Quando
nel 1988 della Colonna di Marc'Aurelio, detta anche Antonina o
Aureliana, posta a piazza Colonna, fu completato il restauro ed essa
ritornò alla visione dei romani e dei visitatori dell'Urbe, Claudio
Strinati scrisse per il “manifesto” un ampio saggio sui misteri
artistici che in essa sono racchiusi. La ripropongo qui. (S.L.L.)
Non
si sa con esattezza né quando fu cominciata né quando fu finita, ma
un’epigrafe ha lasciato memoria del fatto che, nell’anno 193, il
proba bile custode della zona, un certo Adrasto, liberto di Settimio
Severo, ottenne l’autorizzazione a utilizzare parte dei legnami,
già montati per il ponteggio intorno alla Colonna, per fabbricarsi
una casetta prospiciente. Erano passati più di dieci anni da quando,
morto il 17 marzo del 180 l’Impera tore Marco Aurelio, Senato e
Popolo Romano avevano inteso onorarne la memoria con monumenti
idonei.
È
probabile che il concepimento e la prima fase, almeno,
dell’esecuzio ne siano avvenuti durante il primo periodo del regno
di Commodo, quando il potere era gestito dal gruppo dei più stretti
amici di Marco Aurelio. Ma non sappiamo niente di più e, a onor del
vero, non sappiamo bene nemmeno che cosa sia esattamente
rappresentato nell’immane fregio, a differenza della Colonna
Traiana in cui il percorso delle storie è ricostruibile con maggiore
chiarezza.
Certo,
sono le conquiste di Marco Aurelio oltre il Danubio, le guerre per le
quali assunse prima il nome di Germanicus e poi di Sarmaticus.
Ma la vita dell’Imperatore scritta da Giulio Capitolino non
consente di chiarire i punti oscuri, e le altre scarse fonti, come i
frammenti di Dione Cassio, non conten gono elementi utili. Le storie
della Colonna resteranno sempre un enigma perché quello che si vede
non è un’epopea organicamente sviluppata attra verso tappe
successive ma un continuo andirivieni di una situazione immu tabile.
Una sorta di stasi narrativa incombe cupamente sulla colossale
co struzione e gli storici non hanno mai capito fino in fondo se gli
episodi siano stati raffigurati secondo un criterio di reale
successione narrativa o non piuttosto come altrettante evocazioni
dove il prima o il dopo non hanno più la stessa
evidenza. Erano passati circa settanta anni dalla inaugurazione della
Colonna Traiana e un mutamento complesso, non più controllabile in
tutte le sue componenti, si era verificato nella produzione artistica
romana.
Trapelava
uno dei grandi temi scaturenti dal rapporto oriente-occiden te, di
cui la Colonna istoriata è un indiscutibile esito. L’arte
figurativa può essere il luogo della fabbricazione di prototipi
sapienziali, come fu l'arte del Gandhara; può essere iterazione di
strutture narrative, riscontrabile in certi monumenti dell’Egitto
prossimi a questa fase dell’arte romana come il Tem pio di Horus a
Edfu; può essere strumento di celebrazione e trionfo,
amplifi cazione retorica, specchio che riflette la costruzione
ideologica con la quale un’epoca intera o un ristretto ambiente
culturale vogliono fissare la propria immagine.
Ma
la Colonna istoriata è vera mente l’oggetto su cui sosta,
per bre ve tempo, il fenomeno gigantesco di transizione dall’oriente
all’occidente che il mondo romano, impossessato si dei tesori della
Grecia, aveva potu to attivare. Nel contempo la Colonna è gravata
dall’ossessione fondamen tale che mina tale tendenza: lo
spo stamento ulteriore, la perdita del centro e la necessità, insita
nella di namica storica, di scomparire, di essere annientati. È la
dimensione che, oltre trecento anni prima, ave va informato l'opera
di Polibio, il cui senso ultimo sembra ancora struttu rare il
tragitto degli eserciti che si arrampicano lungo la Colonna antonina,
ignari di quella rovina da essi stessi in parte provocata, in parte
prove niente dalla disfatta di un mondo che ha perso quasi ogni
connotato di ricono scibilità.
