Gian Giacomo Migone, professore universitario a Torino e per lungo tempo direttore di una bella rivista di libri, “L’Indice”, è stato senatore del Pds-Ds dal 1992 al 2001 ed è per questo suo passato, come l’articolo che segue confessa, percettore di un cospicuo vitalizio. La riflessioni che egli fa, dall’interno, sui privilegi della casta parlamentare (ed, en passant, di altre caste) mi paiono - in ogni caso - oneste ed acute, anche se non tutte le proposte risultano condivisibili. L’articolo risale esattamente ad un anno fa e non mi pare che sia stato preso in considerazione né dai parlamentari o dal “governo tecnico-politico” di Monti né dai giornalisti ai quali Migone si rivolge. (S.L.L.)
L'aula di Palazzo Madama |
E’ ancora più grave è l’esclusione dalla normale condizione di cittadini
Cari “Espresso”, Stella, Rizzo, Travaglio e tutti coloro che hanno svolto una meritoria denuncia dei privilegi della casta politica di cui, in maniera intermittente, ho fatto parte e, in quanto beneficiario di un vitalizio di circa 4.000 euro e di un’apposita mutua, faccio tuttora parte. Tutte utili e necessarie, le denuncie di macchine blu, voli di stato, prebende e privilegi, anche se manca quella cruciale. Vi è sfuggita la manipolazione di poteri, a scapito di un corretto funzionamento delle istituzioni, che sottende quel sistema nel suo insieme. Ne risultano lesi la politica democratica, come prevista dalla Costituzione, oltre che i conti dello stato; il cittadino elettore oltre che il cittadino-contribuente. Ogni sforzo di riforma resterebbe monco, oltre che esposto alla pur strumentale accusa di demagogia da parte di coloro che difendono l’esistente, se non affrontasse l’uno e l’altro aspetto.
Quando, nella primavera del 1992, assunsi le funzioni di senatore della Repubblica – destinate a durare fino al 2001 – ebbi l’immediata sensazione che uno dei momenti salienti del mio battesimo di fuoco fosse il colloquio, apparentemente banale, con un bonario impiegato del cosiddetto ufficio competenze di quel ramo del Parlamento. Egli mi elencò stipendio, diaria, persone a mia disposizione, rimborsi forfettari, vitalizio, indennità di buona uscita, assicurazioni, rimborsi di mutua, mensa di alto livello pressoché gratuita, viaggi, cinema, partite di calcio pure gratuiti, cui avevo acquisito diritto. Tra l’altro capii che questa frammentazione dei benefici materiali aveva lo scopo di contenere la voce “stipendio” che, se omnicomprensiva, avrebbe reso trasparente l’effettiva consistenza della retribuzione di cui avrei goduto in quanto membro del Parlamento.
A questi vantaggi materiali, attenuati dal versamento ai gruppi di sinistra di una congrua percentuale degli introiti (non è vero che siamo tutti eguali), se ne aggiungevano altri che potremmo definire psicologici e istituzionali e che arrivai a cogliere nel corso della legislatura. Privilegi che potremmo definire di status e che andavano oltre il giusto rispetto dovuto a un rappresentante del popolo: il titolo di onorevole, destinato a durare oltre la cessazione della carica; il tesserino blu, sostitutivo vita natural durante della fatidica frase: “Lei non sa chi sono io!”; una sorta di disponibilità formale da parte di funzionari parlamentari e ministeriali, non di rado inversamente proporzionale al potere effettivamente esercitato da parte del parlamentare medesimo; un’attenzione eccessiva prestata ai suoi capricci e alle sue esigenze inerenti al collegio di provenienza o, addirittura, di ordine personale e familiare. Ovviamente, tutto ciò somministrato secondo la sensibilità degli interlocutori, non di rado persone integerrime che con cortesia invece aiutavano e tuttora aiutano il parlamentare a svolgere i propri compiti nei limiti consentiti dalle leggi e dai regolamenti vigenti, anche se la tendenza dominante risultava eccessiva al confronto con strutture parlamentari di altri paesi democraticamente più evoluti. Non ultima, una sorta di atmosfera esclusiva di stampo ottocentesco, tipica di certi circoli maschili di origine anglosassone, che faceva pronunciare al neosenatore a vita Gianni Agnelli l’ormai famosa anche se poco citata battuta: “Mi sembra un ottimo club. Soltanto mi sorprende che, anziché pagare la quota associativa, i soci vengano retribuiti”. L’obiezione è ovvia – sono pochi i senatori a godere della condizione materiale in cui si sono trovati ben tre membri di quella famiglia: Giovanni, Umberto e Gianni – e serve, ma soltanto in parte, a giustificare il meccanismo retributivo che sorprendeva e poco interessava a chi pronunciò la battuta in questione. Tuttavia resta l’aura di seduzione, non soltanto materiale, che il Parlamento esercita su chi entra a farne parte. La semplice parola “eletto”, pur tecnicamente appropriata, assume un significato ambivalente, non del tutto compatibile con il ruolo e la funzione di rappresentante del popolo previsti da una costituzione democratica.
