6.11.12

Augusto, l'inesorabile conquista. Un confronto con Stalin (Luciano Canfora)

Nell'agosto del 1992 "il manifesto" scelse come lettura estiva una serie di articoli, corredati da documentazione su avvenimenti del passato che, per analogia o per continuità, si connettevano all'attualità. Il titolo della serie era Ritorno al presente. Da lì ho ripreso il testo che segue, di Luciano Canfora, su Ottaviano Augusto, con un finale suggestivo confronto tra il princeps e Giuseppe Stalin. Era il tempo in cui la compagine che quest'ultimo aveva costruito, l'Urss, non esisteva già più: nè rimaneva un simulacro chiamato "Comunità di Stati Indipendenti". A fine anno anche quello sarebbe crollato. (S.L.L.)

La dinastia giulio-claudia diede vita ad una forma di potere personale a base carismatica che resse l'immensa compagine statale dell'impero romano per circa un secolo. Finì nella catastrofe, con Nerone - di gran lunga al di sotto, come capacità, rispetto ai suoi predecessori -; e dal crollo scaturì una guerra civile sanguinosa che dilaniò l'impero, ne infranse persino, per breve tempo, l'unità statale e l'unità dell'esercito, finché non si riaffermò un nuovo potere personale e carismatico, che prese corpo in una nuova dinastia.
Al principio della dinastia giulio-claudia si susseguono tre figure - Cesare, Augusto, Tiberio - la cui successione solo se considerata col senno di poi può essere ritenuta il segmento iniziale della dinastia. Il potere personale di Cesare non è ancora il principato (che prenderà forma sotto Augusto) e la sua scomparsa precoce accresce enormemente i dubbi e gli interrogativi sulla forma di potere cui avrebbe dato vita. Né il subentrare di Ottaviano (poi autodefinitosi Augusto) può, da nessun punto di vista, considerarsi una successione nel senso dinastico (e, in parte, nemmeno politico) del termine. Ottaviano è figlio adottivo di Cesare, in base ad un discusso testamento (l'ultimo che Cesare redasse): ma questo non implica necessariamente una eredità politica e tanto meno politico-statale.
Ottaviano ha conquistato il ruolo di «successore» di Cesare, contrastando il passo con astuzia non comune, cinismo e ferocia, alleanze strumentali agli altri aspiranti alla «successione» di Cesare; e ha combattuto inculcando in tutti il dato, ossessivamente ripetuto, del proprio ruolo di erede e vendicatore di Cesare; e dopo aver vinto ha agevolato la formazione dell'idea che quanto Cesare aveva abbozzato era solo con lui giunto finalmente a perfetta elaborazione e a compiuta realizzazione.
Nel «partito» di Cesare, nei luogotenenti che con Cesare avevano combattuto in Gallia e poi nella guerra civile contro Pompeo e il Senato, Ottaviano ha avuto i suoi avversari più tenaci. Li ha giocati gli uni contro gli altri, con alleanze tattiche durevoli fintanto che giovavano al suo disegno: unico, fondamentale disegno, di impadronirsi completamente dell'eredità politica e della successione di Cesare. Con Antonio, che molti ritenevano il vero erede di Cesare, non ci fu mai conciliazione vera, e non ha avuto pace finché non l'ha annichilito completamente. Dopo l'ultima sconfitta - narra Svetonio nella Vita di Augusto - «Antonio fece un ultimo tentativo di pace, ma Augusto lo costrinse ad uccidersi e ne rimirò poi il cadavere». Solo con la scomparsa, anche fisica, di Antonio (31 a.C.), Augusto poté considerare di avere saldamente in mano l'intera compagine statale. Erano passati tredici anni dalla morte di Cesare (44 a.C): tredici lunghi armi di inesorabile, programmata, sapiente conquista del potere. Diversamente da Cesare, che affrontava la polemica aperta anche con gli avversari sconfitti, Ottaviano, ormai divenuto Augusto, preferi irreggimentare, conquistandone ad uno ad uno i protagonisti, la vita intellettuale. Creò un'arte volta a glorificare la sua azione politica, le sue parole d'ordine. E soprattutto prevenne e zittì ogni voce che intendesse eventualmente esprimersi in modo dissonante. Gli scrittori cominciarono ad autocensurarsi essi stessi: Virgilio, il maggiore, cancellò un intero pezzo delle Georgiche e lo sostituì con un'insulsa tirata sulle api. Poeti d'amore, come l'elegiaco Properzio, si misero a scrivere odi «romane», in cui si parlava del «principe», nei modi graditi alla sua propaganda. Giovani promettenti e di bassa estrazione sociale, come Orazio, il quale aveva addirittura combattuto a Filippi (42 a.C.) nel campo dei «putschisti» repubblicani che avevano tentato il colpo di Stato uccidendo Cesare ma poi erano fuggiti in Oriente ad organizzare una impossibile resistenza, anche tipi come Orazio furono catturati e portati, piano piano violentandone le intime inclinazioni, a scrivere odi per il vincitore di Azio.
