Il post che segue è parte di una recensione che racconta (nel 2010) il libro di uno storico neozelandese sponsorizzato da Oxford e non ancora tradotto in Italiano. La tesi è che l'Europa di oggi, che si sente invasa dagli immigrati, vive ciò che nell'Ottocento fece vivere al resto del mondo. L'invasione è vista soprattutto come "clonazione", come riproduzione nel nuovo ambiente di culture, tecnologie, organizzazioni politiche, perfino della lingua delle società originarie. (S.L.L.)
Lo storico James Belich |
Il saggio Replenishing the Earth: The Settler Revolution and the Rise of the Anglo-World 1783-1939 ("Ri-riempire la terra", di recente pubblicato da Oxford University Press) del professor James Belich, un neozelandese di origine croata, arriva al momento giusto, dato che ruota il caleidoscopio e vede in uno specchio diverso le nostre epoche passate. Noi in Europa stiamo vivendo ciò che l'Europa fece vivere al resto del mondo nel XIX secolo, che si estende dal 1780 al 1939.
«Con tutto il rispetto dovuto alla ricca storiografia sull'imperialismo europeo, sul lungo periodo la maggior parte degli imperi europei in Asia e in Africa si sono rivelati fuochi di paglia», scrive Belich nel suo ampio saggio, che il “Times Literary Supplement” considera l'opera storica più importante - sui processi del mondo moderno - dai tempi di Greater Britain (La piùrande Britannia, 1868) di Sir Charles Dilkes.
Dal 1783 al 1939 un aspetto significativo ebbero i movimenti su larga scala delle popolazioni che «clonavano» le loro società: i russi in Siberia, i cinesi in Manciuria, gli italiani in Argentina. E, soprattutto, gli «anglo» (nella lingua e nelle istituzioni, se non nella nazionalità) insediamenti dei coloni britannici nell'Ovest degli Stati Uniti, in Canada, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda. Tra il 1780 e il 1930 il numero degli anglofoni nel mondo balzò da 12 a 200 milioni. Era una globalizzazione popolare dal basso verso l'alto piuttosto che dall'alto al basso, guidata - o incoraggiata - dallo Stato, proprio com'è l'attuale colonizzazione dell'Europa da parte delle famiglie africane e asiatiche, con le loro culture, i loro usi, la loro religione. Noi non consideriamo gli attuali immigrati imperialisti, ma li vediamo come colonizzatori.
I colonizzatori anglofoni, generando due successive superpotenze mondiali, riuscirono a integrare con successo frontiere e metropoli. Il loro segreto non fu il potere militare. E neppure una presunta superiorità razziale o culturale o istituzionale. Dopo tutto l'ugualmente esplosiva e riuscita colonizzazione dell'«Est» russo e dell'«Est» cinese in Manciuria mancava di quelle qualità, presunte «eccezionali», che erano il protestantesimo, l'individualismo, il diritto anglosassone e la democrazia rappresentativa. Il segreto dell'anglo-riuscita fu piuttosto un incrocio di cambiamenti storici, tra i quali l'improvviso trasferimento in massa, attraverso montagne e oceani, di coloni e mercanti che portavano con sè idee, tecnologie e investimenti. Propaggini di metropoli come Londra e New York.
Ma come riuscirono quei cento abitanti di Chicago - «il posto dell'aglio», secondo l'antica lingua della tribù Potawatomi - che nel 1835 erano sparsi tra sei case, qualche tenda indiana e un albergo, a diventare nello spazio di una vita, cioè nel 1890, la prima città di grattacieli al mondo, con una popolazione di 1,1 milioni di abitanti? E che cosa accadde per far passare Melbourne dagli zero abitanti del 1835 ai 378 mila del 1891?
Allora come oggi arrivò la globalizzazione, alleata alla «grande idea» che l'emigrazione fosse un elemento positivo e non una «escrezione sociale». Questa creò una «mentalità del boom», mentre dalla Rivoluzione industriale, alleata alle tecnologie non-industriali della frontiera, nasceva una crescita rapidissima che integrò le comunità di coloni più vicine ai centri metropolitani di New York e Londra, che si salvarono perché esportavano generi di prima necessità come la carne e la lana. Questa ri-colonizzazione più tardi si trasformò in de-colonizzazione, ma le società dei coloni rimasero come «cloni». Perché, come scrive Belich, «gli imperi europei dominarono un continente e mezzo per pochi secoli, ma le colonie europee arrivarono a dominare 3,3 continenti, Siberia compresa. E continuano. Furono le colonie, non gli imperi, che nella storia dell'espansione europea ebbero la forza di diffondersi e restare ed è tempo che gli storici di quell'espansione si concentrino su di essa». Soprattutto adesso che il processo storico sta tornando come un boomerang - per usare un'espressione rubata agli aborigeni australiani - contro di noi, aborigeni europei.
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