Si svolse a Marrakech, in Marocco, dal 14 al 20 0ttobre 1984 il settimo Congresso mondiale dei poeti.
Il Congresso si tiene ancora, ma, pur riconosciuto dall’Unesco, non è immune dai difetti di questo tipo di iniziative: la mescolanza tra poeti buoni e cattivi, veri e finti, spesso spinge i migliori a disertare siffatti incontri. E’ inevitabile peraltro che la scelta dei luoghi e dei titoli risenta di condizionamenti diretti o indiretti delle grandi potenze e dei grandi poteri, il che ha determinato il progressivo scadimento della manifestazione.
L’ultimo dei Congressi, per esempio, si è svolto nel settembre di quest’anno in Israele con un titolo che in quei luoghi suona, certo involontariamente, macabro e ridicolo insieme: Poesia, aroma di pace per la vita; l’organizzazione, nella composizione stessa dei suoi organismi, oltre all’impronta originaria statunitense (nasce negli Usa) porta seco quella della nuova grande potenza cinese.
A Marrakech a presiedere il congresso fu un politico che era anche un poeta di valore, il presidente del Senegal Léopold Senghor: nel discorso introduttivo sottolineò l’esemplarità e la poeticità delle tradizioni artistiche africane. Fu un successo anche per la qualità. Vi partecipò, tra molti altri, con gli occhi spenti e l’immaginazione accesa, Borges.
“Posto” la parte del discorso di Senghor che venne pubblicata in quell’ottobre dal quotidiano “La Stampa” nel suo supplemento culturale “Tuttolibri”. Le speranze di una "civiltà universale" sembrano ridursi con la globalizzazione neoliberista e l'universo mondo sembra omologarsi a modelli consumistici occidentali. La cosa - a mio avviso - ha qualche rapporto con l'esaurirsi della spinta della Rivoluzione d'Ottobre e dell'esperienza del comunismo novecentesco. Ci vorranno nuove, incisive rivoluzioni per riprendere il cammino interrotto. (S.L.L.)
Lèopold Senghor |
Dopo che l'Asia con i Sumeri, e poi l'Europa con i Greci presero dalle mani dell'Africa la fiaccola della civiltà umana, il nostro continente è cresciuto alla scuola dei suoi due vicini. Tuttavia, dopo ciò che io definisco la Rivoluzione del 1889, segnata da Henri Bergson e dal suo Saggio sui dati immediati della coscienza, gli spiriti, intendo le Lettere e le Arti, sono cambiati molto. Di nuovo si è stabilito il primato della ragione intuitiva sulla ragione discorsiva. Di nuovo, perché così già era per i Greci, compresi Platone e Aristotele.
E' questa Rivoluzione del 1889 che ha permesso all'Africa di rientrare nel concerto della nazioni, in questo ventesimo secolo in cui si elabora la «civiltà dell'universale», per dirla con Teilhard de Chardin. Sono i valori dell'Africa, e per l'esattezza i suoi valori estetici, che hanno, nelle arti figurative, influenzato le scuole francese e tedesca, il cubismo e l'espressionismo, come mi diceva Pablo Picasso. Nella stessa epoca la musica e il canto negro-americani, di origine africana, il jazz, gli spirituals e il blues, invadevano l'Europa e il mondo, e diffondevano molto di più che nuove tecniche espressive: una nuova vita spirituale. E la poesia, anche se troppo spesso lo si ignora, non era da meno.
In realtà, ancora una volta, in questo ventesimo secolo, l'Africa tutta intera, dal Cairo al Capo di Buona Speranza, è ritornata agli avamposti della civiltà umana, e in campi essenziali. Non si tratta delle scienze, ma delle arti letterarie e tra queste, dell'arte primaria, la più importante, la Poesia, cioè la Creazione, nel significato etimologico della parola.
In questa «civiltà dell'universale» che sarà quella dell'Anno 2000, la Poesia riconquista il primo poste, tornando ad essere integrale come già è avvenuto in Africa: ridiventando parole, canti e danza. Per questo in Senegal, nell'ambito del nostro Teatro nazionale Daniel Sorano, noi diamo serate di poesia in cui i milleduecento posti a sedere sono tutti occupati. Le reci¬te, comprese quelle in francese, sono accompagnate da uno strumento musicale, o anche da un'orchestra, e cantate. E sono ritmi per il corpo, a volte anche danzati.
Del resto è alla poesia africana che si ispira il coreografo Maurice Béjart. Non a caso la sua troupe si chiama «Balletto del XX secolo». Egli ha scelto di creare una danza integrale, cioè una poesia che fa vivere in simbiosi la parola, il canto, la musica con la danza. E non è un caso che il padre di Maurice Béjart, Gaston Berger, il fondatore della Prospettiva, una nuova «scienza umana», fosse un meticcio franco-senegalese, nato in Africa.
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