Paolo Poli |
Il Manuale minimo di Dario Fo può essere davvero uno strumento efficace per chi pratica oggi le scene e vuol diventare attore?
La grandezza, della figura di Fo è proprio questa: che è anche una figura di maestro. A me ha insegnato moltissimo, fin da quando l'ho conosciuto molti anni fa a Milano. Mi parlava del problema dei costi, di tutte le economie che si possono fare quando si produce uno spettacolo, mi spiegava come andare avanti con pochi mezzi, come moltiplicare i borderò, dove infilzarmi, come sopravvivere.
Nel Manuale minimo, però, si affrontano altri temi. Fo, riprendendo sei lezioni-spettacolo tenute al teatro Argentina, spiega la necessità di ricuperare la tradizione popolare del teatro per sviluppare un'efficace tecnica drammaturgica e recitativa. Di qui un complesso di consigli, regole, informazioni e suggerimenti rivolti agli attori.
Chi vuol fare qualcosa a teatro, in realtà non cerca consigli, perché deve trovare la propria strada. Ma tutto serve. E Fo in queste lezioni-spettacolo, dove recita, e poi spiega pure come fa a recitare, è bravissimo. Si manifesta tutto, ne fa una vera e propria epifania personale. Poi anche per scritto, nel Manuale minimo, questi ammaestramenti continuano a servire, perché acquistano il prestigio della carta stampata, e ognuno li legge, e come nei vaticini della Sibilla Cumana ci può trovare tutto quello che vuole.
Dario Fo |
Veniamo al problema principale: il ricupero della tradizione popolare del teatro. Non si può negare che Dario Fo riesca a portare efficacemente sulla scena, scatenandone un'immediata comicità, testi che potrebbero apparirci molto lontani, e oggi del tutto inutilizzabili, come le giullarate medioevali.
Il fatto è che questi testi se li inventa lui.
Eppure Fo si mostra estremamente accurato nel tentativo di documentarsi storicamente, sia sui testi che sulle tecniche della recitazione e dello spettacolo: chiama in causa esperti e studiosi, entra in polemica con altri, e fornisce tanto di riferimenti, testimonianze e bibliografia.
Certo in biblioteca si trovano molti testi, più o meno autentici, e molti dati, più o meno veri. Ma poi la pagina vive sulla scena quando se ne riappropria e la recita l'attore. Per questo non ha nessuna importanza se il testo sia autentico o no, se tutta quanta la tradizione che si ricostruisce sia o non sia finta. All'epoca di Sem Benelli nessuno si chiedeva se tutti quegli orpelli e quelle medioevalerie fossero veri o falsi, finché sembrava che funzionassero. Quando qualche anno fa ho messo in scena La cazzaria, una commedia del cinquecento, Ugo Volli si chiedeva se era proprio un'opera rinascimentale, o se non fosse piuttosto il testo di una rivista goliardica degli anni cinquanta. Ma appunto, che importanza aveva? Tutte le opere che si recitano a teatro sono dei falsi in atto pubblico, perché vivono solo nella riappropriazione dell'attore. I testi che Dario Fo recita, apparirebbero comunque un'altra cosa, e molto meno belli, senza di lui. Così come sono un 'altra cosa, e molto meno belle, tutte le commedie che ha scritto, quando non è lui a recitarle.
"L'Indice", anno IV n.8, ottobre 1987
"L'Indice", anno IV n.8, ottobre 1987
Nessun commento:
Posta un commento