"Caro Remo, grazie
per la tua lettera che vorrebbe in risposta un bel lungo discorso. E
lo faremo a voce. Per ora mi preme che tu senta vicino il mio affetto
e che tu veda qual è il punto di vista che l'esperienza mi mostra
come il più giusto. Forse può essere utile anche a te".
È l'incipit di una
lettera fino ad oggi inedita che il filosofo Antonio Banfi scrive in
data 28 dicembre 1948 all'amico e allievo Remo Cantoni. C'è stima e
affetto ma anche una puntigliosa disamina di che cosa significhi
essere militanti di un partito operaio. L'occasione di questa missiva
è fornita dalle dimissioni che Cantoni ha dato dal partito
comunista. "Non dirmi", si legge a un certo punto, "che
si può essere marxisti fuori dal partito. A breve scadenza si
diventerebbe antimarxisti e anticomunisti... Tu mi dici, per esempio,
ed è vero, che contro il marxismo volgare Marx e Lenin hanno parole
di fuoco. Rimane da vedere se oggi il riferire queste parole... non
vada ad indebolire la lotta stessa a vantaggio dell'avversario. E
soprattutto se oggi il nostro compito sia, piuttosto che combattere
in generale il marxismo volgare, quello di fare del marxismo concreto
che, come tale, è anche un rafforzamento della lotta. Insomma noi
non possiamo mai dimenticare la lotta in cui il partito e la classe
sono ingaggiati e non solo perché è qui attorno a noi, ma perché
dimenticando quella, perderemmo di vista la base stessa del marxismo
e la sua portata etica in cui si giustifica lo stesso sforzo per la
libertà della ragione".
Pensatore diverso Banfi,
allievo di Edmund Husserl, è un filosofo di statura internazionale,
il solo probabilmente ad aver organizzato un pensiero filosofico
alternativo all' idealismo crociano e gentiliano. Alla sua scuola,
negli anni Trenta, si forma una generazione di intellettuali di
primissimo piano, fra gli altri: Giulio Preti, Enzo Paci e lo stesso
Cantoni (su quest'ultimo è appena uscito un bel libro per l'editore
Guerini a cura di Carlo Montaleone e Carlo Sini). Il cielo della
speculazione non appaga Banfi. Nella carne e nel sangue egli avverte
di essere un pensatore diverso, attratto dalle ragioni del comunismo.
Dal 1943 egli è iscritto al partito comunista. È un intellettuale
autorevole e ascoltato. Dirige la “Rivista di Studi filosofici”,
un periodico finanziato dal partito e che il partito considera uno
strumento utile alla causa. Nel partito Banfi vede il solido punto di
appoggio dal quale può prendere avvio l'emancipazione dell'uomo:
"l'uomo copernicano" (quello che rivoluziona il mondo),
come lo definisce in un celebre articolo che dà anche il titolo a
una raccolta di saggi. Quel partito che oggi non c'è più per Banfi
è l'essenza stessa della diversità, che poi vuol dire: la nostra
etica è migliore della vostra, le nostre ragioni più persuasive
delle vostre, la nostra morale superiore alla vostra. Quel partito è
insomma fonte di certezza, ma anche di doloroso confronto che Banfi
risolve con la fedeltà del militante, anteponendo i valori
dell'ortodossia a quelli della critica, l'obbedienza al rifiuto.
La lettera da cui siamo
partiti e che fino ad oggi era conservata nelle carte di Clelia
Abate, fedele segretaria di Banfi, è la riprova di quanto forte sia
la sudditanza dell'intellettuale organico alle ragioni della
politica. È un legame talmente profondo che neppure la vicenda
Cantoni riesce a scalfire. La storia è in parte nota e ben
raccontata da Nello Ajello nel suo libro Intellettuali e Pci.
Nel maggio/agosto del 1948 compare sulla rivista “Studi filosofici”
la recensione di Remo Cantoni a L'existentialisme n'est pas un
humanisme di Jean Kanapa che è il responsabile culturale del
partito comunista francese. È un libro acrimonioso e provocatorio.
Kanapa attacca violentemente Sartre e Camus, bollandoli come
"fascisti", "rivoluzionari da caffè", "cricca
di borghesi infrolliti dall'occhio amaro e le braccia flosce".
Alle bordate di Kanapa replica Cantoni: "Sarà anche vero, ma
avremmo desiderato che le ragioni della critica avessero sostituito
questa pioggia di accuse". E conclude: "La cultura non è
autonoma perché nulla è autonomo nel mondo dove le cose sono in una
rete di infinite relazioni, ma non è lecito confondere la politicità
della cultura con la politicità della stampa di partito, dei
parlamenti, delle lotte sindacali". È una presa di posizione
inequivocabile, che mette Cantoni automaticamente fuori dalle ferree
regole impartite dal Pci. Se ne accorge ad esempio Luigi Longo, che
nel rapporto al comitato centrale del 23 settembre 1948 dichiara
allarmato: "Ci troviamo di fronte a manifestazioni ristrette per
la loro importanza ma indicative del disorientamento ideologico... Si
è ad esempio riscontrato il caso di un iscritto al Partito che
dileggia su di una rivista filosofica diretta da un membro del Cc
(Comitato centrale, n.d.r.) la lotta dei comunisti francesi contro
l'esistenzialismo e l'irrazionalismo religioso che si mascherano da
marxismo e da socialismo".