Tuttavia, i privilegi che definirei più dannosi non erano e non sono quelli materiali, pur accresciuti oltre misura, a cui è rivolta l’attenzione della pubblica opinione e dei giornalisti che la sollecitano. Nemmeno quelli che ho definito di status, cui pure sono strettamente imparentati. Si tratta, invece, di quei privilegi che, per la durata del loro mandato (e, in taluni casi, oltre) sottraggono i detentori di una responsabilità istituzionale – mi riferisco ai parlamentari, perché quella è la condizione che ho assaporato, anche se sono geometricamente crescenti in proporzione al livello di responsabilità governativa – alla normale condizione in cui versano i cittadini che essi sono chiamati a rappresentare. Mi spiego con degli esempi di rilevanza crescente. Chi deve prendere un ascensore in un ufficio pubblico deve aspettarlo a lungo, non di rado è fuori uso, non vi trova scritto “riservato” alla categoria privilegiata cui appartiene. Chi deve spedire una raccomandata deve fare i conti con una lunga coda, trova un impiegato spesso di cattivo umore e che, alla fine dell’attesa, non di rado comunica che lo sportello ormai è chiuso.
Non trova orari d’ufficio adattati alle sue esigenze, con impiegati solerti, soprattutto non può mandarvi la propria segretaria. Chi si reca in banca non usufruisce di due dei quattro sportelli a lei o a lui riservati. Se di sesso maschile, quando deve tagliarsi i capelli, non trova un barbiere immediatamente disponibile. Quando compila la propria dichiarazione di redditi deve rivolgersi a un commercialista di costo proporzionato alle sue esigenze; non dispone gratuitamente di un personale dei più qualificati, disposto quanto un dipendente dello studio Tremonti, o altri di pari livello, a suggerire tutte le possibili scappatoie che la legislazione consente per salvaguardare i propri interessi privati. Se bisognoso di cure, non usufruisce di un ambulatorio sul proprio posto di lavoro, solerte nel far fronte a ogni suo malore, piccolo o grande che sia. Soprattutto, in casi più gravi, non viene ricoverato in tempi rapidi, non viene curato dal medico o dal chirurgo da lui prescelto in una clinica privata, con il solo onere del 10 per cento dei costi sostenuti dalla sua mutua. Se di rango superiore, non un semplice peone, il privilegiato trova anche una macchina blu a sua disposizione, con un autista professionalmente di buon umore e che non sindaca sulla natura istituzionale della sua destinazione. Se, invece, acquisisce il diritto alla scorta incorre certamente in un debito nei confronti di chi ne valuta l’opportunità ma, oltre allo status symbol e alla protezione dell’ incolumità della sua persona, può anche godere di un supporto alle proprie esigenze minute, non sempre in sintonia con le regole del vivere civile. Né il cittadino comune, che non sia un nababbo, può servirsi di segretari, autisti, personale di scorta che, al di là del proprio contratto di lavoro, condividono in misura minore i privilegi che contribuiscono a erogare e della cui utilità, salvo eccezioni, sono o gradualmente diventano i più convinti assertori.
