è perdente: se si prende
una comunità e la si isola, dando regole diverse da quello che
succede nella realtà, non c’è da essere molto ottimisti
sull’esito della rieducazione».
“Pagina 99”, 23
aprile 2016
Nessun commento:
Posta un commento