Sul finire degli anni Settanta progettai, senza poi realizzarlo, un libro-intervista su Manzoni e Leopardi; più propriamente un’autointervista. Mi sono rimaste un pezzo di prefazione, due foglietti di schema e poche pagine già stese (un paio di domande e risposte). Dopo tanti anni e tanti radicali mutamenti mi sembrano contenere riflessioni tuttora degne di una qualche attenzione. Qui riprendo una sorta di premessa sulle ragioni di un testo costituito da domande e risposte. Non ho fatto cambiamenti rispetto al testo manoscritto a penna, salvo le indispensabili correzioni ortografiche e sintattiche. (S.L.L.)
Quando frequentavo il Liceo, oltre al “suntino”, fra gli strumenti che una certa editoria parascolastica (Ciranna, Bignami, Sandron) metteva a disposizione degli studenti e in particolare dei candidati agli esami di maturità c’era il “questionario”: serviva a prevedere e a prevenire le domande d’esame, a “parare i colpi”. Ad ogni domanda corrispondeva, pronta e scodellata, la risposta, una risposta “equilibrata”, cioè piatta e incolore, un concentrato di senso comune e di retorica, a uso e consumo della pigrizia intellettuale degli studenti peggiori.
Eppure credo che anche quegli insulsi libercoli denunziassero, certo inconsapevolmente, un vizio di fondo della cultura liceale, una cultura spesso paga di “belle lezioni” e “belle esposizioni”, incapace però di porre domande, di esigere risposte. Col rischio di sfondare una porta aperta dirò che di domande, nonostante tutti i cambiamenti nella scuola, c’è ancora tanto bisogno.
Che cosa significa il successo editoriale, anche se relativo ad altri campi del sapere, della formula del libro-intervista se non appunto il bisogno, non ancora soddisfatto, di una cultura che proceda per domande, che ponga domande, che sia vivificata da una catena ininterrotta di “come?” e di “perché?”. Libri come quello di De Felice sul fascismo e di Amendola sull’antifascismo, di Lama sul sindacato o di Ingrao sulla “terza via” e sono solo pochi esempi tra i tanti possibili) valgono non solo per le risposte che danno, sempre discutibili (nel seno originario della parola) quanto e soprattutto per gli interrogativi che pongono. In questa luce le risposte sono essenzialmente un termine di confronto, uno stimolo a personali verifiche, che potrebbero dare risultati antitetici rispetto a quelle stesse risposte. Mi pare, insomma, che lo strumento dell’intervista possa trovare nella scuola un suo campo di efficace applicazione, giacché – a differenza del vecchio questionario – non fornisce risposte neutre e generiche, ma personali, orientate, caratterizzate. Senza sostituirsi all’insegnante i libri-intervista possono aiutarlo nel ruolo di stimolatore di bisogni culturali. In ultima analisi si tratta di spingere gli studenti a farsi un’opinione propria, ad agguerrirsi per documentarla, sostenerla e confrontarla con altre, perché ne sia verificata, corretta o arricchita; di invogliarli a porre ed a porsi nuove domande.
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