Si
suppone che la vicenda cominci nel 172. Marco varca il Danubio a
Carnuntum e la scena è similissima (con l’immagine del Dio
Fluviale che si erge per favorire il transito delle truppe)
all’Incipit della Colonna Traiana. È una somiglianza che resterà
immutata fino alla fine, somiglianza contenu tistica e stilistica,
malgrado l’ovvia distanza che sempre separa due mo menti della
storia dell’arte, a settanta anni l’uno dall’altro. Ma sembra
evidente la volontà di stabilire il confronto e renderlo perspicuo
alla posteri tà. La Colonna antonina sarà come la Traiana e così
dovranno avvertirla i posteri. Ma così non è. Il cammino è troppo
accidentato e subito lo si percepi sce. Marco passa sul ponte di
barche, paludato e affiancato da due tribuni. Avanti vanno i
suonatori con un loro tipico strumento, il Lituus, una tromba ritorta
che chiama i soldati alla battaglia. Lo segue il Cavallo loricato e
l’idea di una cerimonia che si sta per compiere definisce il senso
della scena. Passano i soldati della legione detta Fulminata sotto
l’arco e viene in mente il confronto col Corteo trionfale di
Tito al ritorno dal saccheggio di Gerusa lemme, nell’Arco
eretto all’imperatore sulla riva Sacra. Il tempo, però, non si è
ancora compiuto.
Comincia
subito la narrazione per folgorazioni successive. Celeber rimo è il
Miracolo della pioggia e quello del fulmine. Sono episodi che si
riferiscono all’attacco contro i Quadi, la cui datazione esatta non
è stata stabilita ma che potrebbe cade re appunto nel 172. È
rimasta famosa l’immagine del Dio della Pioggia, una sorta di Padre
eterno la cui lun ghissima barba non è altro che l’ac qua cadente
dal cielo. Una sorta di intervento metafisico che protegge le armate
romane, sommergendo i Barbari e dissetando le Armate. E, subito
accanto, la burocratizzazione del racconto. L’Imperatore romano
riceve l’omaggio dei Quadi sconfitti; si accalcano i genitori a
proteggere i figli intorno ai vessilli romani.È già tutto finito,
la guerra è vinta.
Ma
no. Senza soluzione di continuità, si assiste al più violento
scatenarsi della lotta. I cavalieri assaltano un villaggio, lo
bruciano, massacrando i nemici che non hanno cavalli né corazze. È
veramente il Pagus, fatto non di muratura ma di strutture lignee che
prendono immediatamente fuoco. Da una di queste casette, un uomo
prega, con il gesto, che diverrà familiare, dell’orante cristiano.
È volto verso il cielo, non chiede pietà a un particolare nemico.
Mentre, in basso un soldato trascina per i capelli una donna e il
Bellori commenta: «come, narra Euripide, accadde a Andromaca, e
Virgilio dice di Cassandra».
Tanta
dottrina è giustificata? Difficile dirlo. Certo lo scultore della
Colonna è un sapiente che riprende e ricompone innumerevoli
iconografie dell’Antico. A ben maggiore distan za rispetto
all’autore della Colonna Traiana, ma ancora immerso in quella
cultura, continua a avere a suo riferimento quel neo ellenismo che
dall’Ara Pacis era arrivato fino ai rilievi dell’Arco Aureliano,
oggi collocati lungo lo scalone del Palazzo dei Conservatori in
Campidoglio.
È
una guerra che sembra svol gersi senza spazio e senza luogo. Ir un
momento immediatamente suc cessivo, però, si vedono le armate romane
che passano un fiume. Marco si avvicina a cavallo e incita i suoi
all’azione. L’acqua è pensata dall’anti co scultore come una
fluida cornice che circonda le piccole imbarcazioni di cui narra
Vegezio, costruite scavando un tronco d’albero e trasportate, col
resto degli armamenti, sui carri che seguivano le truppe. E subito
l’impeto bellico esplode nell’immagine del soldato che non ha
ancora posato il piede sulla riva e già si accinge a colpire, mentre
altri della Legione si schierano a aggredire nemici, in sostanza
inermi.
