Per la prima volta nel 1980, poi a più riprese negli anni successivi, a Dario Fo e Franca Rame fu negato il visto per gli Stati Uniti. Erano schedati come comunisti. Ne nacquero proteste, anche clamorose: a New York si svolsero ben due manifestazioni di solidarietà con la partecipazione numerosa di intellettuali e artisti.
Finalmente, nel 1984, il veto fu superato e a Dario Fo e Franca Rame fu consentito tra quell’anno e il 1986 di svolgere due tournée negli States e uno degli impegni di Fo fu quello di spiegare ad ambienti di sinistra molto diversi da quelli europei il senso della propria attività di artista socialmente e politicamente impegnato.
Il mensile di libri “L’Indice”, a questo proposito, tradusse e diffuse tra il pubblico italiano un documento significativo: il testo di un’intervista raccolta da Anders Stephanson e Daniela Salvioni, apparsa sulla rivista “Social Text” di New York (n.16, 1986-87). L’articolo è siglato c.v., sigla che dovrebbe riferirsi al traduttore, oltre che all’estensore della premessa, Claudio Vicentini, suppongo. (S.L.L.)
Finalmente, nel 1984, il veto fu superato e a Dario Fo e Franca Rame fu consentito tra quell’anno e il 1986 di svolgere due tournée negli States e uno degli impegni di Fo fu quello di spiegare ad ambienti di sinistra molto diversi da quelli europei il senso della propria attività di artista socialmente e politicamente impegnato.
Il mensile di libri “L’Indice”, a questo proposito, tradusse e diffuse tra il pubblico italiano un documento significativo: il testo di un’intervista raccolta da Anders Stephanson e Daniela Salvioni, apparsa sulla rivista “Social Text” di New York (n.16, 1986-87). L’articolo è siglato c.v., sigla che dovrebbe riferirsi al traduttore, oltre che all’estensore della premessa, Claudio Vicentini, suppongo. (S.L.L.)
Un'immagine da uno spettacolo di solidarietà per il visto negato a Dario Fo e Franca Rame alla Townhall di New York (Archivio Rame) |
Quando Franca e io abbiamo cominciato a fare teatro, negli anni cinquanta, avevamo già idee politiche molto precise. Tuttavia, per ciò che si pensava allora, il nostro non era teatro politico in senso stretto perché non ci rivolgevamo direttamente alla classe con cui ci sentivamo solidali, ma alla borghesia. La nostra satira antiborghese, per lo stile e il linguaggio che usavamo, appariva comunque scandalosa, e naturalmente eravamo a nostra volta attaccati. Fin dall'inizio ci furono tentativi di censurarci e di toglierci le sale. Qualcuno di noi era convinto che dovessimo perseverare, continuando nella stessa direzione, ma io pensavo che fosse invece necessario cambiare per sfuggire alla campagna che voleva ridurci al silenzio. Così per un po' passammo al cinema. Cercavamo di criticare, in uno stile simile a quello di Tati, cose come il giornalismo sensazionalistico, o l'esigenza sfrenata della competizione e del carrierismo. Ma fu un fallimento. Poi, all'inizio degli anni sessanta cominciammo con le farse popolari. Erano di uno stile più o meno ottocentesco, ma si fondavano sulla tradizione della commedia dell'arte. Avevamo infatti finito con il capire che non si poteva adottare uno stile moderno, come fine in sé, ma era necessario cercare le radici della nostra cultura. Non potevamo, insomma, riuscire a produrre niente di veramente moderno e progressista senza rifarci alla tradizione della cultura popolare. E, al contrario dell'avventura cinematografica, il nuovo tentativo fu un successo.
Però non tutto quello che appartiene alla cultura popolare è progressista.
Credo che ciò che è autenticamente popolare sia di per sé sovversivo. I temi essenziali della cultura popolare ruotano sempre intorno alla fame, alla tragedia della sopravvivenza, al problema della dignità, della libertà. Già solo l'agitare questi argomenti è sovversivo.