I questori parlamentari, cui spetta la gestione amministrativa dei due rami del Parlamento, in difesa dalle critiche montanti sui costi complessivi inerenti alle persone dei singoli parlamentari, hanno citato uno studio comparato che dimostrerebbe come quelli degli italiani siano sensibilmente inferiori a quelli erogati a favore dei loro colleghi, ad esempio tedeschi e, soprattutto, statunitensi. Non ho avuto modo di verificare la veridicità di questi dati che, a prima vista, mi sembrano del tutto plausibili. Nel commentarli i questori avrebbero però dovuto precisare che, negli altri paesi menzionati, tali costi sono soltanto in piccola parte attribuibili a benefici alla persona e accompagnati da personale solitamente dipendente dal Parlamento medesimo. Questo personale viene invece selezionato sulla base di criteri di competenza e di merito, raramente prescelto dallo stesso parlamentare o dal suo gruppo di appartenenza. Suo scopo è quello di accrescere l’efficacia operativa del parlamentare e, soprattutto per quanto riguarda il Congresso degli Stati Uniti, il livello di conoscenze inerenti alle sue decisioni, allo scopo di rafforzarne l’indipendenza di giudizio nei confronti dell’esecutivo in carica, ma anche nei confronti del suo partito e del suo gruppo. Si pone, insomma, un problema di allocazione, prima ancora che di entità, della spesa.
Nel nostro caso, invece, il privilegio del parlamentare, oltre che benefici materiali diretti alla sua persona, gli assicura collaboratori in tutto e per tutto sottoposti alla sua discrezionalità di retribuzione e di reclutamento (nel caso di quelli di centrosinistra, dei gruppi di appartenenza). Tengo a precisare che si tratta non di rado di personale estremamente qualificato, talora sfruttato, perchè strutturalmente dipendente dal capriccio di chi lo ha assunto, al di fuori di ogni logica e competenza istituzionale. Soprattutto, si tratta di personale utile ai fini della conservazione del posto di lavoro, suo e del parlamentare, incline alla conservazione dell’esistente più che a un’utile franchezza di rapporti, troppo spesso estraneo alla sua attività legislativa e di vigilanza nei confronti del governo in carica.
Come scrissi, appena eletto, in un editoriale pubblicato nelle pagine di Torino della “Repubblica”, trasformare i parlamentari in tacchini farciti di privilegi non può che produrre una tentazione cui era ed è difficile sottrarsi: un attaccamento eccessivo e impropriamente motivato a quella carica, ma anche una sorta di lealtà di casta, di tipo orizzontale, specificamente orientata verso coloro che, nel gruppo e nel partito di appartenenza, detengono la chiave del prolungamento dei benefici goduti, a scapito di un analogo rapporto con coloro che la Costituzione chiama a rappresentare: i cittadini. Il pericolo, tutt’altro che teorico, è che un piatto così ricco, sensibilmente accresciuto nel corso dell’ultimo decennio, faccia prevalere l’istinto di sopravivenza (parlamentare) a qualunque costo su qualsiasi passione politica e senso del dovere istituzionale derivante dal principio di rappresentanza che dovrebbe governare il rapporto con i cittadini elettori. È vero che il loro consenso, variamente espresso, è pur sempre necessario per portare a buon fine l’agognata candidatura, ma a condizioni che si sono modificate in senso peggiorativo nel corso dell’ultimo decennio. Fino ad approdare al così detto Porcellum che, con la soddisfazione più o meno esplicita delle medesime, affida la candidatura alle gerarchie di partito e di corrente, sottraendo ai cittadini ogni possibilità di scelta diretta della propria rappresentanza. In altre parole, questo diritto, variamente tutelato dal voto di preferenza e dal collegio uninominale, è stato trasformato in un atto di nomina, ovviamente esercitato in proporzione dei consensi espressi a favore della lista (fatto salvo l’eventuale premio di maggioranza), lasciando chi ne beneficia in balia di chi lo ha prescelto, individuo corrente o partito che sia, senza alcun interesse ad ascoltare il popolo sovrano, se non quello dettato dalla propria coscienza.