Come
nella donna paragonata a Andromaca, c’è un intenso pateti smo che
si incunea dentro la rigida descrizione degli armati che concul cano,
distruggono e straziano i nemi ci, ogni qual volta uno squarcio di
ambiente naturale emerge dalle ma glie serrate o opprimenti
dell’Historia. Complessa è la mediazione sullo spazio e la resa
dell’ipotesi prospetti ca lungo uno svolgimento, in salita dal
punto di vista della realtà percet tiva, ma sempre pensato come
fron tale.
Nel
passaggio del fiume si risen te lo stesso tipo di concepimento
ri scontrabile in un’opera appena pre cedente, il basamento della
Colonna di Antonino Pio, oggi nei Musei Vaticani. Qui le due facce
costituiscono veramente i due momenti, contrastanti e compresenti,
della scultura roma na del II secolo. Così l’Apoteosi di Antonino
e Faustina ha ancora un aspetto truce e «barbarico» ma
irregimentato nella logica razionale del classicismo fidiaco,
leggibile in tanti prodotti dell’età augustea e in quell’estremo
«revi val» del classicismo riscontrabile in età adrianea. La scena
del Decursio (il carosello funebre dei cavalieri intorno alla tomba
dell’Imperatore) è pensa to e formulato, invece, secondo l’idea
di uno spazio in cui la illusività prospet tica consiste
nell’innalzamento del punto di vista, dove la sfera e il cerchio
hanno lo stesso significato.
È
la quintessenza del concepi mento spaziale della Colonna di Mar co
Aurelio. Questa è l’esorcismo massimo contro l’idea della
deca denza e del crollo. È una montagna figurata che rappresenta la
solidità indiscussa della potenza militare e celebra la guerra, o
meglio la violen za e l’atrocità dell’aggressione, qua le valore
supremo e indiscutibile del la vita umana. Un monumento eretto
all’orrore, appunto, ma che sta in piedi massacrando il tempo e la
filo sofia, eretto, naturalmente, a gloria di uno spregiatore delle
fatiche belli che.
Si
è discusso sulla provenienza culturale dell’autore della Colonna,
se romano o situabile in un’area provinciale. Si è discusso sulla
molteplicità degli esecutori, fatto ovvio, trattandosi di un’impresa
di queste dimensioni, ma in realtà più limitato di quanto si
potrebbe credere. Le fonti figurative possono essere forse
individuabili nelle pitture trionfali di cui le testimonian ze
letterarie molto ci dicono anche se nulla è sopravvissuto. Si è
pensato, addirittura, a una derivazione dell’iconografia da un
diario di guerra del l’Imperatore.
Ma
in realtà è una serie di figurazioni cerimoniali che non tanto
intendono raccontare una storia quanto riprodurre, con un mezzo
stilistico con gruente e diretto, una concezione etica e estetica nel
contempo. Arte in tempore belli, scaturita dall’allucinazione
e dalla impossibilità della guer ra di sfuggire, in ogni tempo, a
uno stato di inestinguibile travaglio emotivo.
L’azione,
nelle raffigurazioni della Colonna, è sempre coordinata al momento
dell’Allocutio imperiale che sistematizza gli eventi. Così
celebrata è la scena della Testuggine, dove emerge l’idea
figurativa, latente in tutta la Colonna e qui pienamente
riscontrabile, delle sequenze simmetriche degli schieramenti,
un’ottica di concepimento delle immagini già orientata verso
quello che sarà il mondo bizantino.
I
Germani, dall’alto del villag gio, scagliano lance o oggetti
contun denti mentre le truppe romane oppongono, secondo una simmetria
marcata e ricercata, gli scudi. Ac corrono cavalieri e altri due
militi recanti le torce con cui bruceranno il villaggio. Ma subito
dopo si vede Marco che, dall’alto di un Fortilizio, parla ai
vincitori. Si suppone che sia qui rappresentata l’altra campagna di
guerra che seguì alla vittoria sui Quadi, quella contro i
Marcomanni.
