6.11.12

Jules Verne. Lo scienziato e l'ignorante (di Michel Foucault)


Ho avuto sempre il sospetto che lo scientismo positivistico di Jules Verne fosse una leggenda e che il suo rapporto con la scienza fosse quanto meno ambiguo, di attrazione e di terrore insieme. Mi pare che il brano qui "postato", di un grande "decrittatore" come Foucault, lo dimostri con argomentazioni di grande efficacia. (S.L.L.)
Una illustrazione per "Dalla terra alla luna"

Nei romanzi di Jules Verne lo scienziato è una figura marginale. Non è a lui che capita l'avventura, per lo meno non ne è l'eroe principale. Formula delle teorie, dispiega un sapere, enuncia le possibilità e i limiti, osserva i risultati, attende con calma di constatare che ha detto la verità, che il sapere, eleggendo in lui la propria sede, non è ingannato. Maston ha fatto tutti i calcoli ma non è lui ad andare sulla luna, a sparare il cannone del Kilimangiaro. Cilindro registratore, svolge un sapere già costituito, obbedisce agli impulsi, funziona da solo nel segreto del suo automatismo e produce dei risultati. Lo scienziato non fa scoperte, ma è colui in cui è registrato il sapere, vuoto almagesto di una scienza che si elabora altrove. In Hector Servadac lo scienziato non è che una stele epigrafica: non per nulla si chiama Palmyrin Rosette.
Lo scienziato di Jules Verne è un semplice intermediario. Matematico, misura moltiplica e divide (come Maston o Rosette); tecnico puro, utilizza e costruisce (come Schultze o Camaret). É un homo calculator, nient'altro che un meticoloso «2πr». Perciò è distratto, non solo di quella sbadataggine che la tradizione attribuisce agli scienziati, ma di una distrazione più profonda: estraneo al mondo e all'avventura, egli aritmetizza, estraneo al sapere inventivo, egli lo cifra e lo decifra. Questo lo espone a tutte le distrazioni accidentali che il suo essere profondamente astratto manifesta. Lo scienziato è sempre dalla parte del difetto. Nei casi peggiori, incarna il male (Face au drapeau); o lo rende possibile senza volerlo né vederlo (Mission Barsac); oppure è un esiliato (Robert); oppure un innocuo maniaco (come gli artiglieri del Gun-Club); oppure, se è simpatico e quasi un eroe positivo, proprio dai suoi calcoli sorge una complicazione (Maston sbaglia ricopiando le misure della Terra). Comunque lo scienziato è colui a cui manca qualcosa (basti ricordare il cranio lesionato e il braccio artificiale del segretario del Gun-Club). Di qui un principio generale: scienza e difetto sono legati; c'è un rapporto proporzionale: meno lo scienziato sbaglia, e più è malvagio, o pazzo, o fuori del mondo (Camaret); più è un personaggio positivo, e più sbaglia (Maston, come suggerisce il nome e come il racconto lo raffigura, è un condensato di errori: si è sbagliato sulle masse , quando si è messo a cercare in fondo al mare il proiettile fluttuante, e sulle tonnellate quando ha voluto calcolare il peso della terra). La scienza parla solo in uno spazio vuoto.
Nei confronti dello scienziato, l'eroe positivo è l'ignoranza fatta persona. In alcuni casi (Michel Ardan) entra nell'avventura autorizzata dalla scienza, e se penetra nello spazio riservato al calcolo, lo fa quasi per gioco: vuole vedere. Altre volte viene intrappolato senza volerlo. Certo, nel susseguirsi degli episodi, impara; ma il suo ruolo non è mai quello di acquisire il sapere per diventarne a sua volta padrone e detentore. Semplice testimonio, è lì per raccontare ciò che ha visto; oppure ha la funzione di distruggere e cancellare finanche le tracce del sapere infernale (è il caso di Jane Buxton in La mission Barsac). E, a ben guardare, le due funzioni collimano: in entrambi i casi si tratta di ridurre la (favolosa) realtà alla pura (e fittizia) verità di un racconto. Occorre sottolineare che in generale i grandi calcolatori di Jules Verne si impongono o ricevono un compito assai preciso: impedire che il mondo si fermi per effetto d'un equilibrio che gli sarebbe fatale; ritrovare fonti