Con titolo mio “posto” una parte dell’articolo di Carlo Lauro, pubblicato da “L’Indice” a inizio 2006 come bilancio del centenario verniano dell’anno precedente. La lettura dell’ottimo Lauro per cui il “progetto” consapevole è la (grande) forza e la (piccola) debolezza dell’opera di Verne mi sembra del tutto convincente e degna di ulteriori scandagli critici. (S.L.L.)
Nonostante la diffusione internazionale della sua opera, e il gran benessere sortito dai diritti d'autore, Jules Verne moriva - cento anni fa esatti, nel 1905 - con il cruccio di non essere considerato un grande scrittore. Il cruccio oggi si attenuerebbe notevolmente se potesse scorgere nelle librerie francesi (in Italia c'è stato un greve silenzio) interi angoli - quasi altarini - con le novità, oltre una ventina, partorite da questo centenario: biografie, studi particolari, dizionari, profili smilzi, testi sontuosamente illustrati. Probabilmente pochi i contributi originali, dato che negli ultimi cinquantanni Verne è stato sviscerato da storici, semiologi, scienziati, strutturalisti, appassionati, ed è stato oggetto di convegni e "numeri speciali" di tante e diverse riviste letterarie (dai "Cahiers de L'Herne" al "Magazine Littéraire", a "L'Arc").
Quando, intorno al 1863, Verne inizia la serie dei Voyages extraordinaires, il romanzo d'avventure -quello di Gabriel Ferry o di Gustave Aimard - è un pallido residuo dell'esotismo romantico, destinato soprattutto a un pubblico adolescenziale e prevalentemente incolto. Non è neanche un "genere" ancora ben codificabile, ma forti pregiudizi culturali e accademici non permettono tout court accostamenti alla Letteratura (non c'è nulla, insomma, che anticipi il decisivo e rivalutativo articolo di Jacques Rivière del 1913 sull'avventura). Verne avverte benissimo le barriere, è convinto che i critici preferiscano Balzac a Dumas, non foss'altro che per una questione di generi. Da qui dunque la solida ambizione del progetto, complice un genio assoluto dell'editoria come Hetzel. L'intitolazione (Viaggi straordinari) è impegnativa, non da meno l'eco del sottotitolo (Mondi conosciuti e sconosciuti). Non c'è posto per evasioni infantilmente esotiche, non un canovaccio passatista con corsari e pirati; i Voyages sono abbarbicati al presente, a un diciannovesimo secolo che semmai lancia i suoi tentacoli nel ventesimo e oltre. In questo radicamento ostinato nella modernità, l'avventura sembra quasi una condizione necessaria ma non sufficiente: si sviluppa, certamente, ma è una cinetica che muove sempre da uno spunto forte, scientista o politico, dell’extraordinaire.
Sotto il segno di sfide impressionanti, scommesse planetarie, crittogrammi insolubili (quelli che piacevano a Raymond Roussel), sortiscono giri del mondo in tempi record, escursioni al centro della terra, allunaggi, isole a elica, città galleggianti, tentativi di spostamento dell'asse terrestre, meteoriti e vulcani che contengono oro, conquiste polari. Alla base del progetto Verne-Hetzel allignano espliciti intenti didattici - education et récréation - e di conseguenza l’extraordinaire si nutre di migliaia di certosine schedature che, ricorrendo alla vertigine dello scibile, elaborano quella febbrile e golosa infinità di spunti, significati, notizie, approfondimenti, dettagli, tecnicismi, che conferiscono ai testi una solidità informativa da prix scolaire (e che talvolta sortiscono il miracolo delle elencazioni poetiche di Ventimila leghe sotto i mari). Le intuizioni scientiste, così spiazzanti per l'epoca, sono le più emulate dai contemporanei (Paul d'Ivoi ci prova con il suo ciclo-contraltare di ventuno Voyages excentriques; Robida con delle scanzonate parodie): e sono quelle che da sempre compongono l'icona più popolare di Verne, oggetto anche di qualche smitizzazione inevitabile. La pretesa verniana, scriverà Roland Barthes nel '55, sarebbe quella di un controllo borghese-progressista sui mondi più lontani, ma nulla, in fondo - secondo il semiologo - è più chiuso, compatto e ovattato dei suoi spazi; isola misteriosa o sottomarino di Nemo, l'ideale dei Voyages è sempre e comunque il piacere infantile della finitezza, del riparo, dell'inventario, soprattutto del possesso: la "vera poetica dell'esplorazione", conclude Barthes, non pertiene al Nautilus ma al Bateau ivre di Rimbaud.
Ma più si squadernano i Voyages, e soprattutto quelli più sociali e politici, meno il confinamento infantile - sia pure nei termini brillanti di Barthes - è accettabile. La vena verniana resta anzi estranea all'esotismo più accattivante (quasi ignora l'epicentro asiatico "visitato" da tutti i migliori confrères: da Jacolliot a Boussenard a Salgari) e si fa prevalentemente eurocentrica, attenta ai malesseri del vecchio scacchiere quali si leggono in Michele Strogoff (Russia zarista), in Mathias Sandorf (lotte magiare contro l'Impero asburgico) o in L'Arcipelago in fiamme (rivolta dei Greci al giogo ottomano). E anche capace di uno scorcio pre-kafkiano come quello di I cinquecento milioni della Bégum (1879), con i minacciosi altiforni e il tetro, gigantesco cannone della città di Stahlstadt, inquietante metafora di quella Prussia che aveva sconfitto la Francia nove anni prima. Stahlstadt e il suo acciaio, a loro volta, sono una pallida anticipazione della blackland del postumo La straordinaria avventura della missione Barsac, centro basato sullo sfruttamento dei neri, creato da un criminale demente e da uno scienziato irresponsabile: la chiusa è un bagno di sangue notturno e un'apologia della parola "fine”.
Dalle felici città scientifiche e saint-simoniane che si era divertito a immaginare (Antekirrta, Franceville) Verne è giunto per gradi a queste anti-utopie, al pessimismo sull'uso della scienza, a previsioni di guerra totale. Sempre meno bonaria è anche l'ironia sul capitalismo americano (spietata nelle descrizioni metropolitane della Milliard-City di L'isola a elica), sempre meno latente una vena anarchica che se, secondo alcuni, è già strisciante nello spirito autonomistico ed emancipativo di tutte le "robinsonate" - Isola misteriosa inclusa - diviene ideologica in un altro postumo, I naufraghi del Jonathan.
Certamente, allora, Verne sentiva stretto il cliché del romanziere d'avventure alla Boussenard; da qui il "cruccio" e le alte aspirazioni. Ne sono altre prove i tentativi di emulare l'amato Edgar Poe in Il Chancellor (episodio della zattera) o di "continuarlo" in La sfinge dei ghiacci; di riproporre le infanzie infelici di Dickens in P'tit bonhomme o il successo del Conte di Montecristo in Mathias Sandorf; di creare curiose variazioni al romanzo gotico (Il castello dei Carpazi), al poliziesco (I fratelli Kip); emblematiche poi le citazioni colte e le innumerevoli limature delle bozze per le altezze dello stile…
Ma è forse vero che proprio l’aspirazione forzata alla letteratura e soprattutto abbiano imbrigliato il soffio più libero e irriducibile dell’avventura, creandole attorno una sorta di controllo troppo “consapevole”, un’aura ingegneristica…
“L’Indice”, anno XXIII n.1, gennaio 2006
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