E
a breve distanza, una dotta citazio ne, di una inquieta classicità,
sem bra suggellare la fine definitiva della storia. Si vede (oggi in
modo para dossale perché un terremoto alla fine del Cinquecento,
oltre a alcune consistenti rotture riparate poi dagli abili
restauratori di Sisto V, provocò lo spostamento dei rocchi
sovrapposti su cui è scolpita questa scena) la figura della Vittoria
che scrive VICTORIA GERMANICA.
Sarebbe
l’assoggettamento dei Marcomanni e la data dell’evento è an cora
una volta incerta. Ma si tratta di una grande cesura in una
narrazione che, di fatto, non c’è stata. Accanto alla immagine
simbolica che riempie tutto lo spazio con la sua altezza, in
contraddizione con il convulso costipa mento di molte zone
precedenti, si vede una panoplia fatta di armi romane e di strumenti
bellici strappati al nemico, un trofeo che ha qualche punto di
contatto con quelli di Domiziano oggi sulla sommità della scalinata
al Campidoglio.
Un’opera
d’arte non è di necessità un manifesto ideologico. Si potrebbe
lire che entro certi limiti può non esserlo mai.
Eppure
il senso di assurdità e proprio di non significato promanante
da queste logoranti e abominevoli «guerre difensive», che Marco
avvertì quale dovere ineluttabile e autentica dannazione in vita,
potrebbe giustificare la sostanza stilistica e espressiva delle
immagini, che il colto incisore seicentesco Bartoli, mo derò e, solo
paradossalmente, classi cizzò in senso augusteo. Certo oggi il
giudizio sugli originali, pur magi stralmente restaurati della
Soprin tendenza archeologica di Roma coa diuvata dall’Istituto
Centrale del Re stauro, tramite l’opera di numerosi specialisti, è
difficile. Siamo ad esempio impressionati dalle lavorazioni col
trapano che tormenta le superfici, o dall’uso di piani scabri, di
approfondimenti tormentosi sulla materia, dalla potenza di un rilievo
che pure contrasta con la gracilità dell'impianto prospettico. Ma è
arduo formulare una valutazione estetica circostanziata.
Più
si sale e più il tema della ferocia e del terrore, di una sorta di
amalgama in cui tutti gli uomini si travolgono l’un l’altro,
andando incontro a un destino cieco, si acuisce. Superata la Vittoria
che scrive i Fasti sulle scudo, dilaga una scena di allucinante
evidenza. Davanti alle donne devastate dal dolore, si compie la
decapitazione del Re dei Quadi (così almeno la vide il Bellori) e di
altri eminenti uomini germanici.
Poi
si ricomincia. Le truppe si accalcano di nuovo lungo il fiume e il
ritmo sembra contrarsi anche se, ancora una volta, l’Imperatore
appare tra i suoi. Ma il tempo della cerimonia è scomparso. Non c’è
il cavallo imperiale che segue solenne. E, all'uscita del ponte, si
inciampa sui nemici morti e uno, caduto da cavallo, precorre un Savio
folgorato sulla Via di Damasco e consente di interrogarci un poco
sugli albori della prima formazione di ciò che, a distanza sovente
di secoli, diventerà il sostrato classico dell’iconografia
cristiana.
La
seconda parte della colonna è più dedicata alla descrizione delle
varie funzioni della vita militare. Passano i legionari con le loro
corazze segmentate e passano i carri, su cui ci sono grandi pacchi
contenenti le tende ripiegate che verranno poi utilizzate nelle brevi
soste.