d'energia, scoprire il fuoco centrale, prevedere una colonizzazzione planetaria, sfuggire alla monotonia del regno umano. Si tratta insomma di lottare contro l'entropia. Di qui (se si passa dal livello della favola a quello della tematica), l'ostinato ricorrere di avventure legate al caldo e al freddo, al ghiaccio e al vulcano, ai pianeti in fiamme e agli astri spenti, alle vette e agli abissi, all'energia propellente e al moto che si esaurisce. Incessantemente, contro il mondo più probabile — mondo neutro, bianco, omogeneo, anonimo — il calcolatore (geniale, pazzo, cattivo o distratto) permette di scoprire un fuoco ardente che assicura lo squilibrio garantendo il mondo dalla morte. Il difetto insito in chi calcola, l'intoppo che la sua follia o il suo errore introducono sulla grande superficie del sapere, precipitano la verità nel favoloso avvenimento in cui essa diventa visibile, in cui le energie si effondono di nuovo a profusione, in cui il mondo è restituito a una nuova giovinezza e in cui, tutti gli ardori fiammeggiano illuminando la notte. Fino all’istante (infinitamente vicino al primo) in cui l’errore si dissipa, in cui la follia sopprime se stessa, in cui la verità è restituita al suo troppo ovvio susseguirsi, al suo indistinto brusio.
Risulta evidente la coerenza trea i modi della finzione, le forme della favola e il contenuto del temi. Il grande gioco d'ombre che si svolgeva dietro la favola era la lotta tra la probabilità neutra del discorso scientifico (questa voce anonima, monocorde, senza asperità, proveniente chissà da dove, che si inseriva nella finzione imponendole la certezza della propria verità) e la nascita, il trionfo e la morte del discorsi improbabili in cui andavano profilandosi, per poi sparire, le figure della favola. Contro le verità scientifiche interrompendone la gelida voce, i discorsi della finzione tendevano continuamente a risalire verso l'improbabilità assoluta. Sotto questo mormorio monotono che annunciava la fine del mondo essi facevano scaturire l'ardore asimmetrico del fortuito, dell'inverosimile caso, dell'impaziente irragione. I romanzi di Jules Verne sono la «negentropia» del sapere. Non la scienza diventata ricreativa; ma la ricreazione partendo dal discorso uniforme della scienza (…) I temi e la favola dei racconti di Jules Verne li apparentano ai romanzi di «iniziazione» o di «formazione». Ma da questi la finzione li differenzia radicalmente. (...)
I Viaggi di Jules Verne obbediscono a una legge diametralmente opposta: una verità si manifesta, con sue leggi autonome, dinnanzi agli occhi stupidi degli ignoranti, e disincantati di chi detiene il sapere. Questa nuda tovaglia, questo discorso primo di soggetto parlante sarebbe rimasto chiuso nel suo essenziale ritiro, se la condizione anomala dello scienziato (il suo difetto, la sua malvagità, la sua distrazione, lo strappo che forma nel tessuto sociale) non l'avesse spinto a mostrarsi. Grazie a questa sottile fessura i personaggi possono attraversare un mondo di verità che rimane indifferente, richiudendosi in se stesso non appena sono passati. Quando tornano hanno indubbiamente visto e imparato, ma nessun mutamento si è prodotto sulla faccia della terra e nel profondo del loro essere. L'avventura non ha lasciato cicatrici. E lo scienziato «distratto» torna nel ritiro essenziale del sapere: «Per volontà del suo autore, l'opera di Camaret era andata interamente distrutta e niente avrebbe trasmesso alle età future il nome del geniale e pazzo inventore». Le varie voci della finzione vengono riassorbite nel mormorio amorfo della scienza, e il moto ondeggiante del più probabile copre con la sua sabbia infinita i rilievi del più improbabile. E questo fino alla probabile scomparsa e ricomparsa di tutta la scienza, che Jules Verne nell'imminenza della morte, promette nell'Eternel Adam.

Da La tecnica narrativa di Jules Verne in Il giro del mondo in ottanta giorni, Einaudi 1966

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