1969-1989. La centralità operaia e la sua distruzione.
Sergio Bologna, studioso e militante di formazione operaista, è oggi uno dei teorici del "capitalismo cognitivo" e vede oggi nei "lavoratori della conoscenza", intesa in senso assai largo, il possibile soggetto dell'eversione anticapitalistica.
Nel gennaio del 1969 il "manifesto" pubblicò due suoi lunghi articoli che - più che rievocare l'autunno caldo - analizzano il suo significato sociale, l'affermazione cioè della centralità operaia, e raccontano soprattutto il dopo, di come cioè quella centralità operaia venga rapidamente distrutta. Secondo lui vi concorrono in molti: non solo - com'è ovvio - i padroni, ma anche i tecnici, i piccoli borghesi sessantottini, il Pci e tanti altri.
Le sue tesi mi appaiono, in più di un caso, forzate e perciò assai discutibili. Due punti trovo tuttavia ampiamente condivisibili: innanzitutto la necessità di studiare quel momento assumendo come luogo privilegiato di ricerca la fabbrica, grande, piccola e media e la denuncia della assoluta inadeguatezza degli storici, compresi i "mandarini della storia orale" a farlo; in secondo luogo nella corretta individuazione della cesura, del momento in cui si afferma una violenta frattura nei rapporti sociali, tra gli ultimi anni Settanta e i primi Ottanta, in un tempo che si può emblematizzare nei terribili "35 giorni" della Fiat nell'autunno del 1980.(S.L.L.)
Fiat anni Settanta. Operaio ai cancelli Particolare da una foto di Tano D'Amico |
Negli anni che vanno dal 1980 al 1983 più di trecento operai espulsi dalle fabbriche col meccanismo della cassa integrazione si suicidarono. E lo stillicidio di queste morti disperate continua tuttora. Io non conosco fenomeno analogo nella storia europea di questo secolo, forse per mia ignoranza o forse perché la morte operaia, comunque avvenga, non fa storia. Conosco altri territori della storia in cui soggetti appartenenti ad un medesimo gruppo socio-culturale si suicidarono : la Vienna crepuscolare dell'impero asburgico e l'Europa degli anni 1938-1941, quando il nazismo sembrava aver trionfato. Furono suicidi di intellettuali, in grande maggioranza, che volevano significare «la fine di un'epoca», la perdita di un orizzonte di speranza e di identità.
Il suicidio in genere viene considerato una malattia professionale dell'intellettuale decadente ; la «rude razza pagana» dell'operaio massa viene considerata immune da queste sollecitazioni di morte.
La mia proposta storiografica è quella di assumere quei suicidi di cassaintegrati come indizio, come traccia, per capire che cosa abbia significato la fine degli anni '70 — e quale fine ! — per la soggettività operaia, per i percorsi non scritti del suo immaginario. Quei suicidi sembrano indicare che per qualcuno, appartenente proprio a quel gruppo sociale, la fine degli anni '70 ha rappresentato un evento epocale così drammatico, una frattura così violenta nel sistema dei rapporti sociali, che la vita non meritava più di essere vissuta.
Quando parliamo di «fine di un'epoca» e di fine di una cultura non esprimiamo dunque un'enfasi di periodizzazione, parliamo di qualcosa di molto concreto, parliamo di un sistema di valori e di identità, che per qualcuno sono state tanto importanti quanto la vita. Dunque questo sistema di valori — e i meccanismi che hanno contribuito a determinarlo negli anni '70 — sono il primo dei territori storici da esplorare.
Ma quei suicidi dicono anche qualcosa di più concreto e specifico, e cioè che la grande ondata di espulsioni dalle fabbriche del 1980-83 è stata condotta non solo con criteri di epurazione politica ma con criteri di «igiene razziale». I primi della lista sono stati i malati, gli invalidi e molti dei suicidi sono stati determinati non tanto da condizioni economiche disperate quanto dalla perdita di un senso di appartenenza a un tessuto socio-culturale e di una cultura della solidarietà.
Quelle morti segnano non solo la fine della centralità operaia, ma anche la fine dello stato sociale (malgrado la cassa integrazione guadagni! ). E contengono la percezione lucida di un nuovo razzismo, quello che si scatena contro «i perdenti» con la brutalità sottile dell'esclusione.
Se l'idea («la traccia») che ci suggeriscono quelle morti è quella di un'epoca che ha rappresentato per la classe operaia qualcosa di diverso e di importante, il primo lavoro da fare è quello di capire perché gli anni '70 sono stati così importanti.
E' un percorso da esplorare all'interno della soggettività operaia, per ricostruire il cammino compiuto da decine di migliaia di persone, che conquistarono la capacità di liberarsi dal senso della disciplina, dalla paura, dalla subalternità. Cose in apparenza semplici, innocue, in realtà estremamente complesse ed eversive.
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