Ma, come ho già accennato, vi è di più. Soprattutto nel contesto italiano, in cui ai disagi materiali del cittadino medio si aggiungono i disagi derivanti dal cattivo funzionamento di servizi pubblici e anche privati (penso, ad esempio, agli ospedali, alle banche, alle stazioni ferroviarie, agli aeroporti, alle autostrade e ad altri servizi variamente privatizzati), in particolare nei rapporti con gli utenti, non sperimentarli sulla propria pelle determina una condizione di separatezza che astrae il parlamentare dai problemi che è istituzionalmente chiamato a risolvere. Sottrarre i detentori di un potere di vigilanza e di riforma agli inconvenienti vigenti significa rendere più difficile, se non impossibile, la loro eliminazione anche parziale. Per spiegarmi faccio ricorso a quello che il sociologo Pierre Bourdieu (opportunamente insufflato, lo confesso) in un seminario al Collège de France definì il “teorema della carta di gabinetto della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino”. Per anni, il semplice provvedimento di dotare quei luoghi di carta igienica rimase lettera morta. Ma quella riforma divenne impossibile per molti anni successivi dal momento in cui un preside improvvidamente riservò un apposito locale dotato di carta igienica all’uso dei soli docenti e dei dipendenti della facoltà. Nel momento in cui i detentori del potere di modificare lo status quo furono sottratti alle sue conseguenze negative, il provvedimento in questione a favore dell’utenza nel suo insieme per anni è diventato impossibile. Bourdieu ritenne di avere individuato un principio di valore universale. O, per girare il ragionamento in positivo, i mezzi pubblici in Svizzera funzionano perchè il parlamento confederale non prevede le macchine blu. I treni in epoca giolittiana erano puntuali perchè i parlamentari ne facevano largo uso. E così via.
Per citare un altro esempio, i ristoranti delle due Camere – di cui, per chiarezza, chi scrive ha fatto largo uso – non recano danno all’interesse generale soltanto per l’esiguità “politica”, ora abolita, del conto pagato dai suoi avventori, ma per la loro esclusività. Quando, sempre chi scrive, da semplice turista in visita al Congresso degli Stati Uniti, si ritrovò a fare la fila nel selfservice di Capitol Hill, trovandovi il ministro della Difesa Robert MacNamara con il vassoietto in mano, fu colpito da un esempio di vivere civile delle istituzioni democratiche che egli non ha avuto la capacità o la forza di emulare nel Senato del suo paese. È prevalso in lui e nei suoi colleghi il fascino non tanto discreto di quel mix di vantaggio materiale e di aura di esclusività che contribuisce a determinare una condizione di separatezza dei detentori di un potere istituzionale dai doveri derivanti dalla propria funzione di rappresentanza.
Tutto ciò ha costituito e costituisce un danno rilevante al corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, oltre che all’erario. Nel suo insieme, il sistema di privilegi qui sommariamente descritto allontana i parlamentari e, in misura variabile, qualsiasi detentore di un ufficio pubblico dalla cittadinanza, rischiando di deluderne le aspettative e offenderne la sensibilità, perché finisce per ignorarne le esigenze. Inoltre, questo sistema rafforza oltre misura, cioè oltre quanto prescritto dalla Costituzione, il potere di condizionamento di partiti e gruppi assembleari sull’operato del singolo detentore di una responsabilità pubblica. In altre parole, favorisce tra costoro uno scambio regressivo tra privilegi e legittimo, competente esercizio del potere. Lo schema messo in atto è molto semplice: se obbedisci, ti premio e incremento il tuo desiderio di continuare a essere premiato. Ti offro servizi concepiti in maniera tale da servire la conservazione dei tuoi privilegi, non la tua funzionalità istituzionale, con l’approfondimento e la corretta comprensione dei problemi su cui sei chiamato a pronunciarti ed eventualmente a decidere. In ultima analisi, ti trasformo in un peone se non per i poteri di cui disponi in altra sede (solitamente un partito, che in tal modo espropria il Parlamento di buona parte dei poteri conferitigli dal dettato costituzionale). In tal modo si vanifica di fatto l’articolo 67 della Costituzione che sancisce una responsabilità priva di vincolo di mandato. Così, in casi sempre più numerosi, questa garanzia si riduce a una mobilità politica esercitata a scopo di ricatto nei confronti del gruppo originario di appartenenza, in violazione dell’unico, tenue rapporto sopravissuto all’approvazione del Porcellum, ovvero della scelta di lista compiuta dal cittadino elettore.
Nel momento in cui si è acceso un riflettore a servizio dell’opinione pubblica su tale sistema di privilegi – purtroppo limitatamente a quelli di ordine materiale – in mancanza di risposte adeguate di ordine legislativo e regolamentare e, cosa più difficile, di costume, ne risulta colpita la politica in quanto tale al punto di mettere in pericolo l’ordine democratico. Purtroppo i privilegi di casta qui analizzati non sono circoscrivibili alla sfera della politica, ma riguardano larga parte della classe dirigente italiana nel suo insieme, non esclusa la cosiddetta società civile. La sua struttura largamente corporativa – mi riferisco a ordini professionali, associazioni sociali e di categoria, sindacati di imprenditori e di lavoratori, per non parlare di associazioni occulte quali l’Opus Dei e la massoneria – si estende ben oltre i limiti di quella sfera. Alla politica, che per definizione dovrebbe trascendere pur legittimi interessi settoriali all’interno di un ordinamento democratico, resta la responsabilità enorme di essersi trasformata in corporazione, oltre che in casta, per sua natura portata a perpetuarsi attraverso collaudati meccanismi di cooptazione.