Più
avanti altri soldati costruiscono un accampamento «lapide quadrato»
e sembra già di assistere al Trionfo ordinato dalle armate
imperiali. Ma la vicenda che non ha mai avuto inizio, non ha mai
fine. E così veramente fu, alternandosi la conquista e la
ribellione, mentre i confini dell'Impero, allargati in misura non più
sostenibile da uno solo, appaiono troppo fragili per permettere una
ritirata stabile delle guarnigioni di frontiera. Le interpretazioni
sono, anche qui, molteplici. Si volle rappresentare, a questo punto,
una serie di vicende di repressione (come quella dei Cotini, avvenuta
nel 173) o non piuttosto la fase della guerra posteriore sulla
rivolta di Avidio Cassio governatore d'Oriente auto-proclamatosi
imperatore fino a che, sconfitti gli oppositori e ridotti alla pace i
bellicosi Iapigi, Marco Aurelio, nel 176, celebra il trionfo come
Sarmaticus?
Non
è dato saperlo ma le figurazioni dicono qualche altra cosa: che,
nell’apparente procedere degli avvenimenti, le cose tornano su se
stesse così come vuole proprio lo sviluppo della colonna la cui
salita non può più essere paragonata al dotto «volumen», come nel
caso della Traiana, posta tra due biblioteche e visibile in una
ascesa, mista, è da crederlo, di colloquio, commento e meditazione
storica, filosofica e speculativa. Non si sa bene come si vedesse in
antico la Colonna antonina e quale fosse la sua esatta situazione
urbanistica. La base originaria fu scalpellata al tempo di Sisto V.
Conteneva scene di sottomissione, ne resta soltanto un piccolo
frammento. Si sa che si trovava al centro di una piazza, in modo non
del tutto dissimile dalla situazione attuale. Ma questa costruzione,
fatta di 19 blocchi di marmo lunense, alta (con la statua
dell’Imperatore, oggi sostituita dalla statua cinquecentesca di S.
Paolo) 52 metri, come veniva percepita? È da credere con riflessione
meno pacata rispetto alla Traiana ma con altrettanta spasmodica
attenzione.
I
Barbari fuggono verso le paludi e riappare il tema della donna,
indifesa e sola, catturata dal soldato. E, ancora una volta, dal
marasma tumultuante di figurazioni che, all’opposto, sono costruite
con studiosa simmetria, emerge l’Imperatore, continuamente evocato,
mentre rivolge l’allocutio ai suoi fidi, affiancato dal fido
Pompeiano e forse da Pertinace.
Ma
qui appare l'episodio figurativamente più singolare e sconcertante
dell'intera Colonna. Marco è nel Pretorio e la sua figura spunta
dall'alto mentre un messaggero si presenta alla porta e sulla destra
una donna col figlio assiste all'incendio del piccolo villaggio
vicino. Le proporzioni si fanno più grandiose, la struttura
architettonica conferisce reale solennità e senso narrativo a un
evento di cui, a ogni buon conto, non conosceremo mai il contenuto. È
però come una grande pausa, un richiamo a quella dimensione
filosofica, sapienziale e meditativa con cui Marco Aurelio consegnerà
se stesso a una storia futura presunta immemore per antonomasia. Il
messaggero, se tale egli è, resta, forse annunciato, sulla soglia.
Il
Castrum così reso e
concepito, sembra l’allegoria dell’Hortus conclusus,
simbolo sovrano della classicità. Luogo bellico ma separato, al di
fuori del quale si perpetrano gli orrori che hanno attraversato tutta
la Colonna ma al cui interno sembra potersi svolgere solo una
conversazione, alta e solenne. Ma l’ultimo atto della storia
riporta all’ambientazione generale della colonna.
Passano
rifornimenti e masserizie, armature. Sembra un ritorno mentre altri
soldati restano asserragliati nel Castrum. Nell’estremo lembo
appaiono le scanalature che fanno pensare a una immane colonna
dorica, relitto mostruoso di un’antichità che pensa solo secondo
la misura di un gigantismo che non ha altri confronti se non nel
mondo egizio e in quello assiro. Marco appare per l’ultima volta a
cavallo, dispensatore di quella Pace che non può avere alcuno spazio
figurativo, essendo per principio estranea a questo tipo di struttura
estetica. Questa è l’arte della guerra, anche se non è l’arte
di fare la guerra. Le ultime immagini sono quelle delle donne e degli
uomini prigionieri sulle barche.
“il
manifesto”, domenica 3 luglio 1988
Nessun commento:
Posta un commento