Giorgio Pasquali |
Il brano che segue è la prima parte di un “ritratto” di Giorgio Pasquali disegnato da Gennaro Perrotta, dedicata al “maestro” (mentre la seconda è dedicata allo studioso).
Pasquali, tra i firmatari nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, è, probabilmente, il maggiore filologo classico del Novecento italiano. “Filologo di stretta osservanza” amava definirsi, ma questo non lo faceva meno “storico”. Nel suo rigoroso attaccamento alla “parola”, alla sua analisi e al suo svisceramento, Pasquali apre spesso prospettive altrimenti impensabili, produce illuminazioni improvvise su autori, opere, intere epoche. Le sue Pagine stravaganti (Sansoni) dovrebbero fare parte del corredo di ogni intellettuale italiano che si rispetti, non tanto per i temi e i contenuti, che sono appunto “stravaganti”, ma per l’approccio razionale e laico, per la mancanza di pregiudizi.
Gennaro Perrotta |
La ragione per cui recupero e rilancio la sua prima parte è presto detta: il “maestro” che Perrotta con calore disegna è quello che avrei voluto. E anche quello che avrei voluto essere. Mi convince soprattutto la qualità indicata come fondamentale nel “maestro”: la benevolenza. Se non si vuol bene alle ragazze e ai ragazzi che – crescendo - faticosamente cercano la loro strada e il loro posto nel mondo, cultura, metodologia e didattica vanno a farsi benedire: non solo non si è “maestri”, ma non si riesce neanche a diventare buoni insegnanti. Nel mio piccolo ho sempre cercato di voler bene agli scolari: confesso che a volte è stato faticoso. (S.L.L.)
Senza scrivere libri, memorie, articoli, egli potrebbe vivere; senza insegnare, vivere non potrebbe.
Infatti, egli insegna sempre, dappertutto ed a tutti: ai suoi scolari, a tutti gli studenti di lettere di Firenze e di Pisa, ai suoi colleghi di altre discipline, ai ragazzi di liceo e di ginnasio che conosce, alle persone che non conosce e che incontra per la prima volta.
E insegna a scuola, a casa, in biblioteca, a teatro, al caffè, per la strada.
A vederlo sempre circondato dai suoi ragazzi, ci si domanda stupiti come quest'uomo dinamico trovi il tempo di leggere, di scrivere, di meditare. Egli ride, scherza, discute con essi, e comunica ad essi il suo entusiasmo per la filologia. A vederli insieme, lui così cordiale, loro così alacri e festevoli, non si saprebbe dire se egli li ha resi simili a se stesso, o se è divenuto egli stesso simile a loro.
Quando Pasquali conosce uno scolaro nuovo gli cala addosso come un falco. Alle prime parole che sente, indovina subito di dov'è. Poi gli spiega le caratteristiche del suo dialetto, qualunque esso sia, da Susa a Siracusa; gli domanda egli stesso qualche particolare; gli fa pronunziare qualche suono. Così insegna e impara insieme. Ma lo scolare esterrefatto ha l'impressione che Pasquali sappia parlare il suo linguaggio natio molto meglio di lui. Poi comincia la gragnuola delle domande: famiglia, parenti, amici, professori avuti nelle scuole medie, simpatie, antipatie, libri letti, gusti, capricci, tutto è passato in accurata e tempestosa rassegna.
All'uomo, come allo studioso, anche le cose più piccole eccitano una curiosità insaziabile. Quando ha spremuto dal ragazzo tutto quello che può, finalmente Pasquali lo lascia in pace. In pace per modo di dire: dopo qualche giorno, ricominciano gl'interrogatori, le discussioni, i colloqui. Pasquali è maestro nato. Del maestro egli ha la qualità fondamentale e più rara: la benevolenza.
Io lo conobbi in un'auletta squallida dell'Istituto di Studi Superiori di Firenze, in uno squallido mattino di novembre del 1916. Ero un ragazzo di sedici anni, venuto da un paese di provincia a concorrere per una borsa di studio. Il mio timore reverenziale era grande. I professori universitari, allora, mi parevano numi: bella cosa, se tali mi paressero ancora! Ma io e gli altri compagni di concorso non fummo atterriti né dal sorriso ironico e luminoso del Padre Ermenegildo Pistelli, né dalla barba dignitosa di Felice Ramorino. Ci atterrì proprio lui, Pasquali. Giovanissimo, aveva fama di terribile; e non giovava a darci coraggio nemmeno il suo aspetto di studente anziano in vacanza.