Se tale processo, che si trova ormai in una fase avanzata, fosse portato a compimento, segnerebbe la fine della politica, peraltro fortemente compromessa da processi di globalizzazione tuttora incontrollati. Ma tale constatazione non basta a circoscrivere il problema che riguarda la società italiana nel suo insieme oltre che le istituzioni politiche e amministrative. O, più specificamente, per non perderci nella comoda scappatoia antropologica sui vizi degli italiani, la classe dirigente, la cui arretratezza costituisce una peculiarità rispetto a un buon numero di paesi non soltanto occidentali. Un effetto implicito di un raggio di luce concentrato su un oggetto – i privilegi materiali della casta – è quello di oscurare ulteriormente ciò che lo circonda. Chi si occupa di bonus e superstipendi di manager italiani, di gran lunga superiori a quelli di imprese assai più competitive di altri paesi? E di boiardi di stato tuttora esistenti, ad esempio esaminando gli introiti extrastipendio di alti funzionari del Tesoro e della Ragioneria dello Stato? Quando ci ho provato, proponendo all’Aula (cfr. seduta n.69 del 21.10.1996 e successive) una semplice indagine conoscitiva sugli introiti in tutto il settore pubblico, mi sono saltati addosso quasi tutti. La risposta corretta a tale forma di inquinamento luminoso non è, ovviamente, quella di spegnere quell’unico raggio di luce finalmente acceso, bensì di allargarne il perimetro alle altre corporazioni che dominano lo stato e la società italiana e, per gli intrecci che realizzano con i poteri istituzionali (in primo luogo attraverso tangenti che, come ovvio, richiedono corrotti ma anche corruttori), minano il paese nel suo insieme. Non si tratta di assolvere la casta politica, prima responsabile per i poteri che le competono, ma di estendere l’analisi all’intera classe dirigente. Ecco un compito che potrebbero assumere coloro che hanno meritoriamente attirato l’attenzione di un vasto pubblico sulle degenerazioni della casta con l’effetto positivo di scacciare, per l’appunto, ogni sospetto di demagogia o, ancor peggio, strumentalità; con il preciso intento di non rafforzare a spese delle istituzioni democratiche centri di poteri e interessi pure meritevoli di un’attenta analisi. Si tratta, oltretutto, di eliminare ogni pretesto per una resistenza più o meno passiva da parte di coloro che dispongono degli strumenti per affrontare e porre rimedio alle proprie magagne.
E poi? Il dibattito è ormai avviato, anche se i più diretti interessati presi di mira si sono limitati a dichiarazioni più o meno roboanti, finora prive di conseguenze pratiche. Oltre a una corretta comprensione del fenomeno, finora non è emersa alcuna ottica in cui affrontarlo. Nemmeno un chiarimento banale ma essenziale: si tratta di rafforzare le istituzioni democratiche, non di gettare qualche osso all’opinione pubblica. Ad esempio, dimezzare il numero dei parlamentari non serve soltanto a ridurne i costi, ma a rendere maggiormente funzionale il lavoro delle Camere. Ridurre i costi del lavoro dei singoli parlamentari serve nella misura in cui a loro disposizione vengono posti servizi che ne rafforzano la competenza e l’indipendenza di giudizio. Evitare i doppi incarichi, pubblici e privati, è utile e necessario perché significa rafforzare la concentrazione e la capacità di lavoro da parte di coloro che sono investiti di rilevanti responsabilità oltre che precludere conflitti d’interesse; non soltanto per evitare il raddoppio delle prebende di cui potrebbero godere. Escludere i membri di governo dal Parlamento e viceversa significa favorire la stabilità e la separatezza dei poteri che sono chiamati a esercitare secondo il classico schema di Montesquieu.
È nel contesto di questi problemi che deve essere collocato il tassello importante e politicamente scottante dei privilegi e delle prerogative degli eletti a qualunque titolo.
“L’indice” novembre 2011
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