Eppure la tradizione popolare ha in sé anche elementi di sopraffazione, come l'asservimento della donna.
E' una tradizione che comprende in sé diverse componenti dialettiche. C'è la componente educativa che cerca di contrastare la cultura egemone, e c'è la componente che potremmo chiamare "popolaresca", che si adatta invece al clima dominante. Così si cade spesso nell'equivoco sul termine "popolare", e si definisce tale tutto ciò che è volgare e comune. Dobbiamo del resto riconoscere che c'è anche una cultura di origine borghese che è in parte rivoluzionaria e in parte reazionaria e contiene elementi misogini di oppressione della donna.
Verso la fine degli anni sessanta siete passati dal teatro istituzionale borghese agli ambienti della classe operaia.
Cominciavamo a renderci conto che nonostante il nostro innegabile successo rischiavamo di essere trasformati in qualcosa di simile a un alka-seltzer, o di diventare una sorta di sauna energetica. Così abbiamo deciso di abbandonare il teatro istituzionale e di costruire una nostra struttura operativa. Ci siamo collegati a spazi proletari come le case del popolo, nate nell'ottocento come centri culturali, e poi cadute in disuso, ridotte per lo più a sale per giocare a carte. Abbiamo inventato una forma di teatro adatta a questi spazi, spettacoli su argomenti controversi che suscitavano lunghe discussioni, dopo la rappresentazione. Gli argomenti dei nostri spettacoli nascevano dalle esigenze e dai desideri che venivano fuori nel dibattito: la catena di montaggio, la strategia della lotta di classe, lo sfruttamento trionfalistico della resistenza da parte del Pci, e così via.
In che senso tutto ciò non era più un'"alka-seltzer" o un semplice tranquillante per la classe operaia?
Il lavoratore conosce cento parole, il padrone ne conosce mille. Questa è una delle ragioni per cui il padrone comanda. La cultura è un modo di dominare, e senza una cultura opposta a quella egemone non ci può essere rivoluzione. Gramsci ci ha detto che per sapere dove vogliamo andare dobbiamo conoscere da dove veniamo. E' perciò essenziale recuperare la nostra cultura sottraendola alle mistificazioni operate dal potere costituito. E dobbiamo anche impossessarci ed estendere gli aspetti progressisti della cultura borghese, che sono stati almeno in parte rubati, in primo luogo, alla cultura popolare.
Quali sono stati i vostri rapporti con il Pci?
Quello che facevamo, e soprattutto la risposta che ricevevamo all'interno della classe operaia suscitavano nel Pci perplessità. Era qualcosa che il partito non controllava, che cresceva dal basso insieme a molti altri movimenti alternativi affini a noi. Perciò il Pci decise di sbarazzarci di noi, proibendoci l'uso delle case del popolo. Naturalmente anche la polizia ci stava addosso: ed eravamo praticamente sempre sotto processo. Eppure noi continuavamo a recitare, nelle fabbriche e nelle scuole occupate, nelle piazze, nelle chiese sconsacrate, e vedendo che potevamo andare avanti anche senza di lui, il Pci ha tentato di ristabilire i rapporti. Adesso tanto il partito quanto i sindacati ci invitano a recitare, e proprio il Pci ha organizzato il nostro spettacolo più grandioso, con un pubblico di 70.000 persone. I nostri rapporti, in altri termini, sono fluttuanti.
Che posizione avete preso di fronte all'intensificarsi dello scontro politico e agli attentati fascisti alla fine degli anni sessanta?
Abbiamo preso immediatamente posizione contro il meccanismo di provocazione violenta e il terrorismo di destra sostenuto dalla complicità degli elementi fascisti all'interno dello stato. Tutti noi sapevamo della Loggia P2, e delle connessioni tra la polizia e i primi atti di terrorismo...
"L'Indice", anno IV n.8, ottobre 1987
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