Negli scritti d'italiano e di latino eravamo andati bene, chi più, chi meno, un po' tutti; la commissione aveva deciso di dare un tema di greco difficile, per eliminare i meno meritevoli. Pasquali non intese a sordo. Scelse un passo brevissimo delle Operette morali di Plutarco: era un periodo solo, ma che valeva per cento. E poi, dettato il tema, ci spiegò subito, con bella franchezza, perché la commissione aveva deciso a quel modo. Naturalmente rimanemmo istupiditi: ci aveva annientati tutti, buoni e cattivi, con un colpo solo. Ma Pasquali è come la lancia di Peleo, che ferisce e risana. Mi vide più spaurito degli altri, mi si avvicinò, e mi disse; "In italiano e in latino, hai fatto meglio di tutti; me l'ha detto l'uccellino". "Sarà stato un uccellino con la tonaca", io risposi con folle audacia. Così nacque la nostra amicizia.
Purtroppo, quella sua bontà non bastò a portarmi fortuna per il lavoro di greco. Con i periodi farraginosi e artificiosi di Plutarco noi, ragazzi appena usciti dal liceo, non avevamo proprio nessuna confidenza. Facemmo tutti maluccio; e fecero forse peggio i meno stupidi, perché, invece di tradurre parola per parola, senza preoccuparsi del senso per evitare guai maggiori, vollero trovare un senso ad ogni costo, che andava, sì, ma che le parole greche non potevano avere. Dopo quel terribile esame chi pensava più di poter vincere la borsa?
Ma quando, alla prova orale, tradussi bene all'improvviso due passi dell'Odissea, Pasquali era più felice di me. E quando, un anno dopo aver vinto il concorso, ebbi trenta e lode all'esame di greco, fu per me una consolazione, ma per lui un trionfo.
Aveva ragione: il merito di quel progresso era assai più suo che mio. Con lui bisognava lavorar molto; e nemmeno era tanto facile seguirlo. Le lezioni erano dotte, dense, difficili. Pasquali, negli anni di Germania, s'era chiuso tra i libri come un baco nel suo bozzolo... Più tardi ha imparato... a incanalare in rivoli ameni il gran fiume della sua erudizione. E allora parlava con una rapidità vertiginosa, a scatti e a strappi, che sembravano raffiche di mitragliatrice; e ogni tanto punteggiava il discorso con Ach!, Gott!, Gott im Himmel! La cosa non era tanto singolare come poteva parere: egli era da poco tornato da Berlino, dove insegnava in tedesco. Ma quelle esclamazioni non erano, perciò, per noi meno strane; e sembravano rimproverarci della nostra ignoranza. Potergli tener dietro, a quell'uomo, che sembrava un terremoto!
Eppure, passati appena pochi giorni d'inquietudine e d'incertezza, tutto cominciò ad apparirci facile e piano. Pasquali chiosava egli stesso, ogni volta che lo incontravamo, dovunque lo incontravamo, le sue lezioni: ci spiegava chi era Suida (allora i dotti ritenevano ancora che fosse un uomo, non il titolo d'un libro), chi era Ateneo, chi era l'eruditissima Panfila, che cosa erano gli scolii.
A poco a poco ci accorgemmo d'un fatto sorprendente: nelle lezioni, quando c'era da spiegare una cosa veramente difficile, da dipanare una matassa intricata, proprio allora Pasquali diventava straordinariamente chiaro, sapeva render tutto facile con i più semplici espedienti pedagogici. Questa virtù di saper chiarire le cose più complesse e più ardue è rimasta sempre una delle qualità maggiori dello studioso. Tutti quelli che hanno letto il difficile libro di Eduardo Fraenkel sull'ictus e l'accento latino, sanno che, per capire bene il libro, è meglio leggere prima l'esposizione che ne fa in una sua recensione Pasquali: egli espone le teorie di Fraenkel con più chiarezza di Fraenkel stesso.
Dopo un mese, Pasquali era l'amico di tutti: a tutti prestava libri, ai più poveri anche danaro. E tutti andavano da lui per aiuto e consiglio, anche per cose che con la scuola non avevano proprio nulla a che fare. Egli accoglieva tutti: i più bravi, come i più scavezzacolli e sbuccioni. Per parecchi anni visse tra gli studenti e per gli studenti, in piena comunanza di vita con loro; ed era più lieto, più monello di loro…
"L'Indice", anno IV n.10, dicembre 1987
"L'Indice", anno IV n.10, dicembre 1987
3 commenti:
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Gentilissimo Salvatore Lo Leggio,
Visto che il brano da Lei postato, riguardo Perrotta su Pasquali, è di difficile reperibilità, e mi piacerebbe molto leggerlo integralmente, potrebbe postare le parti mancanti? Gliene sarai infinitamente grato,
Marco.
Gentilissimo Marco,
entro la prossima settimana, tornato a Perugia ove conservo le vecchie annate de "L'Indice", esaudirò la sua cortese richiesta. Cordialità. Salvatore Lo Leggio
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