Naturalmente c'era anche chi riteneva di potersi non piegare. Un vecchio amico di Antonio, il generale Asinio Pollione, ritiratosi ormai da tutto già prima di Azio, decise di scrivere un'opera di storia, che prendeva le mosse dal «primo triumvirato», cioè dagli esordi, trent'anni prima, di Caio Giulio Cesare: ma Orazio scrisse apposta un'ode per sconsigliarglielo. E ci fu anche chi decise di non scrivere più nulla, pur di non accodarsi al coro dominante. Proprio perché promotore e artefice di un così forte controllo sulla cultura - per la prima volta nella storia di Roma ! - Augusto sapeva anche concedersi la civetteria della liberalità: come quando scoprì un nipote che leggeva di nascosto un libro di Cicerone, gli tolse dalla manica della tunica il libro, non rimproverò il fanciullo, ma disse pensosamente che l'autore in questione - della cui morte era stato a suo tempo corresponsabile - era «un grande uomo e gran patriota». Anche Bulgakov fu destinatario di una celebre, e generosa, telefonata.
Nella politica estera fu prudentissimo. Ritenne dissennato ogni avventurismo imperialistico, ogni spinta alla conquista. Con i nemici più pericolosi, i Parti, incombenti sulla frontiera orientale dell'impero, preferì stipulare un «patto»: un patto molto sorprendente per i contemporanei (molto meno per i posteri e per gli storici), dal momento che una propaganda diffusa continuava a presentare i Parti come i nemici giurati e inconciliabili dell'impero.
Finché gli fu possibile volle concentrarsi sulla politica interna, nella creazione di un nuovo ordine stabile, e nella repressione di ogni tentativo, di avversari o di oppositori - reale o immaginario -, di togliergli il potere. «In epoche diverse - dice ancora Svetonio - soffocò numerosissime sollevazioni, vari tentativi di ribellione e parecchie congiure». Volle a tutti i costi diffondere un'immagine di stabilità e di serenità, e anche per questo agevolò il proprio culto, ma le notizie sopravvissute nella tradizione bastano a farci capire che la facciata copriva un pericolo costante. Conosciamo il complotto del giovane Lepido poi quelli di Varrone Murena e di Fannio Cepione, più tardi quelli di Egnazio e Plozio Rufo e di Lucio Paolo, marito di sua nipote e così via. Intanto, contro ogni sua speranza, il suo sforzo di individuare, con l'incalzare della vecchiaia, un adeguato successore andava incontro a delusioni.
Quando morì il culto per la sua persona si era così imposto che proprio i senatori - il gruppo sociale che più aveva visto ridursi il proprio potere a fronte di quello crescente del principe - «gareggiarono in zelo per rendere grandiosi i suoi funerali» e «onorare la sua memoria» (Svetonio).
E sebbene avesse lasciato disposizioni minuziose nel suo testamento, la successione di un nuovo «principe» al suo posto non fu facile, tra l'altro sul piano formale. Tiberio gli subentrò, in quanto da lui indicato come «erede di primo grado, per la metà più un sesto». Nondimeno Tiberio, sebbene la sua stessa successione stesse a rappresentare di per sé l'istituzionalizzarsi di un potere personale, volle apparire come un restauratore della legalità: quasi a significare che il defunto predecessore tale legalità appunto aveva, con la sua prassi di governo, di fatto violata. Non convocò un «XX congresso» ma certo volle ridare un'impronta «collegiale» alla direzione politica.
Già alla sua scomparsa peraltro,, ricorda Tacito - storico senatore vissuto sotto la dinastia flavia e poi sotto gli Antonini - Augusto era stato comunque oggetto di un giudizio minoritario e dissenziente. Negli Annali Tacito mette gli uni accanto agli altri gli apprezzamenti e le critiche, quasi a significare che avessero, già nel 14 a.C, quando Augusto moriva, lo stesso peso. Ma non era così. Era semmai così quando Tacito scriveva.
Seguitando in questa lettura parallela di due esperienze imperiali che già per altri versi sono state accostate (Luttwak, La grande strategia dell'impero romano e La grande strategia dell'Unione Sovietica ), si sarebbe tentati di vedere una sorprendente affinità non solo in Stalin/Augusto e Lenin/Cesare ma anche nei non numerosi successori. Di Krusciov si potrebbe dire che assommò in sé un po' di Tiberio (ripristino della legalità e della collegialità) e un po' di Caligola (riforme velleitarie, e «scandali», come l'uso improprio delle scarpe all'assemblea dell'Onu); e di Breznev che ha qualcosa dell'imperatore Claudio (non solo nel grigiore normalizzatore ma anche nel larvato sforzo di «tornare» ad Augusto).
Resta Gorbaciov. Accostarlo a Nerone può dar fastidio, qui in Occidente. Eppure anche Nerone ha esordito con una solenne restaurazione della autorità «senatoria», ed ha poi battuto una strada opposta, finendo come il più detestato degli imperatori. Nessuno ignora, peraltro, che Gorbaciov ha via via smentito i propositi legalitari esordiali assommando in sé poteri multipli, quali - fu scritto a suo tempo da qualcuno - neanche Stalin aveva cumulato. Ed è altresì noto che, alla sua caduta, Gorbaciov si è trovato ad essere il più detestato dei politici in campo, nel suo paese: detestato irreparabilmente da tutti e due gli schieramenti che si fronteggiano. E' ancora ben visto in Occidente: forse sarà questa la sua ultima carta?

"il manifesto", 12 agosto 1992

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