Un'altra lettera
Come reagisce Banfi alla
violenta reprimenda del compagno Longo? C'è un'altra lettera
inedita, conservata anch'essa da Clelia Abate, che il filosofo
spedisce al comitato centrale e che precede quella indirizzata a
Cantoni. Il tono della missiva qui è meno alto, fa spicco uno
spiacevole senso di autocritica, anche se riscattato alla fine dalla
dolorosa denuncia della condizione di isolamento in cui a volte opera
l'intellettuale militante. Banfi sposa in pieno le posizioni censorie
del partito, pur salvando il diritto a una critica onesta e
costruttiva all'opera dei compagni. "Ritengo anch'io", egli
scrive, "che la pubblicazione della recensione, per il tempo e
l'occasione in cui venne a cadere sia stato un errore, errore che io
avrei evitato se avessi avuto conoscenza del testo e riveduto il
fascicolo che fu pubblicato in mia assenza (Banfi in quel momento è
in viaggio in Unione Sovietica, n.d.r.). Tanto più mi dolgo di tale
pubblicazione e dell'impressione che può avere suscitato in quanto
io fui il primo in Italia ed in Europa a denunciare il pericolo
dell'esistenzialismo". Il che è anche vero, ma per l'amico e
allievo del fenomenologo Husserl una simile caduta di stile la dice
lunga sulle abiure e il gioco al massacro che il partito esige dai
suoi iscritti, anche quando costoro per talento e cultura appaiono
ben diversi dal tipico funzionario comunista.
Quelle due lettere,
insomma, sebbene esprimano il disagio di Banfi di fronte
all'offensiva con cui il partito reagisce alle posizioni di Cantoni,
fanno toccare con mano la totale mancanza di autonomia del filosofo
nei riguardi delle gerarchie comuniste. La questione fra l'altro ha
un pendant nel dicembre del 1948 alla casa della cultura
milanese. "Di quell' incontro cui partecipano sia Banfi che
Cantoni", ci dice Adolfo Scalpelli che al ruolo che svolse in
quegli anni la casa della cultura milanese ha dedicato un' esemplare
ricostruzione, "non abbiamo purtroppo testimonianze. Non
sappiamo se il tono del dibattito fu quello dello scontro filosofico
o della diatriba ideologica. Ma conosciamo il clima in cui si svolse
la prima riunione della commissione culturale diretta da Emilio
Sereni, circa un anno dopo la comparsa della recensione di Cantoni al
pamphlet di Kanapa. Dal verbale di quella riunione arrivano segnali
sui metodi del lavoro culturale. A posteriori si censura la casa
editrice Einaudi rea di aver pubblicato un pericoloso libro per
l'ambiente comunista di Georges Lefevbre sulla Rivoluzione Francese.
In quella seduta Sereni si chiede anche se un articolo di Carlo
Muscetta dedicato a Goffredo Mameli sia o no marxista. È il metodo
manicheo di dividere il bene dal male, gli autori cattivi da coloro
che sono vittime quasi inconsapevoli di costoro. Nella lista dei
proscritti c'è naturalmente Cantoni, mentre Banfi", ricorda
Scalpelli, "è accusato per il suo atteggiamento di debolezza
nella battaglia contro le eresie ideologiche che avrebbero turbato
anche i buoni rapporti tra i due partiti comunisti".
Dissidio ideologico
Nonostante il dissidio
ideologico, fra l'allievo e il maestro continua il dialogo. Ma le
strade della politica e della cultura ormai divergono. Cantoni è
sempre più attratto dall'antropologia, dalla vita quotidiana nei
suoi segnali da decifrare, collabora a “La Stampa” e in seguito è
tra i fondatori del Giornale di Montanelli. Laico e conservatore.
Banfi rimane nel partito sino alla morte che lo coglie nella
primavera del 1957. Ha ancora il tempo di schierarsi in difesa
dell'intervento sovietico in Ungheria l'anno prima. Continua a
credere che il marxismo solleverà l'umanità dal torpore religioso e
dal dogmatismo scientifico. E più che all'esegesi delle fonti, più
che alla discussione teorica egli guarda al movimento operaio
definendolo momento della coscienza contemporanea. "Il marxismo
di Banfi non fu dal punto di vista teorico una creatura complessa",
ha scritto Fulvio Papi, il suo massimo studioso. Fu qualcosa di molto
più elementare cui il filosofo si sottomise rinunciando a una pur
minima distanza critica, sacrificando per un malinteso senso di
diversità talento e giudizio.
“la Repubblica”, 22
maggio 1993
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